Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
Già non fero i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morì di corto,
ch'era vivendo in numero dè buoni:
quell'altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch'al fianco si sentì gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)
    Non si vanno i leoni o i tori in salto
    a dar di petto, ad accozzar sì crudi,
    sì come i duo guerrieri al fiero assalto,
    che parimente si passar li scudi.
    Fè lo scontro tremar dal basso all'alto
    l'erbose valli insino ai poggi ignudi;
    e ben giovò che fur buoni e perfetti
    gli osberghi sì, che lor salvaro i petti.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)
      Così dice egli; e mentre s'apparecchia
      al dolce assalto, un gran rumor che suona
      dal vicin bosco gl'intruona l'orecchia,
      sì che mal grado l'impresa abbandona:
      e si pon l'elmo (ch'avea usanza vecchia
      di portar sempre armata la persona),
      viene al destriero e gli ripon la briglia,
      rimonta in sella e la sua lancia piglia.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)
        - Se mal si seppe il cavallier d'Anglante
        pigliar per sua sciocchezza il tempo buono,
        il danno se ne avrà; che da qui inante
        nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
        (tra sé tacito parla Sacripante):
        ma io per imitarlo già non sono,
        che lasci tanto ben che m'è concesso,
        e ch'a doler poi m'abbia di me stesso.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)
          Padre, quand'io per la tua muta tomba
          Che da sett'anni te per sempre asconde
          Passo gemendo e il gemer si confonde
          Al bronzo che di morte il suon rimbomba;
               Trista memoria allor nel sen, mi piomba
          E ti veggo del letto fra le sponde
          Quel calice libar che in cor t'infonde
          L'ultimo istante che a te intorno romba:

               E veggo il scarso lacrimato pane
          Che dal tuo dipartir a' tuoi Figlioli
          E alla Vedova tua più non rimane.

               E veggo.... ahi lasso! tutto veggo, e tutto
          Che sei morto mi dice, e che a noi soli
          Non altro avanza che miseria e lutto.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            Perché, o mie luci, l'angoscioso pianto
            Voi non cessate? Ed al suo cupo affanno
            Non vi piace lasciar l'anima mesta?
            Troppo voi siete a quella doglia inganno
            Che m'è cara soffrir finché sia infranto
            Lo stame a cui s'attien mia vita infesta,
            Ben innanzi accadrà che si rivesta
            Di verde e fiori il prato a mezzo verno
            Pria che m'incresca di mie vive doglie,
            E so il destin mi toglie
            Chi era dè giorni miei pace e governo,
            Almeno alle sue spoglie
            Che omai sotterra son cenere frale
            Si dica sospirando un caldo vale.

            L'amico il Padre è morto: or qual mai speme
            Fia che più resti alle mie brame afflitte
            Se non che la pietà m'apra la fossa?
            Profondamente nel mio sen stan scritte
            Le sante dolci sue parole estreme
            Onde sovente quest'anima è scossa.
            Mi traggon elle a visitar quest'ossa
            Sparger miei voti, e forse al sordo vento;
            Ah! Che mai dissi? Dall'Eterea sede
            Ove beato ei siede
            Non odo il suon del mio triste lamento?
            E del dolor non vede
            L'alta ferita? Ah s'egli è ver cessate
            Lugùbri voci, nè più duol gli date.

            Troppo ci mi amava in terra, e troppo forse
            Se doglia provan dè beati i spirti
            Ei s'addolora alla mia intensa pena.
            Dunque spargiam sulla sua tomba mirti
            E so fosca per lui mia vita scorse
            Per lui ritorni ancor queta e serena.
            Ben troncherassi un dì questa catena
            Grave al mio spirto e goderò di lui
            Ove luce di Dio su ognun si spande.
            Ivi fia che domande
            Dè Frati miei, dè dolci Figli sui,
            O lieto istante, o grande
            Istante, a che ver me ratto non voli
            Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?

            Perché m'adduci mai, folle desio,
            A vaneggiar con tai speranze audaci?
            Credi che al mio buon Padre io m'assomigli?
            Ivi egli posa in grembo a liete faci
            Perché con sua saviezza il nembo rio
            Seppe fuggir e del mondo i perigli.
            Fuggir forse sapranli i lassi Figli
            Che nel mondo imboscati a mezza notte
            Soli e confusi ad erme piagge ed erte
            Volgon lor pianto incerte
            Ahi troppo giovanili, e troppo indotte?
            Ma se fia che si merte
            Un giusto grazie, ah! Dal Signor dell'Etra
            Consiglio e Grazie à tuoi pupilli impetra.

            Luce chieggiam e chi l'accenda, o Padre,
            Forse non v'è, forse non v'è chi porga
            Acqua di chiaro fonte a nostra sete.
            Se per te dunque un rio puro non sgorga,
            So non diradi a noi quest'ombre sì adre,
            Chi fia che ci rischiari, e ci dissete?
            Egra già fora in grembo a tua quiete
            Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa;
            Se non che, lassa! Ancor viver si vuole
            Per sua tenera prole,
            Ma del suo lacrimar unqua riposa;
            Anzi meco si duole
            Dicendo, o Figlio, a te chiedo conforto
            Poiché il mio Sposo il mio buon Sposo è morto.

            E qual da me conforto? E quale io posso,
            Padre, se il terzo lustro appena io varco,
            Prestar sollievo a sua doglia cotanta?
            Ahi che mal se di quel soave incarco
            Gravar per anco il mio debile dosso
            Che il tuo gravò per quasi anni quaranta.
            Sol suonan pianto e muto orrore ammanta
            Què dolci lochi ov'io ti vidi un giorno
            Porger à tuoi Figliuoli e baci e pane,
            E in fogge care e strane
            Saltellar essi a tue ginocchia intorno.
            Ed or, ahi! Che rimane
            Altro che aver in grembo gli orfanelli
            E alle lor grida lacrimar con elli?

            O cupa notte! O tenebroso istante!
            O tetra bara, o feretro funebre
            Ove il padre vid'io la volta estrema!
            Dal duolo avvolti e da vostre tenebre
            Venite agli infelici ora d'innante
            Onde ognun sopra voi sospiri e gema.
            Qui mia suora innocente e guarda e trema
            L'istupidita genitrice nostra
            Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda;
            Qui il fanciul che addomanda
            "Che fu? Che avvenne? " - e mesto indi si prostra.
            E al padre raccomanda
            Quinci il ritorno; e un altro che col dito
            Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.

            E a squallor tanto in mezzo io con la fronte
            Dalle man sostenuta, i miei sospiri
            Traggo più ardenti, e li rattengo invano.

            Par che d'intorno a me l'ombra s'aggiri
            E dello smorte luci il caldo fonte
            Egli m'asciughi in atto dolce umano:
            Rammento allora qual diemmi la mano
            Qual me la strinse e qual mi benedisse
            Coi sguardi ove mancavangli gli accenti!
            Qual " miei Figli innocenti".
            Disse, " ti raccomando " e più non disse,
            Qual di Angeli fulgenti
            Sull'ale io vidi sgombra del suo volo
            L'alma rapita a innamorare il Cielo.

            Canzon, tu oscura, dolorosa, e sola
            Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo
            Drizza gemendo il volo
            Et una amante vedova consola;
            E siegui un Figlio che alla mesta notte
            E alla tacita luna
            Fra lacrime dirotte
            Narra le tempre di sua rea Fortuna:
            Ivi per l'aria bruna
            T'innoltra, e digli in suon d'aura notturna:
            Solo non piangi del tuo Padre all'urna.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)
              Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
              E qual tu il pingi, Artefice elegante,
              Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
              Libertà con incerte orme vagante.

                   Armi vaneggio, e il docile intelletto
              Contesi alle febee Vergini sante;
              Armi, armi grido; e Libertade affretto
              Più ognor deluso e pertinace amante.

                   Voce inerme che può? Marte raccende,
              Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
              Siede Italia, e al flagel l'omero tende.

                    Pur, se nell'onta della Patria assorte
              Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
              Per te il mio volto almen vince la morte.



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                    Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
              E qual tu il pingi, Artefice elegante,
              Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
              Libertà con incerte orme vagante.

                   Armi vaneggio, e il docile intelletto
              Contesi alle febee Vergini sante;
              Armi, armi grido; e Libertade affretto
              Più ognor deluso e pertinace amante.

                   Voce inerme che può? Marte raccende,
              Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
              Siede Italia, e al flagel l'omero tende.

                    Pur, se nell'onta della Patria assorte
              Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
              Per te il mio volto almen vince la morte.
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