Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il vento cala e se ne va

Il vento cala e se ne va
lo stesso vento non agita
due volte lo stesso ramo
di ciliegio
gli uccelli cantano nell'albero
ali che voglion volare
la porta è chiusa
bisogna forzarla
bisogna vederti, amor mio,
sia bella come te, la vita
sia amica e amata come te

so che ancora non è finito
il banchetto della miseria ma
finirà...
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Rio Salto

    Lo so: non era nella valle fonda
    suon che s'udìa di palafreni andanti:
    era l'acqua che giù dalle stillanti
    tegole a furia percotea la gronda.
    Pur via e via per l'infinita sponda
    passar vedevo i cavalieri erranti;
    scorgevo le corazze luccicanti,
    scorgevo l'ombra galoppar sull'onda.
    Cessato il vento poi, non di galoppi
    il suono udivo, nè vedea tremando
    fughe remote al dubitoso lume;
    ma poi solo vedevo, amici pioppi!
    Brusivano soave tentennando
    lungo la sponda del mio dolce fiume.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Amore e 'l cor gentil sono una cosa

      Amore e 'l cor gentil sono una cosa,
      sì come il saggio in suo dittare pone,
      e così esser l'un sanza l'altro osa
      com'alma razional sanza ragione.
      Falli natura quand'è amorosa,
      Amor per sire e 'l cor per sua magione,
      dentro la qual dormendo si riposa
      talvolta poca e tal lunga stagione.
      Bieltate appare in saggia donna pui,
      che piace a li occhi sì, che dentro al core
      nasce un disio de la cosa piacente;
      e tanto dura talora in costui,
      che fa svegliar lo spirito d'Amore.
      E simil face in donna omo valente.
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        Scritta da: Nicola G.
        in Poesie (Poesie d'Autore)
        Ogni parte aspira sempre
        a congiungersi con l'intero
        per sfuggire all'imperfezione;

        L'anima sempre aspira
        ad abitare un corpo
        perché senza gli organi corporei
        non può agire ne sentire.

        Essa funziona dentro il corpo
        come fa il vento
        dentro le canne di un organo,
        se una delle canne si guasta
        il vento non produce più il giusto suono.
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          in Poesie (Poesie d'Autore)
          Apro la sigaretta
          come fosse una foglia di tabacco
          e aspiro avidamente
          l'assenza della tua vita.

          È così bello sentirti fuori,
          desideroso di vedermi
          e non mai ascoltato.

          Sono crudele, lo so,
          ma il gergo dei poeti è questo:
          un lungo silenzio acceso
          dopo un lunghissimo bacio.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            La neve cade

            La neve cade, la neve cade
            Alle bianche stelline in tempesta
            Si protendono i fiori del geranio
            Dallo stipite della finestra:
            La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
            ogni cosa si lancia in un volo,
            i gradini della nera scala,
            la svolta del crocicchio.
            La neve cade, la neve cade,
            come se non cadessero i fiocchi,
            ma in un mantello rattoppato
            scendesse a terra la volta celeste.
            Come se con l'aspetto di un bislacco
            Dal pianerottolo in cima alle scale,
            di soppiatto, giocando a rimpiattino,
            scendesse il cielo dalla soffitta.
            Perché la vita stringe. Non fai a tempo
            A girarti dattorno, ed è Natale.
            Solo un breve intervallo:
            guardi, ed è l'Anno Nuovo.
            Densa, densissima la neve cade.
            E chi sa che il tempo non trascorra
            Per le stesse orme, nello stesso ritmo,
            con la stessa rapidità o pigrizia,
            tenendo il passo con lei?
            Chi sa che gli anni, l'uno dietro l'altro,
            non si succedano come la neve,
            o come le parole d'un poema?
            La neve cade, la neve cade,
            la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
            il pedone imbiancato,
            le piante sorprese,
            la svolta del crocicchio.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Il grillo dei campi e il grillo del focolare

              Mai la terrestre poesia non muore.
              Quando tutti gli uccelli al solleone
              vengono meno e stan nascosti in mezzo
              la frescura degli alberi, una voce
              corre di siepe in siepe intorno al prato
              su cui appena passò rasa la falce:
              è del grillo dei campi, il capintesta
              nel tripudio d'estate, mai godere
              non cessa, perché quando a giuochi è stanco
              posa con agio sotto una grata erba.
              Fine non ha la poesia terrestre.
              D'inverno, in una sera solitaria,
              quando il silenzio è opera del gelo,
              strepe fuor della stufa il suon del grillo
              del focolare che col caldo sempre
              viene crescendo, e a uno che smarrito
              a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto
              par del grillo dei campi ai colli erbosi.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Al padre

                Dove sull'acque viola
                era Messina, tra fili spezzati
                e macerie tu vai lungo binari
                e scambi col tuo berretto di gallo
                isolano. Il terremoto ribolle
                da due giorni, è dicembre d'uragani
                e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
                nei carri merci e noi bestiame infantile
                contiamo sogni polverosi con i morti
                sfondati dai ferri, mordendo mandorle
                e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
                del dolore mise verità e lame
                nei giochi dei bassopiani di malaria
                gialla e terzana gonfia di fango.

                La tua pazienza
                triste, delicata, ci rubò la paura,
                fu lezione di giorni uniti alla morte
                tradita, al vilipendio dei ladroni
                presi fra i rottami e giustiziati al buio
                dalla fucileria degli sbarchi, un conto
                di numeri bassi che tornava esatto
                concentrico, un bilancio di vita futura.

                Il tuo berretto di sole andava su e giù
                nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
                Anche a me misurarono ogni cosa,
                e ho portato il tuo nome
                un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
                Quel rosso del tuo capo era una mitria,
                una corona con le ali d'aquila.
                E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
                ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
                di partenza colorati dalla lanterna
                notturna, e qui da una ruota
                imperfetta del mondo,
                su una piena di muri serrati,
                lontano dai gelsomini d'Arabia
                dove ancora tu sei, per dirti
                ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
                di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
                cicale del biviere, agavi lentischi,
                come il campiere dice al suo padrone:
                "Baciamu li mani". Questo, non altro.
                Oscuramente forte è la vita.
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                  Scritta da: Pierluigi Camilli
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  Lo Stivale

                  Io non son della solita vacchetta,
                  né sono uno stival da contadino;
                  e se pajo tagliato coll'accetta,
                  chi lavorò non era un ciabattino:
                  mi fece a doppie suola e alla scudiera,
                  e per servir da bosco e da riviera.

                  Dalla coscia giù giù sino al tallone
                  sempre all'umido sto senza marcire;
                  son buono a caccia e per menar di sprone,
                  e molti ciuchi ve lo posson dire:
                  tacconato di solida impuntura,
                  ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.

                  Ma l'infilarmi poi non è sì facile,
                  né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
                  anzi affatico e stroppio un piede gracile,
                  e alla gamba dei più son disadatto;
                  portarmi molto non poté nessuno,
                  m'hanno sempre portato a un po' per uno.

                  Io qui non vi farò la litania
                  di quei che fur di me desiderosi;
                  ma così qua e là per bizzarria
                  ne citerò soltanto i più famosi,
                  narrando come fui messo a soqquadro,
                  e poi come passai di ladro in ladro.

                  Parrà cosa incredibile: una volta,
                  non so come, da me presi il galoppo,
                  e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
                  ma camminar volendo un poco troppo,
                  l'equilibrio perduto, il proprio peso
                  in terra mi portò lungo e disteso.

                  Allora vi successe un parapiglia;
                  e gente d'ogni risma e d'ogni conio
                  pioveano di lontan le mille miglia,
                  per consiglio d'un Prete o del Demonio:
                  chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
                  gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
                  Volle il Prete, a dispetto della fede,
                  calzarmi coll'ajuto e da sé solo;
                  poi sentì che non fui fatto al suo piede,
                  e allora qua e là mi dette a nolo:
                  ora alle mani del primo occupante
                  mi lascia, e per lo più fa da tirante.

                  Tacca col Prete a picca e le calcagna
                  volea piantarci un bravazzon tedesco,
                  ma più volte scappare in Alemagna
                  lo vidi sul caval di San Francesco:
                  in seguito tornò; ci s'è spedato,
                  ma tutto fin a qui non m'ha infilato.

                  Per un secolo e più rimasto vuoto,
                  cinsi la gamba a un semplice mercante;
                  mi riunse costui, mi tenne in moto,
                  e seco mi portò fino in Levante, -
                  ruvido sì, ma non mancava un ette,
                  e di chiodi ferrato e di bullette.

                  Il mercante arricchì, credè decoro
                  darmi un po' più di garbo e d'apparenza:
                  ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro,
                  ma un tanto scapitai di consistenza;
                  e gira gira, veggo in conclusione
                  che le prime bullette eran più buone.

                  In me non si vedea grinza né spacco,
                  quando giù di ponente un birichino
                  ea una galera mi saltò sul tacco,
                  e si provò a ficcare anco il zampino;
                  ma largo largo non vi stette mai,
                  anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.

                  Fra gli altri dilettanti oltramontani,
                  per infilarmi un certo re di picche
                  ci si messe cò piedi e colle mani;
                  ma poi rimase lì come berlicche,
                  quando un cappon, geloso del pollajo,
                  gli minacciò di fare il campanajo.

                  Da bottega a compir la mia rovina
                  saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
                  un certo professor di medicina,
                  che per camparmi sulla buccia, ordì
                  una tela di cabale e d'inganni
                  che fu tessuta poi per trecent'anni.

                  Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
                  e a forza d'ammollienti e d'impostura
                  tanto raspò, che mi strappò la pelle;
                  e chi dopo di lui mi prese in cura,
                  mi concia tuttavia colla ricetta
                  di quella scuola iniqua e maledetta.

                  Ballottato così di mano in mano,
                  da una fitta d'arpìe preso di mira,
                  ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano
                  che si messero a fare a tira tira:
                  alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
                  ma gli rimasi rotto e sbertucciato.

                  Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice
                  che lo Spagnolo mi portò malissimo:
                  m'insafardò di morchia e di vernice,
                  chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
                  ma di sottecche adoperò la lima,
                  e mi lasciò più sbrendoli di prima.

                  A mezza gamba, di color vermiglio,
                  per segno di grandezza e per memoria,
                  m'era rimasto solamente un Giglio:
                  ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria,
                  ai Barbari lo diè, con questo patto
                  di farne una corona a un suo mulatto.

                  Da quel momento, ognuno in santa pace
                  la lesina menando e la tanaglia,
                  cascai dalla padella nella brace:
                  vicerè, birri, e simile canaglia
                  mi fecero angherie di nuova idea,
                  et diviserunt vestimenta, mea.

                  Così passato d'una in altra zampa
                  d'animalacci zotici e sversati,
                  venne a mancare in me la vecchia stampa
                  di quei piedi diritti e ben piantati,
                  cò quali, senza andar mai di traverso,
                  il gran giro compiei dell'universo.

                  Oh povero stivale! Ora confesso
                  che m'ha gabbato questa matta idea:
                  quand'era tempo d'andar da me stesso,
                  colle gambe degli altri andar volea;
                  ed oltre a ciò, la smania inopportuna
                  di mutar piede per mutar fortuna.

                  Lo sento e lo confesso; e nondimeno
                  mi trovo così tutto in isconquasso,
                  che par che sotto mi manchi il terreno
                  se mi provo ogni tanto a fare un passo;
                  ché a forza di lasciarmi malmenare,
                  ho persa l'abitudine d'andare.

                  Ma il più gran male me l'han fatto i Preti,
                  razza maligna e senza discrezione;
                  e l'ho con certi grulli di poeti,
                  che in oggi si son dati al bacchettone:
                  non c'è Cristo che tenga, i Decretali
                  vietano ai Preti di portar stivali.

                  E intanto eccomi qui roso e negletto,
                  sbrancicato da tutti, e tutto mota;
                  e qualche gamba da gran tempo aspetto
                  che mi levi di grinze e che mi scuota;
                  non tedesca, s'intende, né francese,
                  ma una gamba vorrei del mio paese.

                  Una già n'assaggiai d'un certo Sere,
                  che se non mi faceva il vagabondo,
                  in me potea vantar di possedere
                  il più forte stival del Mappamondo:
                  ah! Una nevata in quelle corse strambe
                  a mezza strada gli gelò le gambe.

                  Rifatto allora sulle vecchie forme
                  e riportato allo scorticatojo,
                  se fui di peso e di valore enorme,
                  mi resta a mala pena il primo cuojo;
                  e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
                  ci vuol altro che spago e piantastecchi.

                  La spesa è forte, e lunga è la fatica:
                  bisogna ricucir brano per brano;
                  ripulir le pillacchere; all'antica
                  piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
                  ringambalar la polpa ed il tomajo:
                  ma per pietà badate al calzolaio!

                  E poi vedete un po': qua son turchino,
                  là rosso e bianco, e quassù giallo e nero;
                  insomma a toppe come un arlecchino;
                  se volete rimettermi davvero,
                  fatemi, con prudenza e con amore,
                  tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.

                  Scavizzolate all'ultimo se v'è
                  un uomo purché sia, fuorché poltrone;
                  e se quando a costui mi trovo in piè,
                  si figurasse qualche buon padrone
                  di far con meco il solito mestiere,
                  lo piglieremo a calci nel sedere.
                  (Giuseppe Giusti)


                  La chiosa di Pierluigi

                  Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto:
                  han provato per centosettant'anni
                  a cercar di scoprire il piede adatto;
                  con alti e bassi han fatto altri danni;
                  ai Preti ora noi dobbiam sommare
                  chi d'Oltremare ci viene a provare!

                  E or caro Giuseppe, mio Maestro,
                  hanno la gamba pensato di trovare:
                  hanno creduto che col piede destro
                  di nuovo lui potesse camminare!
                  Il guaio è che nessuno ha mai badato
                  per quale piede l'hanno fabbricato!
                  (Pierluigi Camilli)
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