Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

La Speranza

O abbiamo la speranza in noi, o non l'abbiamo;
è una dimensione dell'anima,
e non dipende da una particolare osservazione del mondo
o da una stima della situazione.
La speranza non è una predizione,
ma un orientamento dello spirito e del cuore;
trascende il mondo che viene immediatamente sperimentato,
ed è ancorata da qualche parte al di là dei suoi orizzonti.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Arrivederci fratello mare

    Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
    arrivederci fratello mare
    mi porto un po' della tua ghiaia
    un po' del tuo sale azzurro
    un po' della tua infinità
    e un pochino della tua luce
    e della tua infelicità.
    Ci hai saputo dir molte cose
    sul tuo destino di mare
    eccoci con un po' più di speranza
    eccoci con un po' più di saggezza
    e ce ne andiamo come siamo venuti
    arrivederci fratello mare.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Guardo in ginocchio la terra

      Guardo in ginocchio la terra
      guardo l'erba
      guardo l'insetto
      guardo l'istante fiorito e azzurro
      sei come la terra di primavera, amore,
      io ti guardo.

      Sdraiato sul dorso vedo il cielo
      vedo i rami degli alberi
      vedo le cicogne che volano
      sei come il cielo di primavera, amore,
      io ti vedo.

      Ho acceso un fuoco di notte in campagna
      tocco il fuoco
      tocco l'acqua
      tocco la stoffa e l'argento
      sei come un fuoco di bivacco all'addiaccio
      io ti tocco.

      Sono tra gli uomini amo gli uomini
      Amo l'azione
      Amo il pensiero
      Amo la mia lotta
      Sei un essere umano nella mia lotta
      Ti amo.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La belle dame sans merci

        Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano
        le briciole di pane che io gettavo
        sul tuo balcone perché tu sentissi
        anche chiusa nel sonno le loro strida.

        Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e due
        e il nostro breakfast gela fra cataste
        per me di libri inutili e per te di reliquie
        che non so: calendari, astucci, fiale e creme.

        Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora, stagliato
        sui fondali di calce del mattino;
        ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il suo fuoco
        soffocato è il bagliore dell'accendino.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Dono di versi

          Ti reco questo figlio d'una notte idumea!
          Nera, spiumata, pallido sangue all'ala febea,
          Pel vetro che d'aromi fiammeggianti si dora,
          Per le finestre, ahimé ghiacciate e fosche ancora,
          L'aurora si gettò sulla lampada angelica.
          Palme! E quando mostrò essa quella reliquia
          Al padre che nemico un sorriso tentò,
          L'azzurra solitudine inutile tremò.
          O tu che culli, con la bimba e l'innocenza
          Dei vostri piedi freddi, accogli quest'orrenda
          Nascita: ed evocando clavicembalo e viola,
          Premerai tu col vizzo dito il seno che cola
          La donna in sibillina bianchezza per la bocca
          Dall'azzurro affamata, dall'alta aria non tocca?
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            La Chimera

            Non so se tra rocce il tuo pallido
            viso m'apparve, o sorriso
            di lontananze ignote
            fosti, la china eburnea
            fronte fulgente o giovine
            suora de la Gioconda:
            o delle primavere
            spente, per i tuoi mitici pallori
            o Regina o Regina adolescente:
            ma per il tuo ignoto poema
            di voluttà e di dolore
            musica fanciulla esangue
            segnato di linea di sangue
            nel cerchio delle labbra sinuose,
            regina de la melodia:
            ma per il vergine capo
            reclino, io poeta notturno
            vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
            io per il tuo dolce mistero
            io per il tuo divenir taciturno.
            Non so se la fiamma pallida
            fu dei capelli il vivente
            segno del suo pallore,
            non so se fu un dolce vapore,
            dolce sul mio dolore,
            sorriso di un volto notturno:
            guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
            e l'immobilità dei firmamenti
            e i gonfii rivi che vanno piangenti
            e l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
            e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
            e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Come posso ritrovare la mia pace (Sonetto 28)

              Come posso ritrovare la mia pace
              se il ristoro del sonno mi è negato?
              Se l'affanno del giorno non riposa nella notte
              ma giorno da notte è oppresso e notte da giorno?
              Ed entrambi, anche se l'un l'altro ostili,
              d'accordo si dan mano solo per torturarmi
              l'uno con la fatica, l'altra con l'angoscia
              di esser da te lontano, sempre più lontano.
              Per cattivarmi il giorno gli dico che sei luce
              e lo abbellisci se nubi oscurano il suo cielo:
              così pur blandisco la cupa notte dicendo
              che tu inargenti la sera se non brillano stelle.
              Ma il giorno ogni giorno prolunga le mie pene
              e la notte ogni notte fa il mio dolor più greve.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Al sonno

                O soave che balsamo soffondi
                alla quieta mezzanotte, e serri
                con attente e benevole le dita
                gli occhi nostri del buio compiaciuti,
                protetti dalla luce, avvolti d'ombra
                nel ricovero di un divino oblio.
                O dolcissimo sonno! Se ti piace
                chiudi a metà di questo, che è tuo, inno
                i miei occhi in vedetta, o attendi l'Amen
                prima che il tuo papavero al mio letto
                largisca in carità il suo dondolio.
                Poi salvami, altrimenti il giorno andato
                lucido apparirà sul mio guanciale
                di nuovo, producendo molte pene,
                salvami dall'alerte coscienza
                che viepiù insignorisce il suo vigore
                causa l'oscurità, scavando come
                una talpa. Volgi abile la chiave
                nella toppa oliata e dà il sigillo
                allo scrigno, che tace, del mio cuore.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Canto primo

                  Quando l'Eterno passeggiò col guardo
                  Tutto il creato, diffondendo intorno
                  Riso di pace, e fiammeggiar si vide
                  Nè cieli il Sole, e rotear le stelle
                  Dietro la dolce-radïante Luna
                  Tra il fresco vel di solitaria notte,
                  E germogliò natura, e al grigio capo
                  Degli altissimi monti alberi eccelsi
                  Fèro corona, e orrisonando udissi
                  L'ampio padre Oceàn fremer da lungi;
                  Sin da quel giorno d'aquilon su i vanni
                  Scese Giustizia, e i fulmini guizzando
                  Al fianco le strideano, i dispersi
                  Crini eran cinti d'abbaglianti lampi.
                  In alto assisa vide ergersi il fumo
                  D'innocuo sangue, che fraterna mano
                  Invida sparse, e dagli vacui abissi
                  A tracannarlo, e tingersi le guance
                  Morte ansante lanciossi: immerse allora
                  La Dea nel sangue il brando, e a far vendetta
                  Piombò su l'orbe, che tacque e crollò.
                  Ma fra le colpe di natura infame
                  Brutta d'orrore la tremenda Dea
                  Si fè nel viso, e 'l lagrimato manto
                  E le aggruppate chiome ad ogni scossa
                  Grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi
                  S'udia l'inferno e la potenza eterna
                  Bestemmiando invocati. - A un tratto sparve
                  Contaminata la Giustizia fera,
                  E al sozzo pondo dell'umane colpe
                  Le suo immense bilance cigolaro;
                  Balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde
                  Inabissata nel tartareo centro.

                  L'Onnipossente dal più eccelso giro
                  Della sua gloria, d'onde tutto move,
                  Udì le strida del percosso mondo,
                  E al ciel lanciarsi la ministra eterna
                  Vide: accennò la fronte, e le soavi
                  Arpe angeliche tacquero; e la faccia
                  Prostraro i cherubini, e '1 firmamento
                  Squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno,
                  Verrà quel giorno, disse Dio, che all'aere
                  Ondeggeranno quasi lievi paglie
                  L'audaci moli; le turrite cime,
                  D'un astro allo strisciar, cenere e fumo
                  Saranno a un tratto; tentennar vedrassi
                  Orrisonante la sferrata terra,
                  Che stritolata piomberà nel lembo
                  D'antiqua notte, fra le cui tenèbre
                  E Luna e Sol staran confusi e muti;
                  Negro e sanguigno bollirà furente
                  Lo spumante Oceàn, rigurgitando
                  Dall'imo ventre polve e fracid'ossa,
                  Che al rintronar di rantolosa tuba
                  Rivestiran lor salma, e quai giganti
                  Vedransi passeggiar su le ruine
                  Dè globi inabissati! E morte e nulla
                  Tutto sarà: precederammi il foco,
                  Fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle,
                  Armate il braccio ed infiammato il volto,
                  Ira e Paura! Ma Pietà sul mondo
                  Scenda sino a quel giorno, e di tremenda
                  Giustizia fermi l'instancabil brando.
                  Disse; e Pietà, dei Serafin tra mille
                  Voci di gaudio, dell'Eterno al trono
                  Le ginocchia piegò; stese la palma
                  Il Re dei re su la chinata testa,
                  E l'unse del suo amor. Udissi allora
                  Spontaneamente volteggiar pè cieli
                  Inno sacro a Pietà: m'udite attenti
                  E terra e mar, e canterò; m'udite,
                  Chè questo è un inno che dal ciel discende.
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