Domenica! Il dì che a mattina sorride e sospira al tramonto!... Che ha quella teglia in cucina? Che brontola brontola brontola... È fuori un frastuono di giuoco, per casa è un sentore di spigo... Che ha quella pentola al fuoco? Che sfrigola sfrigola sfrigola... E già la massaia ritorna da messa; così come trovasi adorna, s'appressa: la brage qua copre, là desta, passando, frr, come in un volo, spargendo un odore di festa, di nuovo, di tela e giaggiolo. La macchina è in punto; l'agnello nel lungo schidione è già pronto; la teglia è sul chiuso fornello, che brontola brontola brontola... Ed ecco la macchina parte da sé, col suo trepido intrigo: la pentola nera è da parte, che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale, che frulla, che va con un dondolo eguale di culla. La legna scoppietta; ed un fioco fragore all'orecchio risuona di qualche invitato, che un poco s'è fermo su l'uscio, e ragiona. È l'ora, in cucina, che troppi due sono, ed un solo non basta: si cuoce, tra murmuri e scoppi, la bionda matassa di pasta. Qua, nella cucina, lo svolo di piccole grida d'impero; là, in sala, il ronzare, ormai solo, d'un ospite molto ciarliero. Avanti i suoi ciocchi, senz'ira né pena, la docile macchina gira serena, qual docile servo, una volta ch'ha inteso, né altro bisogna: lavora nel mentre che ascolta, lavora nel mentre che sogna. Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora, con una vertigine molle: con qualche suo fremito incuora la pentola grande che bolle. È l'ora: s'affretta, né tace, ché sgrida, rimprovera, accusa, col suo ticchettìo pertinace, la teglia che brontola chiusa. Campana lontana si sente sonare. Un'altra con onde più lente, più chiare, risponde. Ed il piccolo schiavo già stanco, girando bel bello, già mormora, in tavola! In tavola!, e dondola il suo campanello.
Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato, Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l'insueto allor gaudio ravviva Quando per l'etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso dè Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova trà nembi, e noi la vasta Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell'onda. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l'empia Sorte non fenno. À tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L'aprico margo, e dall'eterea porta Il mattutino albor; me non il canto Dè colorati augelli, e non dè faggi Il murmure saluta: e dove all'ombra Degl'inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in fuga l'odorate spiagge. Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara Di misfatto è la vita, onde poi scemo Di giovanezza, e disfiorato, al fuso Dell'indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto. Morremo. Il velo indegno a terra sparto Rifuggirà l'ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator dè casi. E tu cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano D'implacato desio furor mi strinse, Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno Della mia fanciullezza. Ogni più lieto Giorno di nostra età primo s'invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra Della gelida morte. Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno Han la tenaria Diva, E l'atra notte, e la silente riva.
Sono Minerva, la poetessa del villaggio, fischiata, schernita dai villanzoni della strada per il mio corpo goffo, l'occhio guercio, e il passo largo e tanto più quando "Butch" Weldy mi prese dopo una lotta brutale. Mi abbandonò al mio destino col dottor Meyers; e io sprofondai nella morte, gelando dai piedi alla faccia, come chi scenda in un'acqua di ghiaccio. Vorrà qualcuno recarsi al giornale, e raccogliere i versi che scrissi? — Ero tanto assetata d'amore! Ero tanto affamata di vita!
Sempre ti chiamo quando tocco il fondo, so il numero a memoria e ti disturbo come un maniaco abbarbicato al telefono; lascio un messaggio se sei fuori. So che a volte cancelli a qualche fortunato il debito che tutti con te abbiamo. La bolletta falla pagare a me, ma dimmi almeno che non farai tagliare la mia linea. Ti prego, quando echeggerà quell'ultimo e dolorante squillo, Dio-per-Dio! non staccare: rispondimi!
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t'accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m'affaccio, E l'antica natura onnipossente, Che mi fece all'affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or dà trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch'io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell'artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov'è il suono Di què popoli antichi? Or dov'è il grido Dè nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio Che n'andò per la terra e l'oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s'aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s'udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core.
Un migliaio di anni, un migliaio di paure, un migliaio di lacrime abbiamo versato l'uno per l'altro, come falene alla fiamma, un gioco mortale, bambini smarriti in cerca della loro mamma, e quando i cuori cantano, la musica porta una magia come nessun'altra, il freddo inverno, non una mano da stringere, l'estate breve e assolata, e la mattina, stretta a te, momenti preziosi, teneri, amorosi, divertenti, ballavamo, ridevamo, volavamo, crescevamo, osavamo, volevamo vene più di quanto qualunque anima potesse capire o accettare, la luce cosi splendente, l'accordo cosi perfetto, per cento preziose stagioni, la falena la fiamma, la danza le stesse, poi ali spezzate e cose tenute come un tesoro in pezzi intorno a noi, il sogno l'unico per il quale mi struggo, qui o là, le nostre anime messe a nudo, fra un milione di anni, il mio cuore ti terrà sempre con se.