Mai la terrestre poesia non muore. Quando tutti gli uccelli al solleone vengono meno e stan nascosti in mezzo la frescura degli alberi, una voce corre di siepe in siepe intorno al prato su cui appena passò rasa la falce: è del grillo dei campi, il capintesta nel tripudio d'estate, mai godere non cessa, perché quando a giuochi è stanco posa con agio sotto una grata erba. Fine non ha la poesia terrestre. D'inverno, in una sera solitaria, quando il silenzio è opera del gelo, strepe fuor della stufa il suon del grillo del focolare che col caldo sempre viene crescendo, e a uno che smarrito a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto par del grillo dei campi ai colli erbosi.
Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda. La scienza del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza triste, delicata, ci rubò la paura, fu lezione di giorni uniti alla morte tradita, al vilipendio dei ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fucileria degli sbarchi, un conto di numeri bassi che tornava esatto concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù nel poco spazio che sempre ti hanno dato. Anche a me misurarono ogni cosa, e ho portato il tuo nome un po' più in là dell'odio e dell'invidia. Quel rosso del tuo capo era una mitria, una corona con le ali d'aquila. E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali di partenza colorati dalla lanterna notturna, e qui da una ruota imperfetta del mondo, su una piena di muri serrati, lontano dai gelsomini d'Arabia dove ancora tu sei, per dirti ciò che non potevo un tempo - difficile affinità di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo cicale del biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone: "Baciamu li mani". Questo, non altro. Oscuramente forte è la vita.
Sino al trono di Dio anciò mio cor gli accenti, Che in murmure tremendo Rispondono i torrenti, E dalla ferrea calma Delle notti profonde Palma battendo a palma Ogni morto risponde.
D'entusïasmo ho l'anima Albergo; e sol d'un Nume Io son cantor: degli angeli L'impenetrabil lume Circonda il mio pensiero, Ch'erto su lucid'ali, Sprezza l'invito altero Dè superbi mortali.
E coronar di laudi Dovrò chi turpe e folle Splendido sol per l'auro Sa l'orgoglio s'estolle? Che dir deggio di lui? Pria di giustizia il brando Sù forti bracci sui Vada folgoreggiando;
E canterò. Nettarea Da me non cerchi ei lode, Se a lutulenta in braccio Sorte tripudia e gode, E tra un'immensa schiera D'insania al carro avvinto scioglie con sua man nera A iniquitate il cinto.
E tu chi sei che il titolo Santo d'amico usurpi? E vile d'amicizia L'aspetto almo deturpi? Chi sei tu che m'inviti Di gloria a spander raggio E a sciòrre inni graditi A chi in virtù è selvaggio?
Non sai che santuario Al ver nell'alma alzai E che io del vero antistite Sempre d'esser giurai? Non sai che mercar fama Da tal canto non curo, E più dolce m'è brama Sul ver posarmi oscuro?
Vero suonò di Davide Il pastoral concento, E a Dio piacque il veridico Suono, e tra cento e cento L'unse à popoli ebrei Rege di pace, e adorni D'illustri eventi e bèi Fè dell'uom giusto i giorni.
E immagine d'obbrobrio Vuoi tu farmi, o profano? Oh! quell'immonda faccia Copriti con la mano Lungi da me: chi fia Cui faccian forza i detti Ch'io l'alta cetra mia Di ricca peste infetti!
Garrir fole non odemi L'atrio di adulazione, E in questa solitudine Dall'aurata prigione Fuggo; esecrando il folle Che blandisce con mèle Il grande; e in sen gli bolle Rancor, invidia, e fiele.
Dunque chi vuol, d'encomio Canti impudente intuoni Per lo tuo eroe; ch'io cantici Fra gli angelici suoni Ergo al Solopossente, Che dall'empirea sede Gl'inni in letizia sente Di verità e di fede.
Sì, lo so, mio diletto, nulla esiste se non il tuo amore: questa luce dorata che danza sulle foglie queste nubi pigre che navigano nel cielo questa brezza che passando lascia fresca la mia fronte.
La luce del mattino ha inondato i miei occhi: questo è il tuo messaggio al mio cuore. Il tuo viso si è chinato su di me i tuoi occhi guardano nei miei e il mio cuore ha toccato i tuoi piedi.
Sogno d'un dì d'estate. Quanto scampanellare tremulo di cicale! Stridule pel filare moveva il maestrale le foglie accartocciate. Scendea tra gli olmi il sole in fascie polverose; erano in ciel due sole nuvole, tenui, róse: due bianche spennellate in tutto il ciel turchino. Siepi di melograno, fratte di tamerice, il palpito lontano d'una trebbiatrice, l'angelus argentino... dov'ero? Le campane mi dissero dov'ero, piangendo, mentre un cane latrava al forestiero, che andava a capo chino.
Presso il rudere un pezzente cena tra le due fontane: pane alterna egli col pane, volti gli occhi all'occidente. Fa un incanto nella mente: carne è fatto, ecco, l'un pane. Tra il gracchiare delle rane sciala il mago sapiente. Sorge e beve alle due fonti: chiara beve acqua nell'una, ma nell'altra un dolce vino. Giace e guarda: sopra i monti sparge il lume della luna; getta l'arti al ciel turchino, baldacchino di mirabile lavoro, ch'ei trapunta a stelle d'oro.
Gloria del disteso mezzogiorno quand'ombra non rendono gli alberi, e piú e piú si mostrano d'attorno per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, - e un secco greto. Il mio giorno non è dunque passato: l'ora piú bella è di là dal muretto che rinchiude in un occaso scialbato.
L'arsura, in giro; un martin pescatore volteggia s'una reliquia di vita. La buona pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia piú compita.
Feritevi, ferite, viperette mordaci, dolci guerriere ardite del Diletto e d'Amor, bocche sagaci! Saettatevi pur, vibrate ardenti l'armi vostre pungenti! Ma le morti sien vite, ma le guerre sien paci, sian saette le lingue e piaghe i baci.