Lui ha messo Il caffè nella tazza Lui ha messo Il latte nel caffè Lui ha messo Lo zucchero nel caffellatte Ha girato Il cucchiaino Ha bevuto il caffellatte Ha posato la tazza Senza parlarmi S'è acceso Una sigaretta Ha fatto Dei cerchi di fumo Ha messo la cenere Nel portacenere Senza parlarmi Senza guardarmi S'è alzato S'è messo Sulla testa il cappello S'è messo L'impermeabile Perché pioveva E se n'è andato Sotto la pioggia Senza parlare Senza guardarmi, E io mi son presa La testa fra le mani E ho pianto.
Le sedie dormono in piedi anche il tavolo il tappeto sdraiato sul dorso ha chiuso gli arabeschi lo specchio dorme gli occhi delle finestre sono chiusi il balcone dorme con le gambe penzolanti nel vuoto i camini sul tetto dirimpetto dormono sui marciapiedi dormono le acacie la nuvola dorme stringendosi al petto una stella in casa fuori di casa dorme la luce
ma tu ti sei svegliata mia rosa le sedie si sono svegliate si precipitano da un angolo all'altro anche il tavolo il tappeto si è messo a sedere gli arabeschi hanno aperto i petali lo specchio si è risvegliato come un lago all'aurora le finestre hanno spalancato immensi occhi azzurri il balcone si è risvegliato ha tirato su dal vuoto le gambe i camini dirimpetto si son messi a fumare le acacie han cominciato a chiacchierare sui marciapiedi la nuvola si è svegliata ha lanciato la sua stella nella nostra stanza in casa fuori di casa la luce si è risvegliata si è versata sui tuoi capelli è colata tra le tue palme ha cinto la tua vita nuda i tuoi piedi bianchi.
O vecchio bosco pieno d'albatrelli, che sai di funghi e spiri la malìa, cui tutto io già scampanellare udìa di cicale invisibili e d'uccelli: in te vivono i fauni ridarelli ch'hanno le sussurranti aure in balìa; vive la ninfa, e i passi lenti spia, bionda tra le interrotte ombre i capelli. Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia or sì or no, che se il desìo le vinca, l'occhio alcuna ne attinge, e il sol le bacia. Dileguano; e pur viva è la boscaglia, viva sempre nè fior della pervinca e nelle grandi ciocche dell'acacia.
Godi se il vento ch'entra nel pomario vi rimena l'ondata della vita: qui dove affonda un morto viluppo di memorie, orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo, ma il commuoversi dell'eterno grembo; vedi che si trasforma questo lembo di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall'erto muro. Se procedi t'imbatti tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va, per te l'ho pregato, - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
Alla fine il segreto viene fuori, come deve succedere ogni volta, è matura la deliziosa storia da raccontare all'amico del cuore; davanti al tè fumante e nella piazza la lingua ottiene quello che voleva; le acque chete corrono profonde mio caro, non c'è fumo senza fuoco.
Dietro il morto in fondo al serbatoio, dietro il fantasma sul prato da golf, dietro la dama che ama il ballo e dietro il signore che beve come un matto, sotto l'aspetto affaticato, l'attacco di emicrania e il sospiro c'è sempre un'altra storia, c'è più di quello che si mostra all'occhio.
Per la voce argentina che d'un tratto canta lassù dal muro del convento, per l'odore che viene dai sanbuchi, per le stampe di caccia nell'ingresso, per le gare di croquet in estate, la tosse, il bacio, la stretta di mano, c'è sempre un segreto malizioso, un motivo privato in tutto questo.
È l'alba. S'illumina il mondo come l'acqua che lascia cadere sul fondo le sue impurità. E sei tu, all'improvviso tu, mio amore, nel chiarore infinito di fronte a me.
Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente come vetro. Addentare la polpa candida e sana d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia all'aspirare l'aria in un bosco di pini.
Chi sa, forse non ci ameremmo tanto se le nostre anime non si vedessero da lontano non saremmo così vicini, chi sa, se la sorte non ci avesse divisi.
È così, mio usignolo, tra te e me c'è solo una differenza di grado: tu hai le ali e non puoi volare io ho le mani e non posso pensare.
Finito, dirà un giorno madre Natura finito di ridere e di piangere e sarà ancora la vita immensa che non vede non parla non pensa.
Romanza, che ami annuire e cantare col capo assonnato e le ali ripiegate, tra verdi fronde, quali agita nel suo fondo un ombroso lago, fu per me un variopinto pappagallo - oh, a me familiare uccello - che m'apprese a dir l'alfabeto e a balbettare le prime parole, quando nel bosco selvaggio io giacevo, fanciullo - dall'occhio sagace.
Ma da un pezzo, del Condor gli eterni anni così scuotono il cielo stesso là in alto, con tumulto di tuoni mentre passano, che non ho io più tempo per oziose cure, mentre spio l'inquieto cielo. E quando un'ora con più lievi ali getta su di me le sue morbide piume, dissipar quel breve tempo con lira e rime (vietate cose! ) - delittuoso parrebbe al mio cuore: a meno che con le corde non vibri anch'esso.
Sto in ascolto come al suono di voci lontane ma non c'è d'intorno nulla, nessuno e voi deponete il suo corpo in questa nera, buona terra né granito, né salici faranno ombra alle sue ceneri lievi soltanto i venti marini del golfo giungeranno volando.
Qual masso che dal vertice Di lunga erta montana, Abbandonato all'impeto Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle Precipitando a valle, Batte sul fondo e sta; Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole; Né, per mutar di secoli, Fia che riveda il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica In alto nol trarrà: Tal si giaceva il misero Figliol del fallo primo, Dal dì che un'ineffabile Ira promessa all'imo D'ogni malor gravollo, Donde il superbo collo Più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio Quale era mai persona Che al Santo inaccessibile Potesse dir: perdona? Far novo patto eterno? Al vincitore inferno La preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio: Le avverse forze tremano Al mover del suo ciglio: All'uom la mano Ei porge, Che si ravviva, e sorge Oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree Sgorga una fonte, e scende E nel borron dè triboli Vivida si distende: Stillano mele i tronchi; Dove copriano i bronchi, Ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera L'Eterno, eterno seco; Qual ti può dir dè secoli: Tu cominciasti meco? Tu sei: del vasto empiro Non ti comprende il giro: La tua parola il fè. E Tu degnasti assumere Questa creata argilla? Qual merto suo, qual grazia A tanto onor sortilla? Se in suo consiglio ascoso Vince il perdon, pietoso Immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un'alma Vergine, La gloria d'Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri. Panni il Figliol compose, E nell'umil presepio Soavemente il pose; E l'adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata Che il puro sen le aprì. L'Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte, Non dè potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti, Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo, Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. L'allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L'albergo poveretto Què fortunati, e videro, Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto, Vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste, Use sull'empia terra, Come cavalli in guerra, Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell'umil riposo, Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re.