Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Arte Poetica

La musica prima di tutto
e dunque scegli il metro dispari
più vago e più lieve,
niente in lui di maestoso e greve.

Occorre inoltre che tu scelga
le parole con qualche imprecisione:
nulla di più amato del canto ambiguo
dove all'esatto si unisce l'incerto.

Son gli occhi belli dietro alle velette,
l'immenso dì che vibra a mezzogiorno,
e per un cielo d'autunno intepidito
l'azzurro opaco delle chiare stelle!

Perché ancora bramiamo sfumature,
sfumatura soltanto, non colore!
Oh! lo sfumato soltanto accompagna
il sogno al sogno e il corno al flauto!

Fuggi più che puoi il Frizzo assassino,
il crudele Motteggio e il Riso impuro
che fanno lacrimare l'occhio dell'Azzurro,
e tutto quest'aglio di bassa cucina!
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Alla morte

    Morire sì,
    non essere aggrediti dalla morte.
    Morire persuasi
    che un siffatto viaggio sia il migliore.
    E in quell'ultimo istante essere allegri
    come quando si contano i minuti
    dell'orologio della stazione
    e ognuno vale un secolo.
    Poi che la morte è la sposa fedele
    che subentra all'amante traditrice,
    non vogliamo riceverla da intrusa,
    né fuggire con lei.
    Troppo volte partimmo
    senza commiato!
    Sul punto di varcare
    in un attimo il tempo,
    quando pur la memoria
    di noi s'involerà,
    lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
    concedici ancora un indugio.
    L'immane passo non sia
    precipitoso.
    Al pensier della morte repentina
    il sangue mi si gela.
    Morte non mi ghermire
    ma da lontano annunciati
    e da amica mi prendi
    come l'estrema delle mie abitudini.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Alba

      Odoravano i fior di vitalba
      per via, le ginestre nel greto;
      aliavano prima dell'alba
      le rondini nell'uliveto.
      Aliavano mute con volo
      nero, agile, di pipistrello;
      e tuttora gemea l'assiolo,
      che già spincionava il fringuello.
      Tra i pinastri era l'alba che i rivi
      mirava discendere giù:
      guizzò un raggio, soffiò su gli ulivi;
      virb... disse una rondine; e fu
      giorno: un giorno di pace e lavoro,
      che l'uomo mieteva il suo grano,
      e per tutto nel cielo sonoro
      saliva un cantare lontano.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La stella di Natale

        Era pieno inverno.
        Soffiava il vento della steppa.
        E aveva freddo il neonato nella grotta
        Sul pendio della collina.

        L'alito del bue lo riscaldava.
        Animali domestici
        stavano nella grotta,
        sulla culla vagava un tiepido vapore.

        Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio
        e i grani di miglio,
        dalle rupi guardavano
        assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte.

        Lontano, la pianura sotto la neve, e il cimitero
        e recinti e pietre tombali
        e stanghe di carri confitte nella neve,
        e sul cimitero il cielo tutto stellato.

        E lì accanto, mai vista sino allora,
        più modesta d'un lucignolo
        alla finestrella d'un capanno,
        traluceva una stella sulla strada di Betlemme.



        Per quella stessa via, per le stesse contrade
        degli angeli andavano, mescolati alla folla.
        L'incorporeità li rendeva invisibili,
        ma a ogni passo lasciavano l'impronta d'un piede.

        Una folla di popolo si accalcava presso la rupe.
        Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri.
        E a loro, "chi siete? " domandò Maria.
        "Noi, stirpe di pastori e inviati del cielo,
        siamo venuti a cantare lodi a voi due".
        "Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia".

        Nella foschia di cenere, che precede il mattino,
        battevano i piedi mulattieri e allevatori.
        Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo;
        e accanto al tronco cavo dell'abbeverata
        mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini.

        Albeggiava. Dalla volta celeste l'alba spazzava,
        come granelli di cenere, le ultime stelle.
        E della innumerevole folla solo i Magi
        Maria lasciò entrare nell'apertura rocciosa.

        Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia,
        come un raggio di luna dentro un albero cavo.
        Invece di calde pelli di pecora,
        le labbra d'un asino e le nari d'un bue.

        I Magi, nell'ombra, in quel buio di stalla
        Sussurravano, trovando a stento le parole.
        A un tratto qualcuno, nell'oscurità,
        con una mano scostò un poco a sinistra
        dalla mangiatoia uno dei tre Magi;
        e quello si voltò: dalla soglia, come in visita,
        alla Vergine guardava la stella di Natale.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Sospiro

          L'anima verso la tua fronte, o calma sorella,
          dove sogna un autunno sparso di macchie di porpora
          e verso il cielo errabondo delle tue iridi
          angeliche, sale, come in un malinconico
          giardino, fedele un bianco zampillo sospira
          verso l'Azzurro!
          - Verso l'Azzurro raddolcito d'Ottobre
          pallido e puro che specchia il suo languore infinito
          ai grandi bacini e lascia, sull'acqua morta
          dov'erra col vento la fulva agonia delle foglie
          scavando un gelido solco, trascinarsi
          il sole giallo con obliquo raggio.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Pietra di sole (frammenti)

            un salice di cristallo, un pioppo d'acqua,
            un alto getto che il vento inarca,
            un albero ben piantato ma danzante,
            un camminar di fiume che si curva,
            avanza, retrocede, fa un giro
            e sempre arriva:
            un camminar tranquillo
            di stella o primavera senza fretta,
            acqua che con le palpebre chiuse
            emette tutta notte profezie,
            unanime presenza in ondata,
            onda su onda fino a coprir tutto,
            verde sovranità senza tramonto
            come l'abbacinante effetto delle ali
            quando s'aprono nel mezzo del cielo, (... )
            vado per il tuo corpo come per il mondo,
            il tuo ventre è una spiaggia soleggiata,
            i tuoi seni due chiese dove il sangue
            celebra i suoi misteri paralleli,
            i miei sguardi ti coprono come edera,
            sei una città che il mare assedia,
            una muraglia che la luce divide
            in due metà color di pesca,
            un luogo di sale, roccia e uccelli
            sotto la legge del meriggio assorto,

            vestita del colore dei miei desideri
            vai nuda come il mio pensiero,
            vado pei tuoi occhi come per l'acqua,
            le tigri bevono sogno nei tuoi occhi,
            il colibrí si brucia in quelle fiamme,
            vado per la tua fronte come per la luna,
            come la nube per il tuo pensiero,
            vado per il tuo ventre come pei tuoi sogni,
            la tua gonna di mais ondeggia e canta,

            la tua gonna di cristallo, la tua gonna d'acqua,
            le tue labbra, i capelli, i tuoi sguardi,
            tutta la notte piovi, tutto il giorno
            apri il mio petto con le tue dita d'acqua,
            chiudi i miei occhi con la tua bocca d'acqua,
            sulle mie ossa piovi, nel mio petto
            affonda radici d'acqua un albero liquido,

            vado per la tua strada come per un fuime,
            vado per il tuo corpo come per un bosco,
            come per un sentiero nel monte
            che in un brusco abisso finisce,
            vado pei tuoi pensieri assottigliati
            e all'uscita dalla tua bianca fronte
            la mia ombra abbattuta si strazia,
            raccolgo i miei frammenti uno a uno
            e proseguo senza corpo, cerco tentoni, (... )

            —la vita, quando fu davvero nostra?
            quando siamo davvero ciò che siamo?
            ben guardato non siamo, mai siamo
            da soli se non vertigine e vuoto,
            smorfie nello specchio, orrore e vomito,
            mai la vita è nostra, è degli altri,
            la vita non è di nessuno, tutti siamo
            la vita —pane di sole per gli altri,
            tutti gli altri che siam noi—,
            son altro quando sono, i miei atti
            son piú miei se sono anche di tutti

            perché io possa essere devo esser altro,
            uscire da me, cercarmi tra gli altri,
            gli altri che non sono s'io non esisto,
            gli altri che mi dan piena esistenza,
            non sono, non v'è io, siam sempre noi,
            la vita è un'altra, sempre là, piú lungi,
            fuori di te, di me, sempre orizzonte,
            vita che ci svive e ci fa estranei
            che ci inventa un volto e lo sciupa,
            fame d'essere, oh morte, pane di tutti.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Kinsey Keene

              Ascoltate, Thomas Rhodes, presidente della banca;
              Coolbaugh Whedon, direttore dell'"Argo";
              Reverendo Peet, pastore della prima chiesa;
              A. D. Blood, più volte sindaco di Spoon River;
              e finalmente voi tutti, membri dell'Associazione del Buon Costume —
              ascoltate le parole di Cambronne morituro,
              ritto con gli eroici superstiti
              della guardia di Napoleone a Mont Saint-Jean
              sul campo di battaglia di Waterloo,
              quando Maitland, l'inglese, gridò loro:
              "Arrendetevi, prodi Francesi! " —
              là sul finir del giorno, quando la battaglia fu irrimediabilmente perduta,
              e orde d'uomini che non eran più l'esercito
              del grande Napoleone
              si agitavano sul campo come brandelli laceri
              di nuvole tonanti nella tempesta.
              Ebbene, ciò che Cambronne disse a Maitland
              prima che il fuoco inglese spianasse il ciglio della collina
              contro la luce morente del giorno,
              io dico a voi, e a tutti voi,
              e a te, universo.
              E v'incarico di scolpirlo.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La campagna

                O tu cantor di morbidi
                Pratei, di dolci rivi,
                Che i verdi poggi, e gli alberi
                Soavemente avvivi
                Con gli armonici versi
                Da fresche tinte aspersi,

                Odi un poeta giovane,
                Che il genio che l'ispira
                Devoto siegue, e libero
                Percote ardita lira,
                E cò suoi canti vola
                Al suo gentil Bertòla.

                Fra campestri delizie
                Tranquillo e lieto io vivo.
                E col pensier fantastico
                Tra me canto e descrivo
                Sì vaghi paeselli,
                Che ognor sembran novelli.

                Pingo; ma resto attonito
                Allor che su i tuoi fogli
                Veggo fiorire, e sorgere
                Pianto e marini scogli,
                Che sembrano invitarmi
                A sacrar loro i carmi.

                Da me s'invola subito
                Il mio picciol soggiorno,
                E sol veggo Posilipo
                E il mar che vanta intorno
                Di Mergellina il lido
                Ameno più che Gnido.

                Estatici contemplano
                Tuoi campi i cupid'occhi:
                O come allor nell'anima
                Sento beati tocchi,
                Che mi dicono ognora:
                Sì dolce vate onora.

                Salve, dunque, del tenero
                Gesnèr felice alunno!
                Il lor poeta adorino
                D'aprile e dell'autunno
                Le Grazie e i lindi Amori
                Coronati di fiori.

                Il lor poeta adorino
                Le serpeggianti linfe,
                E dai monti scherzevoli
                Scendan le gaje Ninfe,
                E alternin baci in fronte
                Al tòsco Anacreonte.

                Ed io tesso tra cantici
                Ghirlandetta odorosa
                Non d'orgogliosi lauri,
                Ma sol d'umida rosa,
                E il capo ombreggio al molle
                Abitator del colle.

                E in cor brillante io dico:
                Questa dona Natura
                Al suo più ingenuo amico,
                Ch'ella d'altro non cura:
                Da lui schietto-dipinta
                Di fior va anch'ella cinta.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  A Dante

                  Alto rombano i secoli
                  Su rapidissim'ali,
                  E dall'aere giù vibrano
                  Dritti infiammati strali
                  Che additano agl'ingegni
                  D'eterna gloria i segni:

                  Ma qual nebbia! Qual livido
                  Umor spargon dai vanni
                  Che in fetida caligine
                  Attomban nomi ed anni,
                  E rodono quel serto
                  Che ombreggia un tenue merto!

                  O mio Poeta, o altissimo
                  Signor del sommo canto,
                  Che con sublime cetera
                  Per la casa del pianto
                  Girasti, e fra la gente,
                  Che o gioisce, o si pente,

                  Tu vivi eterno. - Gloria
                  Di suo fulgor ti cinse,
                  Tuonò sua voce; un fulmine
                  Fu per chi ti dipinse
                  Testor stentato, oscuro
                  Di carmi e stile impuro.

                  Pèra! La lingua sucida
                  Costui nutra nel sangue,
                  E per delfici lauri
                  Gli accerchi invece un angue,
                  Sanie stillante infesta,
                  L'abbominevol testa.

                  Dicesti: ed ecco stridono
                  In suon ringhiante e forte
                  Gli aspri tartarei cardini:
                  Della cappa di morte
                  Infino à più vestute
                  Ecco l'Ombre perdute.

                  Io già le ascolto: echeggiano
                  Per l'aer senza stelle
                  Batter di man, bestemmie,
                  Orribili favelle,
                  Voci alte e fioche, accenti
                  D'ire in dolor furenti.

                  O Padre! O Vate! Un giovane
                  Cui l'estro ai cieli innalza,
                  Che pel genio che l'agita
                  Fervidamente sbalza
                  A inerudita cetra
                  Canti spargendo all'etra,

                  A te si prostra: un'anima
                  Che in sè ognor si ravvolge,
                  Che in ermi boschi tacita
                  Fugge dall'atre bolge
                  Di cittadino tetto,
                  Gl'irraggia l'intelletto.

                  Di sapienza nettare
                  Fra mie voglie delibo,
                  E, meditante, ai spiriti
                  Porgo l'augusto cibo
                  Che questa etade impura,
                  Famelica, non cura.

                  Muta di luce eterea
                  Alle peccata in grembo
                  Fra cupo orror s'avvoltola
                  L'Umanità: il suo lembo
                  Spruzzi di sangue stilla,
                  Ed ella va in favilla.

                  Ma ira di giustizia
                  Lui che può ciò che vuole
                  Ruggisce in cielo, e scaglia
                  Di spavento parole;
                  Vennero i giorni alfine
                  Di piaghe e di ruine.

                  Vennero si; ma sorgere,
                  Giganteggiando, i nostri
                  Carmi vedransi, e liberi
                  Calpestare què mostri
                  Che tumidi d'orgoglio
                  Siedono ingiusti in soglio.
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