Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Federico
in Poesie (Poesie d'Autore)
La mia anima mi ha parlato,
fratello, e mi ha illuminato.
E spesso anche a te l'anima parla
e ti illumina.
Tu infatti sei come me,
e non c'è differenza tra noi,
se non questa:
io esprimo cio che è dentro di me
in parole che ho udito nel mio silenzio,
mentre tu custodisci tacito
ciò che è dentro di te.
Ma la tua silenziosa custodia
ha lo stesso valore del mio tanto parlare.
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    in Poesie (Poesie d'Autore)
    Quando musica tu suoni, mia musica,
    su quel beato legno che alle dita
    gentili replica mentre conduci
    la vibrante armonia che mi smarrisce,
    quanto invidio quei tasti che in su e in giù
    tenendo il cavo di tua mano baciano -
    e dal raccolto le mie labbra escluse,
    lì accanto, si fan rosse a tanta audacia.
    Ben situazione e stato muterebbero,
    purché tu le sfiorassi, con quei rapidi
    in danza - e tu scorri sì che lieto
    fai morto legno più che vive labbra.
    Se tanta sorte hanno quegli sfrontati,
    dà lor le dita, a me le labbra al bacio.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      In limine

      Godi se il vento ch'entra nel pomario
      vi rimena l'ondata della vita:
      qui dove affonda un morto
      viluppo di memorie,
      orto non era, ma reliquario.

      Il frullo che tu senti non è un volo,
      ma il commuoversi dell'eterno grembo;
      vedi che si trasforma questo lembo
      di terra solitario in un crogiuolo.

      Un rovello è di qua dall'erto muro.
      Se procedi t'imbatti
      tu forse nel fantasma che ti salva:
      si compongono qui le storie, gli atti
      scancellati pel giuoco del futuro.

      Cerca una maglia rotta nella rete
      che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
      Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
      mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        La ginestra

        Qui su l'arida schiena
        Del formidabil monte
        Sterminator Vesevo,
        La qual null'altro allegra arbor né fiore,
        Tuoi cespi solitari intorno spargi,
        Odorata ginestra,
        Contenta dei deserti. Anco ti vidi
        Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
        Che cingon la cittade
        La qual fu donna dè mortali un tempo,
        E del perduto impero
        Par che col grave e taciturno aspetto
        Faccian fede e ricordo al passeggero.
        Or ti riveggo in questo suol, di tristi
        Lochi e dal mondo abbandonati amante,
        E d'afflitte fortune ognor compagna.
        Questi campi cosparsi
        Di ceneri infeconde, e ricoperti
        Dell'impietrata lava,
        Che sotto i passi al peregrin risona;
        Dove s'annida e si contorce al sole
        La serpe, e dove al noto
        Cavernoso covil torna il coniglio;
        Fur liete ville e colti,
        E biondeggiàr di spiche, e risonaro
        Di muggito d'armenti;
        Fur giardini e palagi,
        Agli ozi dè potenti
        Gradito ospizio; e fur città famose
        Che coi torrenti suoi l'altero monte
        Dall'ignea bocca fulminando oppresse
        Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
        Una ruina involve,
        Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
        I danni altrui commiserando, al cielo
        Di dolcissimo odor mandi un profumo,
        Che il deserto consola. A queste piagge
        Venga colui che d'esaltar con lode
        Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
        È il gener nostro in cura
        All'amante natura. E la possanza
        Qui con giusta misura
        Anco estimar potrà dell'uman seme,
        Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
        Con lieve moto in un momento annulla
        In parte, e può con moti
        Poco men lievi ancor subitamente
        Annichilare in tutto.
        Dipinte in queste rive
        Son dell'umana gente
        Le magnifiche sorti e progressive .
        Qui mira e qui ti specchia,
        Secol superbo e sciocco,
        Che il calle insino allora
        Dal risorto pensier segnato innanti
        Abbandonasti, e volti addietro i passi,
        Del ritornar ti vanti,
        E procedere il chiami.
        Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
        Di cui lor sorte rea padre ti fece,
        Vanno adulando, ancora
        Ch'a ludibrio talora
        T'abbian fra sé. Non io
        Con tal vergogna scenderò sotterra;
        Ma il disprezzo piuttosto che si serra
        Di te nel petto mio,
        Mostrato avrò quanto si possa aperto:
        Ben ch'io sappia che obblio
        Preme chi troppo all'età propria increbbe.
        Di questo mal, che teco
        Mi fia comune, assai finor mi rido.
        Libertà vai sognando, e servo a un tempo
        Vuoi di novo il pensiero,
        Sol per cui risorgemmo
        Della barbarie in parte, e per cui solo
        Si cresce in civiltà, che sola in meglio
        Guida i pubblici fati.
        Così ti spiacque il vero
        Dell'aspra sorte e del depresso loco
        Che natura ci diè. Per questo il tergo
        Vigliaccamente rivolgesti al lume
        Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
        Vil chi lui segue, e solo
        Magnanimo colui
        Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
        Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
        Uom di povero stato e membra inferme
        Che sia dell'alma generoso ed alto,
        Non chiama sé né stima
        Ricco d'or né gagliardo,
        E di splendida vita o di valente
        Persona infra la gente
        Non fa risibil mostra;
        Ma sé di forza e di tesor mendico
        Lascia parer senza vergogna, e noma
        Parlando, apertamente, e di sue cose
        Fa stima al vero uguale.
        Magnanimo animale
        Non credo io già, ma stolto,
        Quel che nato a perir, nutrito in pene,
        Dice, a goder son fatto,
        E di fetido orgoglio
        Empie le carte, eccelsi fati e nove
        Felicità, quali il ciel tutto ignora,
        Non pur quest'orbe, promettendo in terra
        A popoli che un'onda
        Di mar commosso, un fiato
        D'aura maligna, un sotterraneo crollo
        Distrugge sì, che avanza
        A gran pena di lor la rimembranza.
        Nobil natura è quella
        Che a sollevar s'ardisce
        Gli occhi mortali incontra
        Al comun fato, e che con franca lingua,
        Nulla al ver detraendo,
        Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
        E il basso stato e frale;
        Quella che grande e forte
        Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
        Fraterne, ancor più gravi
        D'ogni altro danno, accresce
        Alle miserie sue, l'uomo incolpando
        Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
        Che veramente è rea, che dè mortali
        Madre è di parto e di voler matrigna.
        Costei chiama inimica; e incontro a questa
        Congiunta esser pensando,
        Siccome è il vero, ed ordinata in pria
        L'umana compagnia,
        Tutti fra sé confederati estima
        Gli uomini, e tutti abbraccia
        Con vero amor, porgendo
        Valida e pronta ed aspettando aita
        Negli alterni perigli e nelle angosce
        Della guerra comune. Ed alle offese
        Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
        Al vicino ed inciampo,
        Stolto crede così qual fora in campo
        Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
        Incalzar degli assalti,
        Gl'inimici obbliando, acerbe gare
        Imprender con gli amici,
        E sparger fuga e fulminar col brando
        Infra i propri guerrieri.
        Così fatti pensieri
        Quando fien, come fur, palesi al volgo,
        E quell'orror che primo
        Contra l'empia natura
        Strinse i mortali in social catena,
        Fia ricondotto in parte
        Da verace saper, l'onesto e il retto
        Conversar cittadino,
        E giustizia e pietade, altra radice
        Avranno allor che non superbe fole,
        Ove fondata probità del volgo
        Così star suole in piede
        Quale star può quel ch'ha in error la sede.
        Sovente in queste rive,
        Che, desolate, a bruno
        Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
        Seggo la notte; e su la mesta landa
        In purissimo azzurro
        Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
        Cui di lontan fa specchio
        Il mare, e tutto di scintille in giro
        Per lo vòto seren brillare il mondo.
        E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
        Ch'a lor sembrano un punto,
        E sono immense, in guisa
        Che un punto a petto a lor son terra e mare
        Veracemente; a cui
        L'uomo non pur, ma questo
        Globo ove l'uomo è nulla,
        Sconosciuto è del tutto; e quando miro
        Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
        Nodi quasi di stelle,
        Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
        E non la terra sol, ma tutte in uno,
        Del numero infinite e della mole,
        Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
        O sono ignote, o così paion come
        Essi alla terra, un punto
        Di luce nebulosa; al pensier mio
        Che sembri allora, o prole
        Dell'uomo? E rimembrando
        Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
        Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
        Che te signora e fine
        Credi tu data al Tutto, e quante volte
        Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
        Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
        Per tua cagion, dell'universe cose
        Scender gli autori, e conversar sovente
        Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
        Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
        Fin la presente età, che in conoscenza
        Ed in civil costume
        Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
        Mortal prole infelice, o qual pensiero
        Verso te finalmente il cor m'assale?
        Non so se il riso o la pietà prevale.
        Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
        Cui là nel tardo autunno
        Maturità senz'altra forza atterra,
        D'un popol di formiche i dolci alberghi,
        Cavati in molle gleba
        Con gran lavoro, e l'opre
        E le ricchezze che adunate a prova
        Con lungo affaticar l'assidua gente
        Avea provvidamente al tempo estivo,
        Schiaccia, diserta e copre
        In un punto; così d'alto piombando,
        Dall'utero tonante
        Scagliata al ciel profondo,
        Di ceneri e di pomici e di sassi
        Notte e ruina, infusa
        Di bollenti ruscelli
        O pel montano fianco
        Furiosa tra l'erba
        Di liquefatti massi
        E di metalli e d'infocata arena
        Scendendo immensa piena,
        Le cittadi che il mar là su l'estremo
        Lido aspergea, confuse
        E infranse e ricoperse
        In pochi istanti: onde su quelle or pasce
        La capra, e città nove
        Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
        Son le sepolte, e le prostrate mura
        L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
        Non ha natura al seme
        Dell'uom più stima o cura
        Che alla formica: e se più rara in quello
        Che nell'altra è la strage,
        Non avvien ciò d'altronde
        Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
        Ben mille ed ottocento
        Anni varcàr poi che spariro, oppressi
        Dall'ignea forza, i popolati seggi,
        E il villanello intento
        Ai vigneti, che a stento in questi campi
        Nutre la morta zolla e incenerita,
        Ancor leva lo sguardo
        Sospettoso alla vetta
        Fatal, che nulla mai fatta più mite
        Ancor siede tremenda, ancor minaccia
        A lui strage ed ai figli ed agli averi
        Lor poverelli. E spesso
        Il meschino in sul tetto
        Dell'ostel villereccio, alla vagante
        Aura giacendo tutta notte insonne,
        E balzando più volte, esplora il corso
        Del temuto bollor, che si riversa
        Dall'inesausto grembo
        Su l'arenoso dorso, a cui riluce
        Di Capri la marina
        E di Napoli il porto e Mergellina.
        E se appressar lo vede, o se nel cupo
        Del domestico pozzo ode mai l'acqua
        Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
        Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
        Di lor cose rapir posson, fuggendo,
        Vede lontan l'usato
        Suo nido, e il picciol campo,
        Che gli fu dalla fame unico schermo,
        Preda al flutto rovente,
        Che crepitando giunge, e inesorato
        Durabilmente sovra quei si spiega.
        Torna al celeste raggio
        Dopo l'antica obblivion l'estinta
        Pompei, come sepolto
        Scheletro, cui di terra
        Avarizia o pietà rende all'aperto;
        E dal deserto foro
        Diritto infra le file
        Dei mozzi colonnati il peregrino
        Lunge contempla il bipartito giogo
        E la cresta fumante,
        Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
        E nell'orror della secreta notte
        Per li vacui teatri,
        Per li templi deformi e per le rotte
        Case, ove i parti il pipistrello asconde,
        Come sinistra face
        Che per vòti palagi atra s'aggiri,
        Corre il baglior della funerea lava,
        Che di lontan per l'ombre
        Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
        Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
        Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
        Dopo gli avi i nepoti,
        Sta natura ognor verde, anzi procede
        Per sì lungo cammino
        Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
        Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
        E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
        E tu, lenta ginestra,
        Che di selve odorate
        Queste campagne dispogliate adorni,
        Anche tu presto alla crudel possanza
        Soccomberai del sotterraneo foco,
        Che ritornando al loco
        Già noto, stenderà l'avaro lembo
        Su tue molli foreste. E piegherai
        Sotto il fascio mortal non renitente
        Il tuo capo innocente:
        Ma non piegato insino allora indarno
        Codardamente supplicando innanzi
        Al futuro oppressor; ma non eretto
        Con forsennato orgoglio inver le stelle,
        Né sul deserto, dove
        E la sede e i natali
        Non per voler ma per fortuna avesti;
        Ma più saggia, ma tanto
        Meno inferma dell'uom, quanto le frali
        Tue stirpi non credesti
        O dal fato o da te fatte immortali.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Il Natale

          Qual masso che dal vertice
          Di lunga erta montana,
          Abbandonato all'impeto
          Di rumorosa frana,
          Per lo scheggiato calle
          Precipitando a valle,
          Batte sul fondo e sta;
          Là dove cadde, immobile
          Giace in sua lenta mole;
          Né, per mutar di secoli,
          Fia che riveda il sole
          Della sua cima antica,
          Se una virtude amica
          In alto nol trarrà:
          Tal si giaceva il misero
          Figliol del fallo primo,
          Dal dì che un'ineffabile
          Ira promessa all'imo
          D'ogni malor gravollo,
          Donde il superbo collo
          Più non potea levar.
          Qual mai tra i nati all'odio
          Quale era mai persona
          Che al Santo inaccessibile
          Potesse dir: perdona?
          Far novo patto eterno?
          Al vincitore inferno
          La preda sua strappar?
          Ecco ci è nato un Pargolo,
          Ci fu largito un Figlio:
          Le avverse forze tremano
          Al mover del suo ciglio:
          All'uom la mano Ei porge,
          Che si ravviva, e sorge
          Oltre l'antico onor.
          Dalle magioni eteree
          Sgorga una fonte, e scende
          E nel borron dè triboli
          Vivida si distende:
          Stillano mele i tronchi;
          Dove copriano i bronchi,
          Ivi germoglia il fior.
          O Figlio, o Tu cui genera
          L'Eterno, eterno seco;
          Qual ti può dir dè secoli:
          Tu cominciasti meco?
          Tu sei: del vasto empiro
          Non ti comprende il giro:
          La tua parola il fè.
          E Tu degnasti assumere
          Questa creata argilla?
          Qual merto suo, qual grazia
          A tanto onor sortilla?
          Se in suo consiglio ascoso
          Vince il perdon, pietoso
          Immensamente Egli è.
          Oggi Egli è nato: ad Efrata,
          Vaticinato ostello,
          Ascese un'alma Vergine,
          La gloria d'Israello,
          Grave di tal portato:
          Da cui promise è nato,
          Donde era atteso uscì.
          La mira Madre in poveri.
          Panni il Figliol compose,
          E nell'umil presepio
          Soavemente il pose;
          E l'adorò: beata!
          Innanzi al Dio prostrata
          Che il puro sen le aprì.
          L'Angel del cielo, agli uomini
          Nunzio di tanta sorte,
          Non dè potenti volgesi
          Alle vegliate porte;
          Ma tra i pastor devoti,
          Al duro mondo ignoti,
          Subito in luce appar.
          E intorno a lui per l'ampia
          Notte calati a stuolo,
          Mille celesti strinsero
          Il fiammeggiante volo;
          E accesi in dolce zelo,
          Come si canta in cielo,
          A Dio gloria cantar.
          L'allegro inno seguirono,
          Tornando al firmamento:
          Tra le varcate nuvole
          Allontanossi, e lento
          Il suon sacrato ascese,
          Fin che più nulla intese
          La compagnia fedel.
          Senza indugiar, cercarono
          L'albergo poveretto
          Què fortunati, e videro,
          Siccome a lor fu detto,
          Videro in panni avvolto,
          In un presepe accolto,
          Vagire il Re del Ciel.
          Dormi, o Fanciul; non piangere;
          Dormi, o Fanciul celeste:
          Sovra il tuo capo stridere
          Non osin le tempeste,
          Use sull'empia terra,
          Come cavalli in guerra,
          Correr davanti a Te.
          Dormi, o Celeste: i popoli
          Chi nato sia non sanno;
          Ma il dì verrà che nobile
          Retaggio tuo saranno;
          Che in quell'umil riposo,
          Che nella polve ascoso,
          Conosceranno il Re.
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            Scritta da: Roberta68
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Quercia sfrondata

            Ti abbiamo tagliato,
            albero!
            Come sei spoglio e bizzarro.
            Cento volte hai patito,
            finché tutto in te fu solo tenacia
            e volontà!
            Io sono come te. Non ho
            rotto con la vita
            incisa, tormentata
            e ogni giorno mi sollevo dalle
            sofferenze e alzo la fronte alla luce.
            Ciò che in me era tenero e delicato,
            il mondo lo ha deriso a morte,
            ma indistruttibile è il mio essere,
            sono pago, conciliato.
            Paziente genero nuove foglie
            Da rami cento volte sfrondati
            e a dispetto di ogni pena
            rimango innamorato
            del mondo folle.
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