Sto segnando da tempo con croci di fuoco l'atlante bianco del tuo corpo. La mia bocca era un ragno che passava nascondendosi. In te, dietro te, timorosa, assetata.
Storie da raccontarti sulla sponda della sera, perché tu non sia triste, bambola triste e dolce. Un cigno, un albero, qualcosa che è lontano e gioioso. La stagione dell'uva, la stagione matura e piena di frutti.
Io che ho vissuto in un porto e da lì ti amavo. La solitudine solcata di sogno e di silenzio. Rinchiuso tra il mare e la tristezza. Silenzioso, delirante, tra due gondolieri immobili.
Tra le labbra e la voce, qualcosa va morendo. Qualcosa che ha ali d'uccello, fatto d'angoscia e d'oblio. Così come e reti non trattengono l'acqua. Bambola mia, restano solo gocce tremanti. Eppure, qualcosa canta tra queste parole fugaci. Qualcosa canta, qualcosa sale fino alla mia avida bocca. Oh poterti celebrare con tutte le parole della gioia. Cantare, bruciare, fuggire, come un campanile nelle mani di un folle. Mia triste tenerezza, in cosa muti all'improvviso? Quando o raggiunto il vertice più ardito e freddo il mio cuore si chiude come un fiore notturno.
Cantava al buio d'aia in aia il gallo. E gracidò nel bosco la cornacchia: il sole si mostrava a finestrelle. Il sol dorò la nebbia della macchia, poi si nascose; e piovve a catinelle. Poi fra il cantare delle raganelle guizzò sui campi un raggio lungo e giallo. Stupìano i rondinotti dell'estate di quel sottile scendere di spille: era un brusìo con languide sorsate e chiazze larghe e picchi a mille a mille; poi singhiozzi, e gocciar rado di stille: di stille d'oro in coppe di cristallo.
Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda. La scienza del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza triste, delicata, ci rubò la paura, fu lezione di giorni uniti alla morte tradita, al vilipendio dei ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fucileria degli sbarchi, un conto di numeri bassi che tornava esatto concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù nel poco spazio che sempre ti hanno dato. Anche a me misurarono ogni cosa, e ho portato il tuo nome un po' più in là dell'odio e dell'invidia. Quel rosso del tuo capo era una mitria, una corona con le ali d'aquila. E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali di partenza colorati dalla lanterna notturna, e qui da una ruota imperfetta del mondo, su una piena di muri serrati, lontano dai gelsomini d'Arabia dove ancora tu sei, per dirti ciò che non potevo un tempo - difficile affinità di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo cicale del biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone: "Baciamu li mani". Questo, non altro. Oscuramente forte è la vita.
Sino al trono di Dio anciò mio cor gli accenti, Che in murmure tremendo Rispondono i torrenti, E dalla ferrea calma Delle notti profonde Palma battendo a palma Ogni morto risponde.
D'entusïasmo ho l'anima Albergo; e sol d'un Nume Io son cantor: degli angeli L'impenetrabil lume Circonda il mio pensiero, Ch'erto su lucid'ali, Sprezza l'invito altero Dè superbi mortali.
E coronar di laudi Dovrò chi turpe e folle Splendido sol per l'auro Sa l'orgoglio s'estolle? Che dir deggio di lui? Pria di giustizia il brando Sù forti bracci sui Vada folgoreggiando;
E canterò. Nettarea Da me non cerchi ei lode, Se a lutulenta in braccio Sorte tripudia e gode, E tra un'immensa schiera D'insania al carro avvinto scioglie con sua man nera A iniquitate il cinto.
E tu chi sei che il titolo Santo d'amico usurpi? E vile d'amicizia L'aspetto almo deturpi? Chi sei tu che m'inviti Di gloria a spander raggio E a sciòrre inni graditi A chi in virtù è selvaggio?
Non sai che santuario Al ver nell'alma alzai E che io del vero antistite Sempre d'esser giurai? Non sai che mercar fama Da tal canto non curo, E più dolce m'è brama Sul ver posarmi oscuro?
Vero suonò di Davide Il pastoral concento, E a Dio piacque il veridico Suono, e tra cento e cento L'unse à popoli ebrei Rege di pace, e adorni D'illustri eventi e bèi Fè dell'uom giusto i giorni.
E immagine d'obbrobrio Vuoi tu farmi, o profano? Oh! quell'immonda faccia Copriti con la mano Lungi da me: chi fia Cui faccian forza i detti Ch'io l'alta cetra mia Di ricca peste infetti!
Garrir fole non odemi L'atrio di adulazione, E in questa solitudine Dall'aurata prigione Fuggo; esecrando il folle Che blandisce con mèle Il grande; e in sen gli bolle Rancor, invidia, e fiele.
Dunque chi vuol, d'encomio Canti impudente intuoni Per lo tuo eroe; ch'io cantici Fra gli angelici suoni Ergo al Solopossente, Che dall'empirea sede Gl'inni in letizia sente Di verità e di fede.
Sì, lo so, mio diletto, nulla esiste se non il tuo amore: questa luce dorata che danza sulle foglie queste nubi pigre che navigano nel cielo questa brezza che passando lascia fresca la mia fronte.
La luce del mattino ha inondato i miei occhi: questo è il tuo messaggio al mio cuore. Il tuo viso si è chinato su di me i tuoi occhi guardano nei miei e il mio cuore ha toccato i tuoi piedi.
Ragion d'amore in me fulge ogni giorno (anche se muto d'umore e se intorno oscura è l'aria, lo spirito avaro) grazie all'evento della tua presenza nella quale ravviso l'insorgenza di un dono acceso di un mistero raro.
Improvviso il mille novecento cinquanta due passa sull'Italia: solo il popolo ne ha un sentimento vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia la modernità, benché sempre il più moderno sia esso, il popolo, spanto in borghi, in rioni, con gioventù sempre nuove - nuove al vecchio canto - a ripetere ingenuo quello che fu.
Scotta il primo sole dolce dell'anno sopra i portici delle cittadine di provincia, sui paesi che sanno ancora di nevi, sulle appenniniche greggi: nelle vetrine dei capoluoghi i nuovi colori delle tele, i nuovi vestiti come in limpidi roghi dicono quanto oggi si rinnovi il mondo, che diverse gioie sfoghi...
Ah, noi che viviamo in una sola generazione ogni generazione vissuta qui, in queste terre ora umiliate, non abbiamo nozione vera di chi è partecipe alla storia solo per orale, magica esperienza; e vive puro, non oltre la memoria della generazione in cui presenza della vita è la sua vita perentoria.
Nella vita che è vita perché assunta nella nostra ragione e costruita per il nostro passaggio - e ora giunta a essere altra, oltre il nostro accanito difenderla - aspetta - cantando supino, accampato nei nostri quartieri a lui sconosciuti, e pronto fino dalle più fresche e inanimate ère - il popolo: muta in lui l'uomo il destino.
E se ci rivolgiamo a quel passato ch'è nostro privilegio, altre fiumane di popolo ecco cantare: recuperato è il nostro moto fin dalle cristiane origini, ma resta indietro, immobile, quel canto. Si ripete uguale. Nelle sere non più torce ma globi di luce, e la periferia non pare altra, non altri i ragazzi nuovi...
Tra gli orti cupi, al pigro solicello Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini d'Ivrea gridano, e pei valloncelli di Toscana, con strilli di rondinini: Hor atorno fratt Helya! La santa violenza sui rozzi cuori il clero calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia feroce nel feudo provinciale l'Impero da Iddio imposto: e il popolo canta.
Un grande concerto di scalpelli sul Campidoglio, sul nuovo Appennino, sui Comuni sbiancati dalle Alpi, suona, giganteggiando il travertino nel nuovo spazio in cui s'affranca l'Uomo: e il manovale Dov'andastà jersera... ripete con l'anima spanta nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù resta nel popolo. E il popolo canta.
Apprende il borghese nascente lo Ça ira, e trepidi nel vento napoleonico, all'Inno dell'Albero della Libertà, tremano i nuovi colori delle nazioni. Ma, cane affamato, difende il bracciante i suoi padroni, ne canta la ferocia, Guagliune 'e mala vita! In branchi feroci. La libertà non ha voce per il popolo cane. E il popolo canta.
Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l'antica, la festiva leggerezza dei semplici. Ma quale dura certezza tu sollevi insieme d'imminente riscossa, in mezzo a ignari tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare.
Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole, questa storia il cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria... E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa.
Io che come un sonnambulo cammino per le mie trite vie quotidiane, vedendoti dinanzi a me trasalgo.
Tu mi cammini innanzi lenta come una regina. Regolo il mio passo io subito destato dal mio sonno sul tuo ch'è come una sapiente musica. E possibilità d'amore e gloria mi s'affacciano al cuore e me lo gonfiano. Pei riccioletti folli d'una nuca per l'ala d'un cappello io posso ancora alleggerirmi della mia tristezza. Io sono ancora giovane, inesperto col cuore pronto a tutte le follie.
Una luce di fa nel dormiveglia. Tutto è sospeso come in un'attesa. Non penso più. Sono contento e muto. Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.