Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
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Le mie mani
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo.
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Le mie mani
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo.
Cos'altro mai puoi dirmi che io non sappia,
vena del sol che sangue dai alla terra,
sfilacciar quieto di nebbia rifratta
tra l'azzurro del mare e il ciel vermiglio?
Quanti tramonti affollano i ricordi,
quante lingue di fuoco sulle acque,
e tutti si confondono, di notte,
quando, calato il sole, chiudi gli occhi.
Non vidi mai differenza
tra il giocare a carte per denaro
e il vendere beni immobili
o occuparsi di legge, di banca, di qualunque altra cosa.
Perché tutto quanto è caso.
Nondimeno
c'è un uomo in gamba negli affari?
Quello "vede", davanti ai Re!
Bimba bruna e agile, il sole che fa la frutta,
quello che rassoda il grano, quello che piega le alghe,
ha fatto il tuo corpo allegro, i tuoi occhi luminosi
e la tua bocca che ha il sorriso dell'acqua.
Un sole nero e ansioso ti si arrotola nei fili
della nera capigliatura, quando stendi le braccia.
Tu giochi col sole come un ruscello
e lui ti lascia negli occhi due pozze oscure.
Bimba bruna e agile, nulla mi avvicina a te.
Tutto da te mi allontana, come dal mezzogiorno.
Sei la delirante gioventù dell'ape,
l'ebbrezza dell'onda, la forza della spiga.
Il mio cuore cupo ti cerca, tuttavia,
e amo il tuo corpo allegro, la tua voce sciolta e sottile.
Farfalla bruna dolce e definitiva
come il campo dì frumento e il sole, il papavero e l'acqua.
Lacrime dalle palpebre, dolori dei dolenti,
dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
triste nella prigione e triste quand'è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
da non mandare in giro neanche un cieco. I forti
siedono, il potere è in pugno ai deboli,
e in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccare nulla! Qui brucia, là arde;
codeste mani son per le tasche e le fronti.
Un'ombra...
Tutta la sciagura del mondo
e il mio amore addosso
come una bestia nuda.
Nel crepuscolo soave,
ascolta il canto del tuo amante,
ascolta la chitarra.
Bella, bella signora,
raccogli in fretta il tuo mantello,
perché il tuo amante possa gustare
la dolcezza dei tuoi capelli...
Nulla, spuma, vergine verso
A non designar che la coppa;
Tal si tuffa lungi una frotta
Di sirene, il dorso riverso.
Noi navighiamo, o miei diversi
Amici, io già sulla poppa
Voi sulla prua ch'apre alla rotta
Flutto di folgori e d'inverni;
Un'ebbrezza bella m'ingiunge
Senza temer beccheggio lungo
Di levar alto questo salve
Solitudine, scoglio, stella
A non importa ciò che valse
La cura bianca della vela.
Tu così avventuroso nel mio mito,
così povero sei fra le tue sponde.
Non hai, ch'io veda, margine fiorito.
Dove ristagni scopri cose immonde.
Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi,
o torrentello.
Tutto il tuo corso è quello
del mio pensiero, che tu risospingi
alle origini, a tutto il fronte e il bello
che in te ammiravo; e se ripenso i grossi
fiumi, l'incontro con l'avverso mare,
quest'acqua onde tu appena i piedi arrossi
nudi a una lavandaia,
la più pericolosa e la più gaia,
con isole e cascate, ancor m'appare;
e il poggio da cui scendi è una montagna.
Sulla tua sponda lastricata l'erba
cresceva, e cresce nel ricordo sempre;
sempre è d'intorno a te sabato sera;
sempre ad un bimbo la sua madre austera
rammenta che quest'acqua è fuggitiva,
che non ritrova più la sua sorgente,
né la sua riva; sempre l'ancor bella
donna si attrista, e cerca la sua mano
il fanciulletto, che ascoltò uno strano
confronto tra la vita nostra e quella
della corrente.
Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
tu sei la consueta dei miei giorni.
Assomigli ad un lago tutto uguale
sotto un cielo di latta tutto uguale.
Assonnato mi muovo sulla riva.
Non voglio non desider, neppure
penso.
Mi tocco per sentir se sono.
È l'essere e il non esser, come l'acqua
e il cielo di quel lago si confondono.
Diventa il mio dolore quel d'un altro
e la vita non è né lieta né triste.
T'odio, compagna assidua dei miei giorni,
che alla vita non mi sottrai, facendomi
come il sonno una cosa inanimata,
ma me la lasci solo rasentare.
Poiché son rassegnato a viver, voglio
che ad ogni ora del dì mi pesi sopra,
mi tocchi nella mia carne vitale.
Voglio il Dolore che m'abbranchi forte
e collochi nel centro della Vita.
Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
io rassegnato aspetto che tu passi.
Ha messo la sua testa il domatore
nella gola del leone
io
ho infilato due dita solamente
nel gargarozzo dell'Alta Società
Ed essa non ha avuto il tempo
di mordermi
Anzi semplicemente
urlando ha vomitato
un po' della dorata bile
a cui è tanto affezionata
Per riuscire in questo giuoco
utile e divertente
Lavarsi le dita
accuratamente
in una pinta di buon sangue
a ognuno la sua platea.