Scritto nel giorno in cui Leigh Hunt uscì di prigione
Benché imprigionato per aver detto il vero a un principe adulato, il generoso Hunt, in spirito immortale, libero si è serbato, come nobile allodola richiamata dal cielo. Lacchè dei Grandi, che cosa ti aspettavi? Ch'egli avrebbe fissato i muri della cella finché tu controvoglia ne riaprissi la porta? No! più alta e felice era già la sua sorte! Nelle corti di Spenser egli vagò, in pergole leggiadre, colse magici fiori, audace risalì, con Milton, i campi d'aria; e in feudi a lui certi da vero genio fece inebrianti voli. Chi potrà la sua fama funestare quando sarete morti tu e la tua ciurma di mariuoli?
Molti prodigi ho veduto stamane: il sole, che col primo bacio terse le lacrime dagli occhi dell'aurora; le corone d'alloro degli eletti, chine sull'aureo manto della sera; l'oceano, verdeazzurro, sterminato, e scogli, navi, grotte, aneliti e terrori; e la sua voce arcana che, a chi l'ode, fa meditare quello che sarà o è stato. E anche ora, Giorgio, che ti dedico il verso, Cinzia fra coltri di seta appena si profila, come fosse una sposa alla sua prima notte, e lascia intravedere le amorose giostre. Ma che sarebbero i prodigi in mare e cielo senza averti compagno al mio pensiero.
Mai la terrestre poesia non muore. Quando tutti gli uccelli al solleone vengono meno e stan nascosti in mezzo la frescura degli alberi, una voce corre di siepe in siepe intorno al prato su cui appena passò rasa la falce: è del grillo dei campi, il capintesta nel tripudio d'estate, mai godere non cessa, perché quando a giuochi è stanco posa con agio sotto una grata erba. Fine non ha la poesia terrestre. D'inverno, in una sera solitaria, quando il silenzio è opera del gelo, strepe fuor della stufa il suon del grillo del focolare che col caldo sempre viene crescendo, e a uno che smarrito a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto par del grillo dei campi ai colli erbosi.
Quale febbre ha mai l'uomo! Che guardare ai suoi giorni mortali con il sangue temperato non sa, che tutto sciupa le pagine del libro della vita e deruba virtù al suo buon nome. È come se la rosa si cogliesse da sé; o quand'è matura la susina la sua scura lanugine raschiasse; o a guisa di un folletto impertinente la Naiade oscurasse la splendente sua grotta di una tenebra fangosa. Ma sullo spino lascia sé la rosa, che vengano a baciarla i venti e grate se ne cibino le api: e la susina matura indossa sempre la sua veste bruna, il lago non tocco ha di cristallo la superficie. Perché dunque l'uomo, importunando il mondo per averne grazia, deve sciupar la sua salvezza in obbedienza a un rozzo, falso credo?
Quattro stagioni fanno intero l'anno, quattro stagioni ha l'animo dell'uomo. Egli ha la sua robusta Primavera quando coglie l'ingenua fantasia ad aprire di mano ogni bellezza; ha la sua Estate quando ruminare il boccone di miel primaverile del giovine pensiero ama perduto di voluttà, e così fantasticando, quanto gli è dato approssimarsi al cielo; e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno quando ripiega strettamente le ali pago di star così a contemplare oziando le nebbie, di lasciare le cose belle inavvertite lungi passare come sulla siglia un rivo. Anche ha il suo Inverno di sfiguramento pallido, sennò forza gli sarebbe rinunciare alla sua mortal natura.
O soave che balsamo soffondi alla quieta mezzanotte, e serri con attente e benevole le dita gli occhi nostri del buio compiaciuti, protetti dalla luce, avvolti d'ombra nel ricovero di un divino oblio. O dolcissimo sonno! Se ti piace chiudi a metà di questo, che è tuo, inno i miei occhi in vedetta, o attendi l'Amen prima che il tuo papavero al mio letto largisca in carità il suo dondolio. Poi salvami, altrimenti il giorno andato lucido apparirà sul mio guanciale di nuovo, producendo molte pene, salvami dall'alerte coscienza che viepiù insignorisce il suo vigore causa l'oscurità, scavando come una talpa. Volgi abile la chiave nella toppa oliata e dà il sigillo allo scrigno, che tace, del mio cuore.
Se avessi le forme di un bel corpo virile, sottili i miei sospiri potrebbero echeggiare, come in tornito avorio, al tuo orecchio, trovando via al tuo cuore gentile - passione bene mi armerebbe all'impresa. Ma, ahimé! Non sono il cavaliere che uccide l'avversario, corazza non risplende sul mio petto elato, né sono l'ingenuo pastore della valle, le cui labbra han tremato per occhi di fanciulla. Eppure devo delirare per te, dirti più dolce delle rose melate dell'Ibla, asperse di rugiada così densa che inebria. Ah! tal rugiada mi giova, la suggerò, cogliendola, con incanti e magia, quando si svela il volto pallido della luna.
D'oro una penna datemi, e lasciate che in limpidi e lontane regioni sopra mucchi di fiori io mi distenda; portatemi più bianca di una stella o di una mano d'angelo inneggiante quando fra corde argentee la vedi di arpe celesti, un'asse per scrittoio; e lasciate lì accanto correr molti carri color di perla, vesti rosa, e chiome a onda, e vasi di diamante, e ali intraviste, e sguardi penetranti. Lasciate intanto che la musica erri ai miei orecchi d'intorno; e come quella ogni cadenza deliziosa tocca, lasciate che io scriva un verso pieno di molte meraviglie delle sfere, splendido al suono: con che altezze in gara il mio spirito venne! Nè contento è di restare così presto solo.