Scritta da: Oriella Beretta
in Poesie (Poesie personali)
Sono
Sono nata fiore
delicata,
fragile,
profumata,
con petali bianchi
ma po la vita
mi ha nascosta
in mezzo alle spine.
Composta lunedì 22 maggio 2017
Sono nata fiore
delicata,
fragile,
profumata,
con petali bianchi
ma po la vita
mi ha nascosta
in mezzo alle spine.
Linee verso il cielo le attese,
fanno giochi d'equlibrio sulla fune dei pensieri,
cadono radendo il suolo
ma fanno piroette
senza infrangersi nel fango.
Feriscono ma non muiono
le attese,
le ritrovi in fondo ai pensieri di ritorno,
le trovi fra le mani che si sfiorano per caso,
le vedi prepotenti ricomporsi
tra le lacrime che tu non meritasti,
tra i tragitti di quelle navi
che salpano ogni giorno
e tra queste parole
che hanno il sapore antico di verdi montagne
dove riposano ed echeggiano le immortali attese del nostro domani.
Dall'occhio scuro della Notte
sgorga il Mattino
si stende sui viali come velo in controluce,
ne sento i passi lievi sulle foglie intorpidite,
m'appoggio sul suo fianco
su cui s'appiana il mio pensiero.
E sul suo foglio bianco
le mie speranze caparbie
si fondono coi germogli che mi nascono nel petto
ogni volta che contemplo e mi confondo
col suo volto denso
di folle meraviglia.
Spicchio di luna
sulle palme del porto.
Acqua ferma del mare.
Nei chiaroscuri della sera
pennellate di viola e porpora.
Tela dipinta del tramonto.
L'ombra di un galeone,
di una grande matita contro il cielo.
Fregi barocchi di palazzi
s'illuminano.
La città spegne i suoi colori,
si prepara
ad immergersi
nell'inchiostro della notte.
Per decreto del sangue
trasse dall'orcio azzurro della fuga
il ben scolpito ed affilato brando
e lo vibrò più alto
dei confini vitali: su cervici
immaginose, cui la sua miseria
umana contrastava in agonia
di serafiche forze. E non lo volle
vittorioso la Furia che s'accampa
ora pietosa al lato del suo scudo.
Ombra fedele come una custodia,
cane segugio di quella mia musica
che sono i passi scritti sui leggii
dei marciapiedi. Ombra, formica china
trascini la mollica del mio corpo
al nulla della meta più distante.
Ombra, neonata, la mia carne un latte
e le piante dei piedi, infimi seni
cui succhi quel guadagno ch'è la vita.
Ombra, carezza lieve del riflesso
biondo, solare, ombra, più crudele
masso attaccato a sprofondanti colli,
giù verso il fondo – ché s'annega insieme –
del mare caldo della passeggiata,
eco di suola senza eco di scarpa
e suo privilegiato farne a meno!
Cadavere che porto inseppellito,
onnipresente bara che la strada
porta sulle sue spalle
nel funebre corteo ch'è solitudine!
Ombra vigliacca notte che ha implorato
china fin sotto i piedi ad ogni passo,
aspettando che alzassi le mie scarpe
per rifugiarsi dalle paranoie
del freddo, della pioggia, del suo essere,
sentirsi nuda, tranne sotto il tetto
provvisorio che io potevo offrirle!
Chè sembri allontanarmi dalla luce
anche se non sprofondo
nel solo vero inferno
del sottosuolo! Chè, più di mia madre,
mi ami, ed è un amore possessivo,
ma mi ami, m'ami, non mi uccideresti
lo faresti a te stessa e non vorresti!
Ombra, che ti riscopro
cane fedele a sera, quando scelgo
di cadere sul letto del mio sonno,
entrato il corpo delle mie pupille
sotto quelle lenzuola delle palpebre!
Ombra, ché sembri non dormire mai!
Ombra, me senza sensi!
Ombra la senza voce, senza sguardo,
la senza mano e piedi, senza naso,
Morte che in vita vive solo inerzia!
O forse Ombra caduta
in me, che chiedi l'approfondimento
e ti spalanchi in più buio colore,
emergi, usi il corpo come bara
per vivere sepolta, parassita!
Ombra, custodia di un non mai suonato
strumento della luce, unica nota,
fama che si bisbiglia immeritata
del me compositore che non sono,
un non talento che infine è pur dono,
composizione stanca trascinata
fin dagli inizi, già verso la fine,
e non coraggio dell'incompiutezza,
ché ci pensa la Morte per finirla.
Ombra, bara da cui fuoriuscirà
vivendo solo un giorno quella data.
Notte, ti penso, folle, quel totale
di tutte le ombre divenute eterne
di quelli morti che sono vissuti!
Soltanto echi di pietra dei miei occhi,
palpebre condannate a cecità,
ventre tattile mima affusolandosi
le doglie di quel parto misterioso,
O piangere le lettere di lacrime,
usando il rigo come fazzoletto,
andare a capo è aversele asciugate –
illuso solamente, questo sono! –
e ancora piango, utero, la mano,
grida il suo movimento
cuccioli di parole,
madre prolificissima
si mostra tutto l'aborto spontaneo
del sangue che diviene infine nero,
ché troppo a lungo mi è rimasto dentro!
Avrai imparato che la gravidanza
era già vita e il ventre era il suo mondo,
dato alla luce solo della madre,
e il parto un lutto e un mettere ad un altro
mondo, fuori dal proprio, il proprio figlio.
Così ogni creatura, a sua insaputa,
nascerà sempre orfana.
E la distanza, pur ravvicinata,
tra madre e figlio, mentre lo carezza
la prima volta, è già il suo pentimento
per averlo spedito all'aldilà.
E segno ineluttabile del Fato
lo stacco del cordone ombelicale,
come il filo che spezza con le forbici,
delle tre Parche, Atropo.
Se penso ai fogli come bare bianche,
cosa son io che ho scritto l'impossibile?
Fogli strappati senza ripotere
farli tornare al prima, alla chiusura
d'un libro o d'un quaderno.
Oh, gli scritti degli altri
quando aprivo e sfogliavo
nella lettura, l'una dopo l'altra
sembrava ritornassero alla vita.
Quale consolazione posso darmi?
Sol essere il lettore di me stesso?
Parole scritte per non esser dette,
rimaste a lungo chiuse nella gabbia
alata della mente,
sopravvissute come quell'uccello
che non si lascia andare, liberandolo,
a cieli d'aria, d'aria senza fine,
che non trovano pagina nell'altro,
nella risposta, nel suo ascoltarle,
nel ricordarle, nel farne tesoro.
Sembra un avervi uccise, ma era come
fosse già morte prima.
Dal grembo del mio tutto – ora son madre! –
vedo le dita diventarmi occhi
e palpebre abbassate dalla nascita,
piangervi come lacrime di sangue
delle vostre pupille! Chè nessuno
è più solo nel lutto di chi scrive:
ho pianto con le dita dei miei occhi
il vostro corpo, allora, l'ho sepolto,
ero la folla della solitudine,
il disumano che lasciava voi
giacere con la schiena sulla neve,
nuda terra d'inverni ripetuti!
Nel rimanere c'era il vostro grazie:
"morte, c'hai piante, c'hai dato la vita!"
E parlavo, parlavo con la voce,
sperando di rispondervi, di dirvi:
"Di nulla, io sono madre."
Ma per voi ero come fossi muto!
Eppure, penna alata, questo corpo
pecca, cadendo a terra, e nel silenzio
il tonfo s'ode clamorosamente.
Sul foglio d'una strada della terra
la mano ch'è discesa nel mio piede
col moto di scrittura ch'è il mio passo
lascia s'imprima l'inchiostro dell'ombra.
L'occhio inveduto, attento, in quell'istante
avrà letto furtivo il contenuto.
Eppur ti illuderà con quella gomma
del successivo andare avanti ancora
d'avere cancellatolo per sempre.