Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Andrea De Candia
in Poesie (Poesie d'Autore)

Rendimi i miei capelli

Rendimi i miei capelli,
non portarli con te nelle tue pene,
inebriami di baci, come statua
che abbia compiuto musiche maggiori.

O coscia del destino semiaperto,
lascia che ti ricami una chimera
sull'avambraccio
prima che la follia del tempo
divori le caviglie.

Sei nata donna
ma tu sei così oscura
come tranello in cui tema il piede
di orizzontarsi. Sei la mia dimora,
la dimora traslata dalle vigne
che fa tacere anche il pavimento.
Composta giovedì 31 marzo 2016
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    A un vincitore nel pallone

    Di gloria il viso e la gioconda voce,
    Garzon bennato, apprendi,
    E quanto al femminile ozio sovrasti
    La sudata virtude. Attendi attendi,
    Magnanimo campion (s'alla veloce
    Piena degli anni il tuo valor contrasti
    La spoglia di tuo nome), attendi e il core
    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
    Arena e il circo, e te fremendo appella
    Ai fatti illustri il popolar favore;
    Te rigoglioso dell'età novella
    Oggi la patria cara
    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
    Del barbarico sangue in Maratona
    Non colorò la destra
    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
    Che stupido mirò l'ardua palestra,
    Né la palma beata e la corona
    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
    Forse le chiome polverose e i fianchi
    Delle cavalle vincitrici asterse
    Tal che le greche insegne e il greco acciaro
    Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
    Nelle pallide torme; onde sonaro
    Di sconsolato grido
    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
    Vano dirai quel che disserra e scote
    Della virtù nativa
    Le riposte faville? E che del fioco
    Spirto vital negli egri petti avviva
    Il caduco fervor? Le meste rote
    Da poi che Febo instiga, altro che gioco
    Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
    Della menzogna il vero? A noi di lieti
    Inganni e di felici ombre soccorse
    Natura stessa: e là dove l'insano
    Costume ai forti errori esca non porse,
    Negli ozi oscuri e nudi
    Mutò la gente i gloriosi studi.
    Tempo forse verrà ch'alle ruine
    Delle italiche moli
    Insultino gli armenti, e che l'aratro
    Sentano i sette colli; e pochi Soli
    Forse fien volti, e le città latine
    Abiterà la cauta volpe, e l'atro
    Bosco mormorerà fra le alte mura;
    Se la funesta delle patrie cose
    Obblivion dalle perverse menti
    Non isgombrano i fati, e la matura
    Clade non torce dalle abbiette genti
    Il ciel fatto cortese
    Dal rimembrar delle passate imprese.
    Alla patria infelice, o buon garzone,
    Sopravviver ti doglia.
    Chiaro per lei stato saresti allora
    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
    Che nullo di tal madre oggi s'onora:
    Ma per te stesso al polo ergi la mente.
    Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
    Beata allor che nè perigli avvolta,
    Se stessa obblia, né delle putri e lente
    Ore il danno misura e il flutto ascolta;
    Beata allor che il piede
    Spinto al varco leteo, più grata riede.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Quasi un madrigale

      Il girasole piega a occidente
      e già precipita il giorno nel suo
      occhio in rovina e l'aria dell'estate
      s'addensa e già curva le foglie e il fumo
      dei cantieri. S'allontana con scorrere
      secco di nubi e stridere di fulmini
      quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
      e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
      degli alberi stretti dentro la cerchia
      dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
      e sempre quel sole che se ne va
      con il filo del suo raggio affettuoso.

      Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
      la memoria risale dalla morte,
      la vita è senza fine. Ogni giorno
      è nostro. Uno si fermerà per sempre,
      e tu con me, quando ci sembri tardi.
      Qui sull'argine del canale, i piedi
      in altalena, come di fanciulli,
      guardiamo l'acqua, i primi rami dentro
      il suo colore verde che s'oscura.
      E l'uomo che in silenzio s'avvicina
      non nasconde un coltello fra le mani,
      ma un fiore di geranio.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        A mia madre dalla sua casa

        M'accoglie la tua vecchia, grigia casa
        steso supino sopra un letto angusto,
        forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
        conto le ore lentissime a passare,
        più lente per le nuvole che solcano
        queste notti d'agosto in terre avare.

        Uno che torna a notte alta dai campi
        scambia un cenno a fatica con i simili,
        infila l'erta, il vicolo, scompare
        dietro la porta del tugurio. L'afa
        dello scirocco agita i riposi,
        fa smaniare gli infermi ed i reclusi.

        Non dormo, seguo il passo del nottambulo
        sia demente sia giovane tarato
        mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
        lascio e prendo il mio carico servile
        e scendo, scendo più che già non sia
        profondo in questo tempo, in questo popolo.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Di un Natale metropolitano

          Un vischio, fin dall'infanzia sospeso grappolo
          di fede e di pruina sul tuo lavandino
          e sullo specchio ovale ch'ora adombrano
          i tuoi ricci bergére fra santini e ritratti
          di ragazzi infilati un po' alla svelta
          nella cornice, una caraffa vuota,
          bicchierini di cenere e di bucce,
          le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
          le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
          non più guerra né pace, il tardo frullo
          di un piccione incapace di seguirti
          sui gradini automatici che ti slittano in giù….
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            All'Italia

            O patria mia, vedo le mura e gli archi
            E le colonne e i simulacri e l'erme
            Torri degli avi nostri,
            Ma la la gloria non vedo,
            Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
            I nostri padri antichi. Or fatta inerme
            Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
            Oimè quante ferite,
            Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
            Formesissima donna!
            Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
            Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
            Che di catene ha carche ambe le braccia,
            Sì che sparte le chiome e senza velo
            Siede in terra negletta e sconsolata,
            Nascondendo la faccia
            Tra le ginocchia, e piange.
            Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
            Le genti a vincer nata
            E nella fausta sorte e nella ria.
            Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
            Mai non potrebbe il pianto
            Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
            Che fosti donna, or sei povera ancella.
            Chi di te parla o scrive,
            Che, rimembrando il tuo passato vanto,
            Non dica: già fu grande, or non è quella?
            Perché, perché? Dov'è la forza antica?
            Dove l'armi e il valore e la costanza?
            Chi ti discinse il brando?
            Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
            0 qual tanta possanza,
            Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
            Come cadesti o quando
            Da tanta altezza in così basso loco?
            Nessun pugna per te? Non ti difende
            Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
            Combatterà, procomberò sol io.
            Dammi, o ciel, che sia foco
            Agl'italici petti il sangue mio.
            Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
            E di carri e di voci e di timballi
            In estranie contrade
            Pugnano i tuoi figliuoli.
            Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
            Un fluttuar di fanti e di cavalli,
            E fumo e polve, e luccicar di spade
            Come tra nebbia lampi.
            Nè ti conforti e i tremebondi lumi
            Piegar non soffri al dubitoso evento?
            A che pugna in quei campi
            L'itata gioventude? 0 numi, o numi
            Pugnan per altra terra itali acciari.
            Oh misero colui che in guerra è spento,
            Non per li patrii lidi e per la pia
            Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
            Per altra gente, e non può dir morendo
            Alma terra natia,
            La vita che mi desti ecco ti rendo.
            Oh venturose e care e benedette
            L'antiche età, che a morte
            Per la patria correan le genti a squadre
            E voi sempre onorate e gloriose,
            0 tessaliche strette,
            Dove la Persia e il fato assai men forte
            Fu di poch'alme franche e generose!
            Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
            E le montagne vostre al passeggere
            Con indistinta voce
            Narrin siccome tutta quella sponda
            Coprir le invitte schiere
            Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
            Allor, vile e feroce,
            Serse per l'Ellesponto si fuggia,
            Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
            E sul colle d'Antela, ove morendo
            Si sottrasse da morte il santo stuolo,
            Simonide salia,
            Guardando l'etra e la marina e il suolo.
            E di lacrime sparso ambe le guance,
            E il petto ansante, e vacillante il piede,
            Toglicasi in man la lira:
            Beatissimi voi,
            Ch'offriste il petto alle nemiche lance
            Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
            Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
            Nell'armi e nè perigli
            Qual tanto amor le giovanette menti,
            Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
            Come si lieta, o figli,
            L'ora estrema vi parve, onde ridenti
            Correste al passo lacrimoso e, duro?
            Parea ch'a danza e non a morte andasse
            Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
            Ma v'attendea lo scuro
            Tartaro, e l'ond'a morta;
            Nè le spose vi foro o i figli accanto
            Quando su l'aspro lito
            Senza baci moriste e senza pianto.
            Ma non senza dè Persi orrida pena
            Ed immortale angoscia.
            Come lion di tori entro una mandra
            Or salta a quello in tergo e sì gli scava
            Con le zanne la schiena,
            Or questo fianco addenta or quella coscia;
            Tal fra le Perse torme infuriava
            L'ira dè greci petti e la virtute.
            Vè cavalli supini e cavalieri;
            Vedi intralciare ai vinti
            La fuga i carri e le tende cadute,
            E correr frà primieri
            Pallido e scapigliato esso tiranno;
            vè come infusi e tintí
            Del barbarico sangue i greci eroi,
            Cagione ai Persi d'infinito affanno,
            A poco a poco vinti dalle piaghe,
            L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
            Beatissimi voi
            Mentre nel mondo si favelli o scriva.
            Prima divelte, in mar precipitando,
            Spente nell'imo strideran le stelle,
            Che la memoria e il vostro
            Amor trascorra o scemi.
            La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
            Verran le madri ai parvoli le belle
            Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
            0 benedetti, al suolo,
            E bacio questi sassi e queste zolle,
            Che fien lodate e chiare eternamente
            Dall'uno all'altro polo.
            Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
            Fosse del sangue mio quest'alma terra.
            Che se il fato è diverso, e non consente
            Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
            Chiuda prostrato in guerra,
            Così la vereconda
            Fama del vostro vate appo i futuri
            Possa, volendo i numi,
            Tanto durar quanto la, vostra duri.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Ridotto a me stesso?

              Ridotto a me stesso?
              Morto l'interlocutore?
              O morto io,
              l'altro su di me
              padrone del campo, l'altro,
              universo, parificatore...
              o no,
              niente di questo:
              il silenzio raggiante
              dell'amore pieno,
              della piena incarnazione
              anticipato da un lampo? -
              penso
              se è pensare questo
              e non opera di sonno
              nella pausa solare
              del tumulto di adesso.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                De gli occhi de la mia donna si move

                De gli occhi de la mia donna si move
                un lume sì gentil che, dove appare,
                si veggion cose ch'uom non po' ritrare
                per loro altezza e per lor esser nove:
                e dè suoi razzi sovra 'l meo cor piove
                tanta paura, che mi fa tremare
                e dicer: "Qui non voglio mai tornare";
                ma poscia perdo tutte le mie prove:
                e tornomi colà dov'io son vinto,
                riconfortando gli occhi paurusi,
                che sentier prima questo gran valore.
                Quando son giunto, lasso!, ed è son chiusi;
                lo disio che li mena quivi è stinto:
                però proveggia a lo mio stato Amore.
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