D'aprile, da piccolo gli alberi mettevano mitrie alzavano le teste in lunghe lunghe liturgie e tempio era il silenzio luminoso delle nuvole; oggi un mezzo aprile di tanti anni fa per tutto questo silenzio nessuno nasconde la testa nelle mani seduto, metto le tempie nella chiarìa di un cielo che li vorrebbe amati amati tutti, ognuno da qualcuno; ciascuno invece scuote la sua cenere e vedo ombre che passano vivendo in festa come fossero vissute orfano di tutti i moventi la primavera è guardarne il riflesso sulla peluria degli avambracci al sole.
È raro sentire cantare in strada molto più raro sentire fischiare o fischiettare se qualcuno lo fa l'aria sembra fargli spazio ti sembra che un refolo muova la flora dei tuoi pensieri ti metta dove prima non eri; ma come passa chi fischia la noia stende le vertebre al sole e tu rientri dov'eri dietro il douglas dei serramenti dentro il livore degli appartamenti al tango delle dita sul tavolo ti chiedi da quali trombe scosse scrollate le mura per quali brecce potremo vedere – fresca – come un sogno appena sbucciato la terra che calpesteremo, allegri.
L'oscurità va a tentoni, abbassa le dita sul dorso della mano: sono qui. Tiro via la mano. Se tu morissi: oserei toccarti. Se solo tu zoppicassi via per il corridoio sempre più lontano, ti rimpiccioliresti finché non ti riconoscerei più, in me saresti avvinta.
Verrà la morte e mi coglierà di sorpresa. Questa morte che mi accompagna dalla mattina alla sera. Si nasconde tra i miei vestiti, tra i miei capelli. Spunta come un'improvvisa macchia sulla camicia. S'incolla come una mollica sul palato. O come un lieve brivido si sposta sulla pelle.
Tu dormirai senza sospetto. Ma i tuoi seni staranno spaventati nel buio. Si sentiranno i passi sui gradini. Il cigolío della porta. Guarderanno le ombre sulle finestre per tutta la notte.
Miei vecchi amori. Ore visibili di un secolo che non vuole spirare. Lune intorno a me si spezzano di continuo. La luce che mi illumina sarà certo di stelle spente.
Per tutta la notte sradico sentimenti dal mio petto che rimane sempre verde. Erba secca con radici di eternità. Mi confonde il rumore del tempo. Scendo.
A cosa serve indugiare, rimanere dietro la tendina che si annerisce, guardare il miraggio in faccia, quando la malforme primavera fa scorrere la sua sciabica nell'isolato dei single: un balenio di nafta nel cervello, il ventilatore sfiletta il fumo, e nel nido di un palchetto sul retro gracchia una vecchia comédienne.
Già il tuo profumo mi ferì. Quando ti scottasti le dita, sentii un bruciore in mano. Ma il periodo di grazia è passato, è tempo, finalmente, che finisca ciò che un tempo era eterno: l'accendino fiammeggia, tira via il miraggio dal volto, batto il pugno sul gioco, distruggo un'altra nave aliena.
Come quel coltello del suo desiderio di fanciullo, dalle lame spiegate e dal bel manico rosso, con il nome inciso. Ha trascorso anni a inseguirlo tra i sogni: sottili frecce di faggio o intagli di animali in legno di noce, il nodo antico di un cedro, il sangue di un primo corpo. Da grande, ne affila il taglio, conquistato nella memoria in cui abbatte le angosce che celano i ricordi.
Sono nato ai bordi di uno stagno tra i canneti, ho ancora addosso il sapore del germoglio e il freddo del vento che soffia tra le foglie; sono nato sotto la ragnatela e il nido del passero e ho visto luccicare il luccio quando veniva il temporale, e certi barconi avvicinarsi alla mia casa di canne come per prendermi con la loro civiltà e le loro regole, mi nascondevo tra i rami più folti, ero come una lucertola o un topo di campagna, ho sempre avuto un rifugio dove nascondermi agli uomini, sono invecchiato e conosco molto bene lo stagno, le canne, l'umido ma non so quasi niente di loro, miei simili.
Quando il chiurlo gorgheggia, non so dove sia. Profumo di sapone sulla pelle, di prato: ora le parole acquistano quasi significato. Chi leggerà questo, un giorno? Sai dove sono, come ti capisco?