Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Sera Festiva

O mamma, o mammina, hai stirato
la nuova camicia di lino?
Non c'era laggiù tra il bucato,
sul bossolo o sul biancospino.
Su gli occhi tu tieni le mani...
Perché? Non lo sai che domani...?
din don dan, din don dan.
Si parlano i bianchi villaggi
cantando in un lume di rosa:
dell'ombra dè monti selvaggi
si sente una romba festosa.
Tu tieni a gli orecchi le mani...
tu piangi; ed è festa domani...
din don dan, din don dan.
Tu pensi... Oh! Ricordo: la pieve...
quanti anni ora sono? Una sera...
il bimbo era freddo, di neve;
il bimbo era bianco, di cera:
allora sonò la campana
(perché non pareva lontana? )
din don dan, din don dan.
Sonavano a festa, come ora,
per l'angiolo; il nuovo angioletto
nel cielo volava a quell'ora;
ma tu lo volevi al tuo petto,
con noi, nella piccola zana:
gridavi; e lassù la campana...
din don dan, din don dan.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    La Credenza

    È un ampio armadio scolpito; l'antica scura
    quercia ha preso una buon'aria di vecchia gente;
    l'armadio è aperto, e scioglie dentro l'ombratura
    come onda di vin vecchio, un profumo attraente.

    È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato
    di panni odorosi e gialli, di straccetti
    di donne e fanciulli, di appassiti merletti,
    di scialli di nonna col grifo pitturato;

    - Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde,
    i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori
    secchi il cui profumo insieme si confonde.

    - Ne sai di storie, o mia credenza d'ore morte!
    Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori
    se lente s'aprono le grandi nere porte.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il sabato del villaggio

      La donzelletta vien dalla campagna,
      In sul calar del sole,
      Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
      Un mazzolin di rose e di viole,
      Onde, siccome suole,
      Ornare ella si appresta
      Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
      Siede con le vicine
      Su la scala a filar la vecchierella,
      Incontro là dove si perde il giorno;
      E novellando vien del suo buon tempo,
      Quando ai dì della festa ella si ornava,
      Ed ancor sana e snella
      Solea danzar la sera intra di quei
      Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
      Già tutta l'aria imbruna,
      Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
      Giù dà colli e dà tetti,
      Al biancheggiar della recente luna.
      Or la squilla dà segno
      Della festa che viene;
      Ed a quel suon diresti
      Che il cor si riconforta.
      I fanciulli gridando
      Su la piazzuola in frotta,
      E qua e là saltando,
      Fanno un lieto romore:
      E intanto riede alla sua parca mensa,
      Fischiando, il zappatore,
      E seco pensa al dì del suo riposo.
      Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
      E tutto l'altro tace,
      Odi il martel picchiare, odi la sega
      Del legnaiuol, che veglia
      Nella chiusa bottega alla lucerna,
      E s'affretta, e s'adopra
      Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
      Questo di sette è il più gradito giorno,
      Pien di speme e di gioia:
      Diman tristezza e noia
      Recheran l'ore, ed al travaglio usato
      Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
      Garzoncello scherzoso,
      Cotesta età fiorita
      È come un giorno d'allegrezza pieno,
      Giorno chiaro, sereno,
      Che precorre alla festa di tua vita.
      Godi, fanciullo mio; stato soave,
      Stagion lieta è cotesta.
      Altro dirti non vò; ma la tua festa
      Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Canto primo

        Quando l'Eterno passeggiò col guardo
        Tutto il creato, diffondendo intorno
        Riso di pace, e fiammeggiar si vide
        Nè cieli il Sole, e rotear le stelle
        Dietro la dolce-radïante Luna
        Tra il fresco vel di solitaria notte,
        E germogliò natura, e al grigio capo
        Degli altissimi monti alberi eccelsi
        Fèro corona, e orrisonando udissi
        L'ampio padre Oceàn fremer da lungi;
        Sin da quel giorno d'aquilon su i vanni
        Scese Giustizia, e i fulmini guizzando
        Al fianco le strideano, i dispersi
        Crini eran cinti d'abbaglianti lampi.
        In alto assisa vide ergersi il fumo
        D'innocuo sangue, che fraterna mano
        Invida sparse, e dagli vacui abissi
        A tracannarlo, e tingersi le guance
        Morte ansante lanciossi: immerse allora
        La Dea nel sangue il brando, e a far vendetta
        Piombò su l'orbe, che tacque e crollò.
        Ma fra le colpe di natura infame
        Brutta d'orrore la tremenda Dea
        Si fè nel viso, e 'l lagrimato manto
        E le aggruppate chiome ad ogni scossa
        Grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi
        S'udia l'inferno e la potenza eterna
        Bestemmiando invocati. - A un tratto sparve
        Contaminata la Giustizia fera,
        E al sozzo pondo dell'umane colpe
        Le suo immense bilance cigolaro;
        Balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde
        Inabissata nel tartareo centro.

        L'Onnipossente dal più eccelso giro
        Della sua gloria, d'onde tutto move,
        Udì le strida del percosso mondo,
        E al ciel lanciarsi la ministra eterna
        Vide: accennò la fronte, e le soavi
        Arpe angeliche tacquero; e la faccia
        Prostraro i cherubini, e '1 firmamento
        Squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno,
        Verrà quel giorno, disse Dio, che all'aere
        Ondeggeranno quasi lievi paglie
        L'audaci moli; le turrite cime,
        D'un astro allo strisciar, cenere e fumo
        Saranno a un tratto; tentennar vedrassi
        Orrisonante la sferrata terra,
        Che stritolata piomberà nel lembo
        D'antiqua notte, fra le cui tenèbre
        E Luna e Sol staran confusi e muti;
        Negro e sanguigno bollirà furente
        Lo spumante Oceàn, rigurgitando
        Dall'imo ventre polve e fracid'ossa,
        Che al rintronar di rantolosa tuba
        Rivestiran lor salma, e quai giganti
        Vedransi passeggiar su le ruine
        Dè globi inabissati! E morte e nulla
        Tutto sarà: precederammi il foco,
        Fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle,
        Armate il braccio ed infiammato il volto,
        Ira e Paura! Ma Pietà sul mondo
        Scenda sino a quel giorno, e di tremenda
        Giustizia fermi l'instancabil brando.
        Disse; e Pietà, dei Serafin tra mille
        Voci di gaudio, dell'Eterno al trono
        Le ginocchia piegò; stese la palma
        Il Re dei re su la chinata testa,
        E l'unse del suo amor. Udissi allora
        Spontaneamente volteggiar pè cieli
        Inno sacro a Pietà: m'udite attenti
        E terra e mar, e canterò; m'udite,
        Chè questo è un inno che dal ciel discende.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Ti guardo e il sole cresce

          Ti guardo e il sole cresce
          Presto ricoprirà la nostra giornata
          Svegliati cuore e colori in mente
          Per dissipare le pene della notte

          Ti guardo tutto è spoglio
          Fuori le barche hanno poca acqua
          Bisogna dire tutto con poche parole
          Il mare è freddo senza amore

          È l'inizio del mondo
          Le onde culleranno il cielo
          E tu vieni cullata dalle tue lenzuola
          Tiri il sonno verso di te
          Svegliati che io segua le tue tracce
          Ho un corpo per attenderti per seguirti
          Dalle porte dell'alba alle porte dell'ombra
          Un corpo per passare la mia vita ad amarti

          Un corpo per sognare al di fuori del tuo son.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            Nel cerchio di un pensiero
            a volte mi riposo sognando
            e lí sta il tuo peccato
            perché mi entri nel corpo
            e il corpo si appassiona
            gridando di un'estasi che non è sua
            altri giovani amanti diciamo
            che sono presenti
            nei tuoi baci nelle mie disattenzioni
            infatti su di me hanno camminato
            le ombre dei morti
            di coloro che sono inceneriti
            in un letto
            e non hanno mai avuto niente.
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