Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

Questo utente ha inserito contributi anche in Frasi & Aforismi, in Indovinelli, in Frasi di Film, in Umorismo, in Racconti, in Leggi di Murphy, in Frasi per ogni occasione e in Proverbi.

Scritta da: Silvana Stremiz

Allora

Allora... in un tempo assai lunge
felice fui molto; non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza d'allora!
Quell'anno! Per anni che poi
fuggirono, che fuggiranno,
non puoi, mio pensiero, non puoi,
portare con te, che quell'anno!
Un giorno fu quello, ch'è senza
compagno, ch'è senza ritorno;
la vita fu vana parvenza
sì prima sì dopo quel giorno!
Un punto!... così passeggero,
che in vero passò non raggiunto,
ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!
Vota la poesia: Commenta
    Scritta da: Silvana Stremiz

    Per quel giorno, se mai verrà quel giorno (Sonetto 49)

    Per quel giorno, se mai verrà quel giorno,
    in cui ti vedrò accigliare ad ogni mio difetto,
    e chiuderà il tuo amore il suo conto estremo
    spinto a tal giudizio da sagge riflessioni:
    per quel giorno in cui m'incontrerai da estraneo
    senza volgere al mio viso il sole dei tuoi occhi,
    e l'amor, mutato da quel era un tempo,
    troverà ragioni di una certa gravità:
    per quel giorno, dovrò cercare asilo
    dentro la coscienza dei miei soli meriti,
    e alzerò davanti a me questa mia mano
    per parare quanto addurrai a tua ragione.
    Per lasciar me miserabile tu hai la forza delle leggi
    mentre io d'esser amato non posso vantar diritti.
    Vota la poesia: Commenta
      Scritta da: Silvana Stremiz

      Noi saremo

      Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
      che certo guarderanno male la nostra gioia,

      talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
      Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

      che la speranza addita, senza badare affatto
      che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

      Nell'amore isolati come in un bosco nero,
      i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

      saranno due usignoli che cantan nella sera.
      Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

      non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
      accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

      Uniti dal più forte, dal più caro legame,
      e inoltre ricoperti di una dura corazza,
      sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

      Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
      per noi ha stabilito, cammineremo insieme
      la mano nella mano, con l'anima infantile
      di quelli che si amano in modo puro, vero?
      Vota la poesia: Commenta
        Scritta da: Silvana Stremiz

        Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

        Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
        Silenziosa luna?
        Sorgi la sera, e vai,
        Contemplando i deserti; indi ti posi.
        Ancor non sei tu paga
        Di riandare i sempiterni calli?
        Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
        Di mirar queste valli?
        Somiglia alla tua vita
        La vita del pastore.
        Sorge in sul primo albore;
        Move la greggia oltre pel campo, e vede
        Greggi, fontane ed erbe;
        Poi stanco si riposa in su la sera:
        Altro mai non ispera.
        Dimmi, o luna: a che vale
        Al pastor la sua vita,
        La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
        Questo vagar mio breve,
        Il tuo corso immortale?
        Vecchierel bianco, infermo,
        Mezzo vestito e scalzo,
        Con gravissimo fascio in su le spalle,
        Per montagna e per valle,
        Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
        Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
        L'ora, e quando poi gela,
        Corre via, corre, anela,
        Varca torrenti e stagni,
        Cade, risorge, e più e più s'affretta,
        Senza posa o ristoro,
        Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
        Colà dove la via
        E dove il tanto affaticar fu volto:
        Abisso orrido, immenso,
        Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
        Vergine luna, tale
        È la vita mortale.
        Nasce l'uomo a fatica,
        Ed è rischio di morte il nascimento.
        Prova pena e tormento
        Per prima cosa; e in sul principio stesso
        La madre e il genitore
        Il prende a consolar dell'esser nato.
        Poi che crescendo viene,
        L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
        Con atti e con parole
        Studiasi fargli core,
        E consolarlo dell'umano stato:
        Altro ufficio più grato
        Non si fa da parenti alla lor prole.
        Ma perché dare al sole,
        Perché reggere in vita
        Chi poi di quella consolar convenga?
        Se la vita è sventura
        Perché da noi si dura?
        Intatta luna, tale
        È lo stato mortale.
        Ma tu mortal non sei,
        E forse del mio dir poco ti cale.
        Pur tu, solinga, eterna peregrina,
        Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
        Questo viver terreno,
        Il patir nostro, il sospirar, che sia;
        Che sia questo morir, questo supremo
        Scolorar del sembiante,
        E perir dalla terra, e venir meno
        Ad ogni usata, amante compagnia.
        E tu certo comprendi
        Il perché delle cose, e vedi il frutto
        Del mattin, della sera,
        Del tacito, infinito andar del tempo.
        Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
        Rida la primavera,
        A chi giovi l'ardore, e che procacci
        Il verno cò suoi ghiacci.
        Mille cose sai tu, mille discopri,
        Che son celate al semplice pastore.
        Spesso quand'io ti miro
        Star così muta in sul deserto piano,
        Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
        Ovver con la mia greggia
        Seguirmi viaggiando a mano a mano;
        E quando miro in cielo arder le stelle;
        Dico fra me pensando:
        A che tante facelle?
        Che fa l'aria infinita, e quel profondo
        Infinito seren? Che vuol dir questa
        Solitudine immensa? Ed io che sono?
        Così meco ragiono: e della stanza
        Smisurata e superba,
        E dell'innumerabile famiglia;
        Poi di tanto adoprar, di tanti moti
        D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
        Girando senza posa,
        Per tornar sempre là donde son mosse;
        Uso alcuno, alcun frutto
        Indovinar non so. Ma tu per certo,
        Giovinetta immortal, conosci il tutto.
        Questo io conosco e sento,
        Che degli eterni giri,
        Che dell'esser mio frale,
        Qualche bene o contento
        Avrà fors'altri; a me la vita è male.
        O greggia mia che posi, oh te beata,
        Che la miseria tua, credo, non sai!
        Quanta invidia ti porto!
        Non sol perché d'affanno
        Quasi libera vai;
        Ch'ogni stento, ogni danno,
        Ogni estremo timor subito scordi;
        Ma più perché giammai tedio non provi.
        Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
        Tu sè queta e contenta;
        E gran parte dell'anno
        Senza noia consumi in quello stato.
        Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
        E un fastidio m'ingombra
        La mente, ed uno spron quasi mi punge
        Sì che, sedendo, più che mai son lunge
        Da trovar pace o loco.
        E pur nulla non bramo,
        E non ho fino a qui cagion di pianto.
        Quel che tu goda o quanto,
        Non so già dir; ma fortunata sei.
        Ed io godo ancor poco,
        O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
        Se tu parlar sapessi, io chiederei:
        Dimmi: perché giacendo
        A bell'agio, ozioso,
        S'appaga ogni animale;
        Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
        Forse s'avess'io l'ale
        Da volar su le nubi,
        E noverar le stelle ad una ad una,
        O come il tuono errar di giogo in giogo,
        Più felice sarei, dolce mia greggia,
        Più felice sarei, candida luna.
        O forse erra dal vero,
        Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
        Forse in qual forma, in quale
        Stato che sia, dentro covile o cuna,
        È funesto a chi nasce il dì natale.
        Vota la poesia: Commenta
          Scritta da: Silvana Stremiz

          Dove la luce

          Come allodola ondosa
          Nel vento lieto sui giovani prati,
          Le braccia ti sanno leggera, vieni.
          Ci scorderemo di quaggiù,
          E del mare e del cielo,
          E del mio sangue rapido alla guerra,
          Di passi d'ombre memori
          Entro rossori di mattine nuove.
          Dove non muove foglia più la luce,
          Sogni e crucci passati ad altre rive,
          Dov'è posata sera,
          Vieni ti porterò
          Alle colline d'oro.
          L'ora costante, liberi d'età,
          Nel suo perduto nimbo
          Sarà nostro lenzuolo.
          Vota la poesia: Commenta
            Scritta da: Silvana Stremiz

            La notte

            Una cotonata a quadretti blu copre il tavolo
            e sopra, senza menzogne, sorridenti, arditi
            stanno i nostri libri.
            Sono un prigioniero, madre mia,
            che ritorna al paese
            da una fortezza nemica.
            È l'una di notte
            la lampada è ancora accesa.
            Al mio fianco è coricata mia moglie
            mia moglie
            incinta di cinque mesi.
            Quando la mia carne tocca la sua
            quando le poso la mano sul ventre
            il bimbo si muove un poco.
            Sul ramo la foglia
            nell'acqua il pesce
            nella matrice il piccolo dell'uomo. Mio piccolo.
            La camiciola di lana rosa
            per il mio bambino
            l'ha sferruzata sua madre
            è grande come la mia mano
            con le maniche appena così.
            Mio piccolo.
            Se sarà femmina
            voglio che sia sua madre dalla testa ai piedi,
            s'è maschio, che sia della mia statura.
            S'è femmina, che abbia gli occhi verde dorato
            s'è maschio, azzurri.
            Mio piccolo.
            Non voglio che a vent'anni t'ammazzino
            se sei maschio, al fronte
            se sei femmina, dentro qualche rifugio, di notte.
            Mio piccolo.
            Femmina o maschio
            a qualsiasi età
            non voglio che tu conosca il carcere
            per essere stato dalla parte del giusto
            del bello, della pace.
            Ma so bene
            figlia mia
            o figlio mio
            che se il sole tarderà molto a sorgere
            dalle acque
            dovrai combattere e anche...
            Insomma oggi, da noi, è un ben duro mestiere
            essere padre.

            È l'una di notte.
            La lampada non l'abbiamo ancora spenta.
            Tra mezz'ora forse, forse verso il mattino
            la mia casa conoscerà
            ancora un'altra irruzione della polizia
            e mi porteranno via, prenderò con me qualche libro.
            I questurini della politica
            mi prenderanno in mezzo
            e io mi volterò indietro a guardare:
            mia moglie sarà sulla soglia
            davanti alla porta
            il vento del mattino
            gonfierà la sua gonna
            e nel suo ventre pesante
            il bambino si muoverà un poco.
            Vota la poesia: Commenta
              Scritta da: Silvana Stremiz

              Miei occhi e il cuore son venuti a patti (Sonetto 47)

              I miei occhi e il cuore son venuti a patti
              ed or ciascuno all'altro il suo ben riversa:
              se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
              o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
              gli occhi allor festeggian l'effigie del mio amore
              e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
              un'altra volta gli occhi son ospiti del cuore
              che a lor partecipa il suo pensier d'amore.
              Così, per la tua immagine o per il mio amore,
              anche se lontano sei sempre in me presente;
              perché non puoi andare oltre i miei pensieri
              e sempre io son con loro ed essi son con te;
              o se essi dormono, in me la tua visione
              desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.
              Vota la poesia: Commenta
                Scritta da: Silvana Stremiz

                Frammento: Anime gemelle

                Sono come uno spirito
                che nell'intimo del suo cuore ha dimorato,
                e le sue sensazioni ha percepito, e i suoi pensieri
                ha avuto, e conosciuto il più profondo impulso
                del suo animo: quel flusso silenzioso che al sangue solo
                è noto, quando tutte le emozioni
                in moltitudine descrivono la quiete di mari estivi.
                Io ho liberato le melodie preziose
                del suo profondo cuore: i battenti
                ho spalancato, e in esse mi sono rimescolato.
                Proprio come un'aquila nella pioggia del tuono,
                quando veste di lampi le ali.
                Vota la poesia: Commenta
                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Le ricordanze

                  Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
                  Tornare ancor per uso a contemplarvi
                  Sul paterno giardino scintillanti,
                  E ragionar con voi dalle finestre
                  Di questo albergo ove abitai fanciullo,
                  E delle gioie mie vidi la fine.
                  Quante immagini un tempo, e quante fole
                  Creommi nel pensier l'aspetto vostro
                  E delle luci a voi compagne! Allora
                  Che, tacito, seduto in verde zolla,
                  Delle sere io solea passar gran parte
                  Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
                  Della rana rimota alla campagna!
                  E la lucciola errava appo le siepi
                  E in su l'aiuole, susurrando al vento
                  I viali odorati, ed i cipressi
                  Là nella selva; e sotto al patrio tetto
                  Sonavan voci alterne, e le tranquille
                  Opre dè servi. E che pensieri immensi,
                  Che dolci sogni mi spirò la vista
                  Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
                  Che di qua scopro, e che varcare un giorno
                  Io mi pensava, arcani mondi, arcana
                  Felicità fingendo al viver mio!
                  Ignaro del mio fato, e quante volte
                  Questa mia vita dolorosa e nuda
                  Volentier con la morte avrei cangiato.
                  Né mi diceva il cor che l'età verde
                  Sarei dannato a consumare in questo
                  Natio borgo selvaggio, intra una gente
                  Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
                  Argomento di riso e di trastullo,
                  Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
                  Per invidia non già, che non mi tiene
                  Maggior di sé, ma perché tale estima
                  Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
                  A persona giammai non ne fo segno.
                  Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
                  Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
                  Tra lo stuol dè malevoli divengo:
                  Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
                  E sprezzator degli uomini mi rendo,
                  Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
                  Il caro tempo giovanil; più caro
                  Che la fama e l'allor, più che la pura
                  Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
                  Senza un diletto, inutilmente, in questo
                  Soggiorno disumano, intra gli affanni,
                  O dell'arida vita unico fiore.
                  Viene il vento recando il suon dell'ora
                  Dalla torre del borgo. Era conforto
                  Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
                  Quando fanciullo, nella buia stanza,
                  Per assidui terrori io vigilava,
                  Sospirando il mattin. Qui non è cosa
                  Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
                  Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
                  Dolce per sé; ma con dolor sottentra
                  Il pensier del presente, un van desio
                  Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
                  Quella loggia colà, volta agli estremi
                  Raggi del dì; queste dipinte mura,
                  Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
                  Su romita campagna, agli ozi miei
                  Porser mille diletti allor che al fianco
                  M'era, parlando, il mio possente errore
                  Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
                  Al chiaror delle nevi, intorno a queste
                  Ampie finestre sibilando il vento,
                  Rimbombaro i sollazzi e le festose
                  Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
                  Mistero delle cose a noi si mostra
                  Pien di dolcezza; indelibata, intera
                  Il garzoncel, come inesperto amante,
                  La sua vita ingannevole vagheggia,
                  E celeste beltà fingendo ammira.
                  O speranze, speranze; ameni inganni
                  Della mia prima età! Sempre, parlando,
                  Ritorno a voi; che per andar di tempo,
                  Per variar d'affetti e di pensieri,
                  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
                  Son la gloria e l'onor; diletti e beni
                  Mero desio; non ha la vita un frutto,
                  Inutile miseria. E sebben vòti
                  Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
                  Il mio stato mortal, poco mi toglie
                  La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
                  A voi ripenso, o mie speranze antiche,
                  Ed a quel caro immaginar mio primo;
                  Indi riguardo il viver mio sì vile
                  E sì dolente, e che la morte è quello
                  Che di cotanta speme oggi m'avanza;
                  Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
                  Consolarmi non so del mio destino.
                  E quando pur questa invocata morte
                  Sarammi allato, e sarà giunto il fine
                  Della sventura mia; quando la terra
                  Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
                  Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
                  Risovverrammi; e quell'imago ancora
                  Sospirar mi farà, farammi acerbo
                  L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
                  Del dì fatal tempererà d'affanno.
                  E già nel primo giovanil tumulto
                  Di contenti, d'angosce e di desio,
                  Morte chiamai più volte, e lungamente
                  Mi sedetti colà su la fontana
                  Pensoso di cessar dentro quell'acque
                  La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
                  Malor, condotto della vita in forse,
                  Piansi la bella giovanezza, e il fiore
                  Dè miei poveri dì, che sì per tempo
                  Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
                  Sul conscio letto, dolorosamente
                  Alla fioca lucerna poetando,
                  Lamentai cò silenzi e con la notte
                  Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
                  In sul languir cantai funereo canto.
                  Chi rimembrar vi può senza sospiri,
                  O primo entrar di giovinezza, o giorni
                  Vezzosi, inenarrabili, allor quando
                  Al rapito mortal primieramente
                  Sorridon le donzelle; a gara intorno
                  Ogni cosa sorride; invidia tace,
                  Non desta ancora ovver benigna; e quasi
                  (Inusitata maraviglia! ) il mondo
                  La destra soccorrevole gli porge,
                  Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
                  Suo venir nella vita, ed inchinando
                  Mostra che per signor l'accolga e chiami?
                  Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
                  Son dileguati. E qual mortale ignaro
                  Di sventura esser può, se a lui già scorsa
                  Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
                  Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
                  O Nerina! E di te forse non odo
                  Questi luoghi parlar? Caduta forse
                  Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
                  Che qui sola di te la ricordanza
                  Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
                  Questa Terra natal: quella finestra,
                  Ond'eri usata favellarmi, ed onde
                  Mesto riluce delle stelle il raggio,
                  È deserta. Ove sei, che più non odo
                  La tua voce sonar, siccome un giorno,
                  Quando soleva ogni lontano accento
                  Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
                  Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
                  Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
                  Il passar per la terra oggi è sortito,
                  E l'abitar questi odorati colli.
                  Ma rapida passasti; e come un sogno
                  Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
                  La gioia ti splendea, splendea negli occhi
                  Quel confidente immaginar, quel lume
                  Di gioventù, quando spegneali il fato,
                  E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
                  L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
                  Se a radunanze io movo, infra me stesso
                  Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
                  Tu non ti acconci più, tu più non movi.
                  Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
                  Van gli amanti recando alle fanciulle,
                  Dico: Nerina mia, per te non torna
                  Primavera giammai, non torna amore.
                  Ogni giorno sereno, ogni fiorita
                  Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
                  Dico: Nerina or più non gode; i campi,
                  L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
                  Sospiro mio: passasti: e fia compagna
                  D'ogni mio vago immaginar, di tutti
                  I miei teneri sensi, i tristi e cari
                  Moti del cor, la rimembranza acerba.
                  Vota la poesia: Commenta