Scritta da: Nataly Laganà
in Poesie (Poesie d'Autore)
Cenere
Ormai bruciato è il sogno, rimane solo cenere. La trasformerò in argento vivo.
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Ormai bruciato è il sogno, rimane solo cenere. La trasformerò in argento vivo.
Andate nei boschi,
prendetevi del tempo per voi stessi.
Ampliate gli orizzonti.
Osservate ogni dettaglio.
Afferrate la terra sotto i vostri piedi
e "ascoltatene" il profumo,
perché la terra non si odora
ma si ascolta.
Abbracciate forte un albero
e parlate con lui.
Vi sorprenderete delle risposte
che riuscirà a darvi.
Sfiorate con le dita l'erba lungo il vostro cammino,
sarà la vostra compagna di viaggio.
Ascoltate il canto degli uccelli,
osservateli, studiateli.
Fate vostra la loro melodia.
Siate come loro, liberi ma fedeli.
Scegliete come loro un albero e fateci la vostra casa.
Perché casa è un dono, perché casa non significa avere delle mura,
casa è dove hai riposto te stesso
e le persone che ami.
Non fu così che poi finì
quel torbido silenzio dell'amore, che ci condusse mano nella mano nell'oblio
così distanti in quell'unione
stupidamente vera
stupidamente tu ed anche, stupidamente io
che ci domanda ancora
se fu il fato... oppure la paura
oppure un sentimento troppo grande per dei fanciulli con le ali corte
terrorizzati da un cielo di promesse
da un vento della vita autoritario e sordo, avaro di certezze.
Discuto con Dio la mia detenzione, più spesso di quanto vi fosse bisogno. Quanto ancora ruberò il respiro alla natura, nell'umana ingratitudine? Non è mai bello discutere con Dio, ci vuole coraggio, vuole sempre aver ragione. Esiste un mondo dove saremo incapaci di soffrire e di renderci ostili? Esiste questo mondo, dove saremo capaci di viverci insieme senza la fame che ci conduce al male? A queste domande si sottrae, come il più dolce dei bambini.
Sono in cerca di te, di qualcuno capace di conoscermi, e di spiegarmi chi sono.
Sono quanto abbastanza alto per guardare il cielo cadere,
il mare e quell'insieme gonfio di parole.
Ah! Quante cose perdute
che perdute non erano.
Tutte le serbavi tu.
Minuti grani di tempo,
che portò via un giorno il vento.
Alfabeti nella spuma,
che un giorno il mare travolse.
Io li credevo perduti.
E perdute le nubi
che pretendevo fermare
nel cielo
fissandole con occhiate.
E l'allegria alta
dell'amore, e l'angoscia
di non amare abbastanza,
e l'ansia
di amare, di amarti, di più.
Tutto perduto, tutto
nell'essere stato un tempo,
nel non esistere più.
E allora tu sei venuta
dal buio, radiosa
di giovane pazienza profonda,
agile, perché non pesava
sui tuoi fianchi snelli,
sulle tue spalle nude,
il passato che tu,
così giovane, portavi per me.
Ti guardavo alla luce dei baci
vergini che mi hai dato,
e tempi e spume
e nubi e amori perduti
furono salvi.
Se da me fuggirono un giorno,
non fu per morire
nel nulla.
In te continuavano a vivere.
Ciò che io chiamavo oblio
eri tu.
No, non lasciate chiuse
le porte della notte,
del fulmine, del vento,
di ciò che mai si è visto.
Restino aperte sempre
esse, le ben note.
E tutte, quelle ignote,
che si aprono
sui lunghi percorsi
da tracciare, nell'aria,
sulle rotte che stanno
cercandosi un varco
con volontà oscura
e ancora non l'hanno trovato
in punti cardinali.
Mettete alti segnali,
astri, meraviglie;
che si veda chiaramente
che è qui, che tutto
desidera accoglierla.
Perché può venire.
Oggi o domani, o fra mille
anni, o il giorno
penultimo del mondo.
E tutto
deve essere così piano
come la lunga attesa.
Eppure so che è inutile.
Che è un gioco mio, tutto,
aspettarla così
come folata o brezza,
temendo che inciampi.
Perché quando lei verrà
sfrenata, implacabile,
a raggiungere me,
muraglie, nomi, tempi,
si frangeranno tutti,
travolti, penetrati
irresistibilmente
dalla gigante tempesta del suo amore,
ormai presenta.
Che gran vigilia il mondo!
Nulla era fatto.
Né materia, né numeri,
né astri, né secoli, nulla.
Non era nero il carbone
né tenera era la rosa.
Nulla era nulla, ancora.
Com'è ingenuo credere
che fu il passato di altri
e in altro tempo, ormai
irrevocabile, sempre!
No, il passato era nostro:
e nemmeno aveva nome.
Potevamo chiamarlo
a nostro piacere: stella,
colibrì, teorema,
invece che "passato";
togliergli il suo veleno.
Un gran vento muoveva
verso di noi miniere,
continenti, motori.
Di che, miniere? Vuote.
Erano in attesa
del nostro primo desiderio,
per essere poi subito
di rame, di papaveri.
I porti, le città
galleggiavano sul mondo,
ancora senza un posto:
aspettavano che tu
dicessi loro: "qui",
per lanciare le navi,
le macchine, le feste.
Macchine impazienti
perché ancora senza meta;
ché avrebbero fatto la luce
se tu l'ordinavi,
o le notti d'autunno
se le volevi tu.
I verbi, indecisi,
ti guardavano negli occhi
come cani fedeli,
tremuli. Il tuo ordine
avrebbe poi segnato
il cammino, le azioni.
Salire? Rabbrividiva
la loro energia ignorante.
Era forse andare verso l'alto
"salire"? E andare verso dove
era "discendere"?
Con messaggi ad antipodi,
ad astri, il tuo ordine
avrebbe comunicato improvvisa
coscienza del loro essere.
Di volare o trascinarsi.
Il grande mondo vuoto,
inerte, innanzi a te
stava: l'impulso
lo avresti dato tu.
E accanto a te, vacante,
non nato ancora, in affanno,
con gli occhi chiusi,
il corpo già preparato
per il dolore o il bacio.
Con il sangue al suo posto,
io, in attesa
– ah, se non mi avessi guardato –
che tu mi amassi
e mi dicessi: "ora".
"Domani". La parola
libera, vacante, senza peso,
si muoveva nell'aria,
così senz'anima e corpo,
senza colore né bacio,
che l'ho lasciata passare
al mio fianco, nel mio oggi.
Ma, all'improvviso tu
hai detto: "io, domani..."
e tutto si è animato
di carne e di bandiere.
Mi si precipitavano
addosso le promesse
di seicento colori,
con vestiti alla moda
nude, ma tutte
ricolme di carezze
in treni o gazzelle
mi giungevano – acute,
suoni di violini –
snelle speranze
di bocche verginali.
O veloci e grandi
come navi, di lontano,
come balene
da mari remoti
immense speranze
d'un amore senza termine.
Domani! Che parola
vibrante, tutta tesa
di anima e carne rosata,
corda dell'arco dove
tu hai messo, acutissima,
arma di venti anni,
la freccia più sicura
quando hai detto: "io..."