In visioni di notturna tenebra spesso ho sognato svanite gioie - mentre un sogno, da sveglio, di vita e di luce m'ha lasciato col cuore implacato.
Ah, che cosa non è sogno in chiaro giorno per colui il cui sguardo si posa su quanto a lui è d'intorno con un raggio che, a ritroso, si volge al tempo che non è più?
Quel sogno beato - quel sogno beato, mentre il mondo intero m'era avverso, m'ha rallegrato come un raggio cortese che sa guidare un animo scontroso.
E benché quella luce in tempestose notti così tremolasse di lontano - che mai può aversi di più splendente e puro nella diurna stella del Vero?
Entrate, amici miei, accomodatevi siate i benvenuti mi date molta gioia. Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella mentre dormivo. Non avete rovesciato la brocca nè la scatola rossa delle medicine. I visi nella luce delle stelle state mano in mano al mio capezzale.
Com'è strano vi credevo morti e siccome non credo nè in Dio nè all'aldilà mi rammaricavo di non aver potuto offrirvi ancora un pizzico di tabacco.
Com'è strano vi credevo morti e voi siete venuti per la finestra della mia cella entrate, amici miei, sedetevi siate i benvenuti mi date molta gioia.
Hascìm, figlio di Osmàn, perché mi guardi a quel modo? Hascìm figlio di Osmàn è strano non eri morto, fratello, a Istanbul, nel porto caricando il carbone su una nave straniera? Eri caduto col secchio in fondo alla stiva la gru ti ha tirato su e prima di andare a riposare definitivamente il tuo sangue rosso aveva lavato la tua testa nera. Chi sa quanto avevi sofferto.
Non restate in piedi, sedetevi. Vi credevo morti. Siete entrati per la finestra della mia cella i visi nella luce delle stelle siate i benvenuti mi date molta gioia.
Yakùp, del villaggio di Kayalar salve, caro compagno, non eri morto anche tu? Non eri andato nel cimitero senz'alberi lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame? Faceva terribilmente caldo, quel giorno e allora, non eri morto?
E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore? Ho visto coi miei occhi la tua bara scendere nella fossa. Credo anche di ricordarmi che la tua bara fosse un po' corta per la tua statura.
Lascia stare, Gemìl vedo che ce l'hai sempre, la vecchia abitudine ma è una bottiglia di medicina, non di rakì. Ne bevevi tanto per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno e dimenticare il mondo nella tua solitudine.
Vi credevo morti, amici miei state al mio capezzale la mano in mano sedete, amici miei, accomodatevi. Benvenuti, mi date molta gioia.
La morte è giusta, dice un poeta persiano, ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià. Hascìm, perché ti stupisci? Non hai mai sentito parlare di uno scià morto in una stiva con un secchio di carbone? La morte è giusta, dice un poeta persiano.
Yakùp mi piaci quando ridi, caro compagno non ti ho mai visto ridere così quando eri vivo ... Ma lasciatemi finire la morte è giusta dice un poeta persiano ...
Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl, non t'arrabbiare, so quel che vuol dire affinché la morte sia giusta bisogna che la vita sia giusta.
Il poeta persiano ... Amici miei, perché mi lasciate solo?
Udii tra il sonno le ciaramelle, ho udito un suono di ninne nanne. Ci sono in cielo tutte le stelle, ci sono i lumi nelle capanne. Sono venute dai monti oscuri le ciaramelle senza dir niente; hanno destata nè suoi tuguri tutta la buona povera gente. Ognuno è sorto dal suo giaciglio; accende il lume sotto la trave; sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio, di cauti passi, di voce grave. Le pie lucerne brillano intorno, là nella casa, qua su la siepe: sembra la terra, prima di giorno, un piccoletto grande presepe. Nel cielo azzurro tutte le stelle paion restare come in attesa; ed ecco alzare le ciaramelle il loro dolce suono di chiesa; suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro dolce e passato pianger di nulla. O ciaramelle degli anni primi, d'avanti il giorno, d'avanti il vero, or che le stelle son là sublimi, conscie del nostro breve mistero; che non ancora si pensa al pane, che non ancora s'accende il fuoco; prima del grido delle campane fateci dunque piangere un poco. Non più di nulla, sì di qualcosa, di tante cose! Ma il cuor lo vuole, quel pianto grande che poi riposa, quel gran dolore che poi non duole; sopra le nuove pene sue vere vuol quei singulti senza ragione: sul suo martòro, sul suo piacere, vuol quelle antiche lagrime buone!
Per tanto amore la mia vita si tinse di viola e andai di rotta in rotta come gli uccelli ciechi fino a raggiungere la tua finestra, amica mia: tu sentisti un rumore di cuore infranto
e lì dalle tenebre mi sollevai al tuo petto, senz'essere e senza sapere andai alla torre del frumento, sorsi per vivere tra le tue mani, mi sollevai dal mare alla tua gioia.
Nessuno può dire ciò che ti devo, è lucido ciò che ti devo, amore, ed è come una radice, nativa d'Araucania, ciò che ti devo, amata.
È senza dubbio stellato tutto ciò che ti devo, ciò che ti devo è come il pozzo d'una zona silvestre dove il tempo conservò lampi erranti.
Noi sogniamo di viaggi per l'universo: ma l'universo non è forse dentro di noi? Noi non conosciamo gli abissi del nostro spirito. La via segreta che conduce all'interno. In noi, e in nessun altro luogo, sta l'eternità con i suoi mondi, il passato e il futuro. Il mondo esterno è il mondo delle ombre, e getta le sue ombre nel regno della luce.
Il cavaliere dell'eterna gioventù seguì, verso la cinquantina, la legge che batteva nel suo cuore. Partì un bel mattino di luglio per conquistare il bello, il vero, il giusto. Davanti a lui c'era il mondo coi suoi giganti assurdi e abietti sotto di lui Ronzinante triste ed eroico.
Lo so quando si è presi da questa passione e il cuore ha un peso rispettabile non c'è niente da fare, Don Chisciotte, niente da fare è necessario battersi contro i mulini a vento.
Hai ragione tu, Dulcinea è la donna più bella del mondo certo bisognava gridarlo in faccia ai bottegai certo dovevano buttartisi addosso e coprirti di botte ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati tu continuerai a vivere come una fiamma nel tuo pesante guscio di ferro e Dulcinea sarà ogni giorno più bella.
Canzone del maschio e della femmina! Il frutto dei secoli che spreme il suo succo nelle nostre vene.
La mia anima che si diffonde nella tua carne distesa per uscire migliorata da te, il cuore che si disperde stirandosi come una pantera, e la mia vita, sbriciolata, che si annoda a te come la luce alle stelle!
Mi ricevi come il vento la vela.
Ti ricevo come il solco il seme.
Addormentati sui miei dolori se i miei dolori non ti bruciano, legati alle mie ali, forse le mie ali ti porteranno, dirigi i miei desideri, forse ti duole la loro lotta.
Tu sei l'unica che possiedo da quando persi la mia tristezza!
Lacerami come una spada o senti come un'antenna!
Baciami, mordimi, incendiami, che io vengo alla terra solo per il naufragio dei miei occhi di maschio nell'acqua infinita dei occhi di femmina!