Uomini senza pelle, addormentati dal sole marino, ricoprono di rena i castelli di sabbia che non ho potuto fare. Libri incartati, a forma di cibo, si fanno quasi nocivi, prima di esserti di nutrimento. Aspetti ancora, sul tuo confine, per far passare del tempo che ora ritieni non ti serva. Altre persone accanto sanno cosa attraversare. I limiti che le colorano non danno limite a cosa volere. Anche se con forza le spine strappate dai muri hanno spento il rumore che ti teneva sveglio Ora giaci tra gli uomini senza pelle aspettando chi vesta il tuo corpo per nasconderlo da un sole troppo violento che non ti dà pace. Verrà anche la pioggia e con essa il rimpianto di un'estate mai lontana. Ho sfasciato tutti i muri che portavano ombra al tuo dormire, ma nei cantieri malati c'è sempre qualcuno che alza e rinnalza le tue pareti. Ho provato a coprirli di sabbia sotto un vento ormai abile a riscoprire le loro cime. Secchielli con calce e con pale erano lì, pronti ad ogni passo per rimediare ai nostri disastri. Scappare dietro ai monti sembrava ormai l'unica speranza di lasciarti vivo e di lasciare saldo il muro che ti ha difeso. Lunghe pareti, vigili salite, e poi discese e poi salite e poi discese fino a scoprire il segno che non lasci segni. E tutto senza un motivo che dia importanza alla fatalità delle cose. Sfascerò tutti i muri che portano ombra al mio dormire. Cartone e granelli avanzati cadono e si disperdono volentieri al primo volere del vento. Biondi capelli sulla nera pelle daranno posto ad un solo carbone. Nelle ore cocenti il desiderio di spegnermi verrà consumato molto lentamente. E tu che vivi puoi anche sfaldare i tuoi muri sgretolati, lasciando di guardia un uomo che sappia fischiare. Quando verrà il mio treno potrai fermarlo ancor prima che arrivi, senza schianti e senza ritorni: un fischio potente per un binario senza binari per una fuga alla quale non si può rinunciare.
Un lampo di vita mi afferrò per le braccia... seduta su una nuvola del Cielo... lo sfidai con lo sguardo... guardandomi fisso negli occhi, iniziò:
"L'hai persa... e non è un lavoro... non è un amore... non è una madre... non è il dolore... non è la vita... l'hai solo persa... la tua Anima l'hai persa... e adesso sei tra la gente con un corpo che solo in parte sei tu... e non senti niente... Sottili respiri sei... Dolci carezze e baci rubati... sei... Ma come si può vivere senz'Anima? E adesso silenziosa te ne stai con una mano tra i capelli... L'hai persa... L'hai persa... e non ridere..."
Ed io pensavo... "Eppur vivo... Io sono viva... Ma la cerco... ho solo un po' paura!"
Ahimè, quale immagine può raffigurare il percorso del mio essere, se non quella di un dinosauro inadeguato?
Un enorme animale che, trascinando la sua esistenza solitaria, ignaro della sua mole, incute paura ed orrore ma non se ne preoccupa: le sue brutture sono lo specchio dell'animo di chi lo giudica senza pietà. La sua presenza non passa inosservata: troppo diversa per essere accettata.
Nella casa di bambole non può celare la sua essenza, urla la sua vitalità, scambiata per immane furia distruttiva.
I suoi movimenti, per cercare una posizione che non disturbi la quiete di chi, con la perfidia e l'inganno, ha nutrito prole altrui, generano frastuoni che rimbombano nella valle incantata, attraverso echi amplificati e deformati dalle urla di chi vuol seminare panico.
Nessuno riesce a capire e il delirio collettivo degenera in follia.
L'animale deve essere addomesticato, sentenziano! Ma come può il dinosauro vivere in una gabbia dorata che lo isoli dal mondo, per poterne far parte?
Nonostante capisca di rinnegare se stesso, si cimenta in dissertazioni sulle porcellane del negozio e finge di non intuire il vero intento dei suoi carcerieri. Ma il gesto atteso ed orchestrato viene compiuto, indicando un piccolo vassoio nell'angolo di una vetrina, al viandante che gli si avvicina incuriosito.
La gioia disperata del dinosauro non vacilla, guardando l'abisso che ha davanti: apre lentamente l'anta e mostra con fierezza quel vassoio.
Un vento gelido si alza impetuoso, dopo che, anche la più piccola finestra della casa delle bamole, sia stata serrata accuratamente, si veste di uragano e si avventa sul negozio distruggendo ogni cosa.
Lo sguardo del dinosauro è ormai rassegnato, porge, con delicatezza, quel vassosio all'incredulo viandante e, in un baleno, è come inghiottito dalla vallata.
Il viandante riprende il suo cammino, disorientato e stordito, porta con sé quel prezioso dono, cercando di dare un senso a quella frenetica pazzia.
Verso sera si siede stanco ed esausto e ripensa tristemente al dinosauro.
Osserva la vallata dalla cima del monte, stringendo a sé il vassoio, inorridisce: le bambole si muovono al ritmo di una macabra danza, improvvisamente, quell'eco spaventoso torna inquietante ... che delirio! Un altro innocente perisce, in nome di un potere che codardamente cela sempre il suo vero colto!
È buona cosa, lasciar all'offesa lo spazio per far dilagar parola, affinché in quello stesso mare affoghi.
È buona cosa, lasciar all'offesa l'intero cielo, affinché sol del suo volo si scorga, ed il giudizio solo lei colga.
È buona cosa nel subir offesa, non cader nella trappola tesa che vorrebbe sguainar spada alla difesa;
L'offesa è una spada tesa, non accettar impresa per una terra già presa.
L'eco dell'offesa arrecata nella valle del silenzio, raddoppierà il cordoglio nella sorniona montagna, che disturbata da quel molesto dire, apprezzerà della valle il suo non voler interloquire.
Quando alle porte del tuo castello, busserà nemico armato, basterà non schiuder porta del suo ulterior bussar poco importa.
È nell'offesa la pretesa e la trappola tesa, non aprirai castello per un inutil duello.
Vorrei accarezzarti le mani e con le mani toccarti capelli, vestire i tuoi occhi sì belli di sguardi e sospiri lontani... Trovarti di notte e abbracciarti, cercare di te e poi fermarti, poterti donare il mio viso e rubarti contenta un sorriso. Vorrei aspettarti la sera nascosta nell'erba, sudata, carpirti i segreti che ancora non hai, scoprire che forse verrai e aspettare la notte nell'ansia passata; capire il perché non basta a fuggire, nel prato, tra l'erba e l'aurora, riposa la piccola debole spora che ieri voleva morire. Vorrei rimanere da te, levarmi gli occhiali e posarli sul prato, aprire il tuo guscio incastrato e farti nutrire di me. Ma senza parole e in pochi momenti qualcuno mi chiama lontano raccolgo a tastoni sul suolo le lenti e chiudo il mio guscio pian piano. Tu resti un istante confuso poi apri la porta che avevi sbarrato mi spingi nell'atrio, poi fuori, scocciato, ma non sembri deluso. Il nostro pensiero rimane immutato, sei sempre il mio uomo, l'amore che ha vinto ed io... il timore che spesso hai respinto... ma mai che hai scordato.