Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Arano

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinnio come d'oro.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Morte di Clorinda

    Ma ecco omai l'ora fatale è giunta
    che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
    Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
    che vi s'immerge e 'l sangue avido beve;
    e la veste, che d'or vago trapunta
    le mammelle stringea tenera e leve,
    l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente
    morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.

    Segue egli la vittoria, e la trafitta
    vergine minacciando incalza e preme.
    Ella, mentre cadea, la voce afflitta
    movendo, disse le parole estreme;
    parole ch'a lei novo un spirto ditta,
    spirto di fé, di carità, di speme:
    virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella
    in vita fu, la vuole in morte ancella.

    - Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
    tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
    a l'alma sì; deh! Per lei prega, e dona
    battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. -
    In queste voci languide risuona
    un non so che di flebile e soave
    ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
    e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

    Poco quindi lontan nel sen del monte
    scaturia mormorando un picciol rio.
    Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
    e tornò mesto al grande ufficio e pio.
    Tremar sentì la man, mentre la fronte
    non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
    La vide, la conobbe, e restò senza
    e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!

    Non morì già, ché sue virtuti accolse
    tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
    e premendo il suo affanno a dar si volse
    vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
    Mentre egli il suon dè sacri detti sciolse,
    colei di gioia trasmutossi, e rise;
    e in atto di morir lieto e vivace,
    dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace. "

    D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
    come à gigli sarian miste viole,
    e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
    sembra per la pietate il cielo e 'l sole;
    e la man nuda e fredda alzando verso
    il cavaliero in vece di parole
    gli dà pegno di pace. In questa forma
    passa la bella donna, e par che dorma.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Pasqua

      A festoni la grigia parietaria
      come una bimba gracile s'affaccia
      ai muri della casa centenaria.

      Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
      sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
      spietatamente, con tenaci braccia.

      Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
      il richiamo di Pasqua empie la terra
      con l'antica pia favola dell'ovo.
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        Scritta da: Marzia Ornofoli
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        È pieno inverno

        È pieno inverno, sono nudi gli alberi
        Tranne là dove si rifugia il gregge
        Stringendosi sotto il pino.
        Belano le pecore nella neve fangosa
        Addossate al recinto. La stalla è chiusa
        Ma strisciando i cani tremanti escono fuori,
        Scendono al ruscello gelato. Per ritornare
        Sconsolati indietro. Avvolti in un sospiro
        Sembrano i rumori dei carri, le grida dei pastori.
        Le cornacchie stridono in cerchi indifferenti
        Intorno al pagliaio gelato. O si acquattano
        Sui rami sgocciolanti. Si rompe il ghiaccio
        Tra le canne dello stagno dove sbatte le ali il tarabuso
        e allungando il collo schiamazza alla luna.
        Saltella sui prati una povera lepre,
        Piccola macchia scura impaurita
        e un gabbiano sperso, come una folata improvvisa
        Di neve, si mette a gridare contro il cielo.
        Composta martedì 11 agosto 2009
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          in Poesie (Poesie d'Autore)
          Per tutti gli dei che in cielo governano
il genere umano e la terra, 
cos'è questo fermento? Perché tutte
mi guardate con occhi truci? 
Per i tuoi figli, se a presenziare un tuo parto
Hai mai invocato Lucina, 
per questo vano ornamento di porpora, 
per Giove che questo condanna, 
dimmi, perché mi guardi come una matrigna
o una belva ferita?
          Così con voce tremante pianse il fanciullo,
          quando impietrito fu spogliato,
          un corpo immaturo che avrebbe intenerito
          l'empio cuore dei traci.
          Canidia allora, che fra i capelli arruffati
          ha nodi guizzanti di vipere,
          ordina che su fiamme della Còlchide
          siano arsi cipressi funebri,
          caprifichi divelti dai sepolcri,
          uova di rospo viscido
          sporche di sangue, penne di civetta,
          erbe che vengono da Iolco
          o dall'Iberia, patria di veleni, e ossa
          strappate ai denti di una cagna.
          Sàgana intanto, discinta e con i capelli
          irti come riccio di mare
          o cinghiale in fuga, sparge in tutta la casa
          acqua del lago Averno.
          Veia, che non è distolta da alcun rimorso,
          scava a colpi di zappa
          la terra, gemendo per la fatica:
          qui seppelliranno il fanciullo
          con solo il capo che affiora, come chi nuota
          fuori dell'acqua ha solo il mento,
          perché davanti ai cibi sempre nuovi e freschi
          abbia a morire lentamente:
          col midollo estratto e il fegato inaridito
          si farà così un filtro d'amore,
          quando le sue pupille sbarrate sul cibo
          vietato si saranno spente.
          Era presente anche Folia, la riminese
          (così si crede a Napoli

          fra gli sfaccendati e nelle città vicine),
          che ama le donne come un uomo
          e per magia con l'incanto della sua voce
          strappa dal cielo luna e stelle.
          E Canidia, livida di rabbia, rodendosi
          coi denti l'artiglio del pollice,
          senza ritegno disse:
          'Dell'opera mia
          fedeli testimoni,
          Notte e Luna, regina del silenzio,
          al tempo dei sacri misteri,
          ora, ora assistetemi e l'ira divina
          volgete sulle case ostili.
          Mentre le fiere si nascondono negli orridi,
          abbandonate a un dolce sonno,
          fate che i cani di Suburra latrino
          contro quel vecchio traditore e tutti ridano,
          profumato così com'è di nardo,
          che migliore non saprei fare.
          Ma perché, perché non hanno effetto i veleni
          spietati della barbara Medea?
          Con questi, in fuga, si vendicò della figlia
          del grande Creonte, la superba rivale,
          quando il peplo avvelenato, datole in dono,
          tra le fiamme rapì la sposa in fiore.
          Nessuna radice nascosta in luoghi impervi,
          nessuna erba m'è sfuggita,
          e il letto, in cui dorme, tutte le mie rivali
          dovrebbe per malia fargli scordare.
          Per gli incantesimi d'un'altra maga, ahimè,
          più sapiente, se ne va libero.
          Ma ora, Varo, dovrai piangere a lungo:
          per effetto di un filtro inusitato
          correrai da me e a me tornerà il tuo cuore
          non più attratto da cantilene marsiche.
          Filtro più forte ti preparerò, più forte
          te lo mescerò, visto che mi odi,
          e il cielo sprofonderà nel mare e su questo
          si stenderà la terra,
          se tu per me non arderai d'amore
          come la fiamma nera del bitumè.
          A queste minacce il fanciullo più non tenta
          d'intenerire quelle scellerate,
          ma dopo lo smarrimento rompe il silenzio e
          lancia, come Tieste, la sua maledizione:
          'I filtri non possono mutare il destino
          degli uomini, giusto o ingiusto che sia.
          Vi maledirò; e questa maledizione
          nessun sacrificio potrà espiarla.
          Quando, messo a morte, sarò spirato, innanzi
          vi comparirò nella notte come un demone,
          larva che con gli artigli vi ghermirà il volto,
          perché questo possono i morti,
          e pesando sui vostri cuori inquieti,
          nel terrore vi ruberò il sonno.
          Nei villaggi da ogni parte la folla
          vi lapiderà, streghe maledette,
          e avvoltoi e lupi sull'Esquilino
          dilanieranno le vostre membra insepolte:
          questo dovranno vedere i miei genitori,
          che, ahimè, mi sopravviverannò.
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