Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Gioventù vergine

Di quando in quando
Tutto m'ansima il corpo
E la vita mi appare negli occhi,
Tra essi vibrando e la bocca
Giù selvatica discende per le membra
Lasciando gli occhi miei svuotati tumultuanti
E il petto mio quieto colma d'un fremito e un calore;
E giù per le snelle ondulazioni sottostanti
Che onde diventan pesanti, di passione gonfie
E il ventre mio placido e sonnolento
All'istante ribelle si desta bramoso,
Eccitato sforzandosi e attento,
Mentre le tenere braccia abbandonate
Con forza selvaggia s'incrociano
A stringere - quel che non hanno stretto mai.
E tutto io vibro, tremo e ancora tremo
Finché la strana potenza che il corpo mi scuoteva
Non svanisce
E nobile non risorge l'ininterrotto fluire della vita
Nella durezza implacabile dei miei occhi,
Non risorge dalla bellezza solitaria del corpo mio
Esausto e insoddisfatto.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Spesso il male di vivere ho incontrato

    Spesso il male di vivere ho incontrato:
    era il rivo strozzato che gorgoglia,
    era l'incartocciarsi della foglia
    riarsa, era il cavallo stramazzato.
    Bene non seppi; fuori del prodigio
    che schiude la divina Indifferenza:
    era la statua nella sonnolenza
    del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il carnevale di Gerti

      Se la ruota si impiglia nel groviglio
      delle stesse filanti ed il cavallo
      s'impenna tra la calca, se ti nevica
      fra i capelli e le mani un lungo brivido
      d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
      le flebili ocarine che salutano
      il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
      giù dal ponte sul fiume
      se si sfolla la strada e ti conduce
      in un mondo soffiato entro una tremula
      bolla d'aria e di luce dove il sole
      saluta la tua grazia-hai ritrovato
      forse la strada che tentò un istante
      il piombo fuso a mezzanotte quando
      finì l'anno tranquillo senza spari.

      Ed ora vuoi sostare dove un filtro
      fa spogli i suoni
      e ne deriva i sorridenti ed acri
      fumi che ti compongono il domani;
      ora chiedi il paese dove gli onagri
      mordano quadri di zucchero dalle tue mani
      e i tozzi alberi spuntino germogli
      miracolosi al becco dei pavoni.

      (Oh, il tuo carnevale sarà più triste
      stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
      tu per gli assenti: carri dalle tinte
      di rosolio, fantocci ed archibugi,
      palle di gomma, arnesi da cucina
      lillipuziani: l'urna li segnava
      a ognuno dei lontani amici l'ora
      che il gennaio si schiuse e nel silenzio
      si compì il sortilegio. È carnevale
      o il dicembre s'indugia ancora? Penso
      che se muovi la lancetta al piccolo
      orologio che rechi al polso, tutto
      arretrerà dentro un disfatto prisma
      babelico di forme e di colori... )

      E il natale verrà e il giorno dell'anno
      che sfolla le caserme e ti riporta
      gli amici spersi e questo carnevale
      pur esso tornerà che ora ci sfugge
      tra i muri che si fendono già. Chiedi
      tu di fermare il tempo sul paese
      che attorno si dilata? Le grandi ali
      screziate ti sfiorano, le logge
      sospingono all'aperto esili bambole
      bionde, vive, le pale dei mulini
      rotano fisse sulle pozze garrule.
      Chiedi di trattenere le campane
      d'argento sopra il borgo e il suono rauco
      delle colombe? Chiedi tu i mattini
      trepidi delle tue prode lontane?

      Come tutto si fa strano e difficile
      come tutto è impossibile, tu dici.
      La tua vita è quaggiù dove rimbombano
      le ruote dei carriaggi senza posa
      e nulla torna se non forse
      in questi disguidi del possibile.
      Ritorna là fra i morti balocchi
      ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
      al polso e all'esistenza ti ridona,
      tra le mura pesanti che non s'aprono
      al gorgo degli umani affaticato,
      torna alla via dove con te intristisco
      quella che mi additò un piombo raggelato
      alle mie, alle tue sere:
      torna alle primavere che non fioriscono.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Canzone

        Pesci nei placidi laghi
        sfoggiano scie di colori,
        cigni nell'aria invernale
        hanno un candore perfetto
        e incede il grande leone
        per il suo bosco innocente;
        leone, pesci e cigno
        in scena e già sono andati
        sull'onda irruente del Tempo.

        Noi, finché i giorni d'ombra son maturi,
        noi dobbiamo piangere e cantare
        del dovere il sopruso consapevole,
        il Diavolo nell'orgoglio,
        la bontà portata attentamente
        per espiazione o per nostra fortuna;
        noi i nostri amori li dobbiamo perdere,
        volgendo uno sguardo invidioso
        a ogni animale e uccello che si muove.

        Sospiri per folliecompiute e dette
        attorcono i nostri angusti giorni,
        ma devo benedire e celebrare
        che tu, mio cigno, avendo
        tutti i doni che Natura
        impulsiva ha dato al cigno,
        la maestà e l'orgoglio,
        vi aggiungessi ieri notte
        il tuo amore volontario.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Passero solitario

          D'in su la vetta della torre antica,
          Passero solitario, alla campagna
          Cantando vai finché non more il giorno;
          Ed erra l'armonia per questa valle.
          Primavera dintorno
          Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
          Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
          Odi greggi belar, muggire armenti;
          Gli altri augelli contenti, a gara insieme
          Per lo libero ciel fan mille giri,
          Pur festeggiando il lor tempo migliore:
          Tu pensoso in disparte il tutto miri;
          Non compagni, non voli,
          Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
          Canti, e così trapassi
          Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
          Oimè, quanto somiglia
          Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
          Della novella età dolce famiglia,
          E te german di giovinezza, amore,
          Sospiro acerbo dè provetti giorni,
          Non curo, io non so come; anzi da loro
          Quasi fuggo lontano;
          Quasi romito, e strano
          Al mio loco natio,
          Passo del viver mio la primavera.
          Questo giorno ch'omai cede alla sera,
          Festeggiar si costuma al nostro borgo.
          Odi per lo sereno un suon di squilla,
          Odi spesso un tonar di ferree canne,
          Che rimbomba lontan di villa in villa.
          Tutta vestita a festa
          La gioventù del loco
          Lascia le case, e per le vie si spande;
          E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
          Io solitario in questa
          Rimota parte alla campagna uscendo,
          Ogni diletto e gioco
          Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
          Steso nell'aria aprica
          Mi fere il Sol che tra lontani monti,
          Dopo il giorno sereno,
          Cadendo si dilegua, e par che dica
          Che la beata gioventù vien meno.
          Tu, solingo augellin, venuto a sera
          Del viver che daranno a te le stelle,
          Certo del tuo costume
          Non ti dorrai; che di natura è frutto
          Ogni vostra vaghezza.
          A me, se di vecchiezza
          La detestata soglia
          Evitar non impetro,
          Quando muti questi occhi all'altrui core,
          E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
          Del dì presente più noioso e tetro,
          Che parrà di tal voglia?
          Che di quest'anni miei? Che di me stesso?
          Ahi pentirommi, e spesso,
          Ma sconsolato, volgerommi indietro.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            Démons et merveilles
            Vents et marées
            Au loin déjà la mer s'est retirée
            Et toi
            Comme une algue doucement caressée par le vent
            Dans les sables du lit tu remues en rêvant
            Démons et merveilles
            Vents et marées
            Au loin déjà la mer s'est retirée
            Mais dans tes yeux entr'ouverts
            Deux petites vagues sont restées
            Démons et merveilles
            Vents et marées
            Deux petites vagues pour me noyer.
            Demoni e meraviglie
            Venti e maree
            Lontano di gia' si e' ritirato il mare
            E tu
            Come alga dolcemente accarezzata dal vento
            Nella sabbia del tuo letto ti agiti sognando
            Demoni e meraviglie
            Venti e maree
            Lontano di gia' si e' ritirato il mare
            Ma nei tuoi occhi socchiusi
            Due piccole onde son rimaste
            Demoni e meraviglie
            Venti e maree
            Due piccole onde per annegarmi.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              La ginestra

              Qui su l'arida schiena
              Del formidabil monte
              Sterminator Vesevo,
              La qual null'altro allegra arbor né fiore,
              Tuoi cespi solitari intorno spargi,
              Odorata ginestra,
              Contenta dei deserti. Anco ti vidi
              Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
              Che cingon la cittade
              La qual fu donna dè mortali un tempo,
              E del perduto impero
              Par che col grave e taciturno aspetto
              Faccian fede e ricordo al passeggero.
              Or ti riveggo in questo suol, di tristi
              Lochi e dal mondo abbandonati amante,
              E d'afflitte fortune ognor compagna.
              Questi campi cosparsi
              Di ceneri infeconde, e ricoperti
              Dell'impietrata lava,
              Che sotto i passi al peregrin risona;
              Dove s'annida e si contorce al sole
              La serpe, e dove al noto
              Cavernoso covil torna il coniglio;
              Fur liete ville e colti,
              E biondeggiàr di spiche, e risonaro
              Di muggito d'armenti;
              Fur giardini e palagi,
              Agli ozi dè potenti
              Gradito ospizio; e fur città famose
              Che coi torrenti suoi l'altero monte
              Dall'ignea bocca fulminando oppresse
              Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
              Una ruina involve,
              Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
              I danni altrui commiserando, al cielo
              Di dolcissimo odor mandi un profumo,
              Che il deserto consola. A queste piagge
              Venga colui che d'esaltar con lode
              Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
              È il gener nostro in cura
              All'amante natura. E la possanza
              Qui con giusta misura
              Anco estimar potrà dell'uman seme,
              Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
              Con lieve moto in un momento annulla
              In parte, e può con moti
              Poco men lievi ancor subitamente
              Annichilare in tutto.
              Dipinte in queste rive
              Son dell'umana gente
              Le magnifiche sorti e progressive .
              Qui mira e qui ti specchia,
              Secol superbo e sciocco,
              Che il calle insino allora
              Dal risorto pensier segnato innanti
              Abbandonasti, e volti addietro i passi,
              Del ritornar ti vanti,
              E procedere il chiami.
              Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
              Di cui lor sorte rea padre ti fece,
              Vanno adulando, ancora
              Ch'a ludibrio talora
              T'abbian fra sé. Non io
              Con tal vergogna scenderò sotterra;
              Ma il disprezzo piuttosto che si serra
              Di te nel petto mio,
              Mostrato avrò quanto si possa aperto:
              Ben ch'io sappia che obblio
              Preme chi troppo all'età propria increbbe.
              Di questo mal, che teco
              Mi fia comune, assai finor mi rido.
              Libertà vai sognando, e servo a un tempo
              Vuoi di novo il pensiero,
              Sol per cui risorgemmo
              Della barbarie in parte, e per cui solo
              Si cresce in civiltà, che sola in meglio
              Guida i pubblici fati.
              Così ti spiacque il vero
              Dell'aspra sorte e del depresso loco
              Che natura ci diè. Per questo il tergo
              Vigliaccamente rivolgesti al lume
              Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
              Vil chi lui segue, e solo
              Magnanimo colui
              Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
              Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
              Uom di povero stato e membra inferme
              Che sia dell'alma generoso ed alto,
              Non chiama sé né stima
              Ricco d'or né gagliardo,
              E di splendida vita o di valente
              Persona infra la gente
              Non fa risibil mostra;
              Ma sé di forza e di tesor mendico
              Lascia parer senza vergogna, e noma
              Parlando, apertamente, e di sue cose
              Fa stima al vero uguale.
              Magnanimo animale
              Non credo io già, ma stolto,
              Quel che nato a perir, nutrito in pene,
              Dice, a goder son fatto,
              E di fetido orgoglio
              Empie le carte, eccelsi fati e nove
              Felicità, quali il ciel tutto ignora,
              Non pur quest'orbe, promettendo in terra
              A popoli che un'onda
              Di mar commosso, un fiato
              D'aura maligna, un sotterraneo crollo
              Distrugge sì, che avanza
              A gran pena di lor la rimembranza.
              Nobil natura è quella
              Che a sollevar s'ardisce
              Gli occhi mortali incontra
              Al comun fato, e che con franca lingua,
              Nulla al ver detraendo,
              Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
              E il basso stato e frale;
              Quella che grande e forte
              Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
              Fraterne, ancor più gravi
              D'ogni altro danno, accresce
              Alle miserie sue, l'uomo incolpando
              Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
              Che veramente è rea, che dè mortali
              Madre è di parto e di voler matrigna.
              Costei chiama inimica; e incontro a questa
              Congiunta esser pensando,
              Siccome è il vero, ed ordinata in pria
              L'umana compagnia,
              Tutti fra sé confederati estima
              Gli uomini, e tutti abbraccia
              Con vero amor, porgendo
              Valida e pronta ed aspettando aita
              Negli alterni perigli e nelle angosce
              Della guerra comune. Ed alle offese
              Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
              Al vicino ed inciampo,
              Stolto crede così qual fora in campo
              Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
              Incalzar degli assalti,
              Gl'inimici obbliando, acerbe gare
              Imprender con gli amici,
              E sparger fuga e fulminar col brando
              Infra i propri guerrieri.
              Così fatti pensieri
              Quando fien, come fur, palesi al volgo,
              E quell'orror che primo
              Contra l'empia natura
              Strinse i mortali in social catena,
              Fia ricondotto in parte
              Da verace saper, l'onesto e il retto
              Conversar cittadino,
              E giustizia e pietade, altra radice
              Avranno allor che non superbe fole,
              Ove fondata probità del volgo
              Così star suole in piede
              Quale star può quel ch'ha in error la sede.
              Sovente in queste rive,
              Che, desolate, a bruno
              Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
              Seggo la notte; e su la mesta landa
              In purissimo azzurro
              Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
              Cui di lontan fa specchio
              Il mare, e tutto di scintille in giro
              Per lo vòto seren brillare il mondo.
              E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
              Ch'a lor sembrano un punto,
              E sono immense, in guisa
              Che un punto a petto a lor son terra e mare
              Veracemente; a cui
              L'uomo non pur, ma questo
              Globo ove l'uomo è nulla,
              Sconosciuto è del tutto; e quando miro
              Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
              Nodi quasi di stelle,
              Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
              E non la terra sol, ma tutte in uno,
              Del numero infinite e della mole,
              Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
              O sono ignote, o così paion come
              Essi alla terra, un punto
              Di luce nebulosa; al pensier mio
              Che sembri allora, o prole
              Dell'uomo? E rimembrando
              Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
              Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
              Che te signora e fine
              Credi tu data al Tutto, e quante volte
              Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
              Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
              Per tua cagion, dell'universe cose
              Scender gli autori, e conversar sovente
              Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
              Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
              Fin la presente età, che in conoscenza
              Ed in civil costume
              Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
              Mortal prole infelice, o qual pensiero
              Verso te finalmente il cor m'assale?
              Non so se il riso o la pietà prevale.
              Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
              Cui là nel tardo autunno
              Maturità senz'altra forza atterra,
              D'un popol di formiche i dolci alberghi,
              Cavati in molle gleba
              Con gran lavoro, e l'opre
              E le ricchezze che adunate a prova
              Con lungo affaticar l'assidua gente
              Avea provvidamente al tempo estivo,
              Schiaccia, diserta e copre
              In un punto; così d'alto piombando,
              Dall'utero tonante
              Scagliata al ciel profondo,
              Di ceneri e di pomici e di sassi
              Notte e ruina, infusa
              Di bollenti ruscelli
              O pel montano fianco
              Furiosa tra l'erba
              Di liquefatti massi
              E di metalli e d'infocata arena
              Scendendo immensa piena,
              Le cittadi che il mar là su l'estremo
              Lido aspergea, confuse
              E infranse e ricoperse
              In pochi istanti: onde su quelle or pasce
              La capra, e città nove
              Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
              Son le sepolte, e le prostrate mura
              L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
              Non ha natura al seme
              Dell'uom più stima o cura
              Che alla formica: e se più rara in quello
              Che nell'altra è la strage,
              Non avvien ciò d'altronde
              Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
              Ben mille ed ottocento
              Anni varcàr poi che spariro, oppressi
              Dall'ignea forza, i popolati seggi,
              E il villanello intento
              Ai vigneti, che a stento in questi campi
              Nutre la morta zolla e incenerita,
              Ancor leva lo sguardo
              Sospettoso alla vetta
              Fatal, che nulla mai fatta più mite
              Ancor siede tremenda, ancor minaccia
              A lui strage ed ai figli ed agli averi
              Lor poverelli. E spesso
              Il meschino in sul tetto
              Dell'ostel villereccio, alla vagante
              Aura giacendo tutta notte insonne,
              E balzando più volte, esplora il corso
              Del temuto bollor, che si riversa
              Dall'inesausto grembo
              Su l'arenoso dorso, a cui riluce
              Di Capri la marina
              E di Napoli il porto e Mergellina.
              E se appressar lo vede, o se nel cupo
              Del domestico pozzo ode mai l'acqua
              Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
              Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
              Di lor cose rapir posson, fuggendo,
              Vede lontan l'usato
              Suo nido, e il picciol campo,
              Che gli fu dalla fame unico schermo,
              Preda al flutto rovente,
              Che crepitando giunge, e inesorato
              Durabilmente sovra quei si spiega.
              Torna al celeste raggio
              Dopo l'antica obblivion l'estinta
              Pompei, come sepolto
              Scheletro, cui di terra
              Avarizia o pietà rende all'aperto;
              E dal deserto foro
              Diritto infra le file
              Dei mozzi colonnati il peregrino
              Lunge contempla il bipartito giogo
              E la cresta fumante,
              Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
              E nell'orror della secreta notte
              Per li vacui teatri,
              Per li templi deformi e per le rotte
              Case, ove i parti il pipistrello asconde,
              Come sinistra face
              Che per vòti palagi atra s'aggiri,
              Corre il baglior della funerea lava,
              Che di lontan per l'ombre
              Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
              Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
              Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
              Dopo gli avi i nepoti,
              Sta natura ognor verde, anzi procede
              Per sì lungo cammino
              Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
              Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
              E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
              E tu, lenta ginestra,
              Che di selve odorate
              Queste campagne dispogliate adorni,
              Anche tu presto alla crudel possanza
              Soccomberai del sotterraneo foco,
              Che ritornando al loco
              Già noto, stenderà l'avaro lembo
              Su tue molli foreste. E piegherai
              Sotto il fascio mortal non renitente
              Il tuo capo innocente:
              Ma non piegato insino allora indarno
              Codardamente supplicando innanzi
              Al futuro oppressor; ma non eretto
              Con forsennato orgoglio inver le stelle,
              Né sul deserto, dove
              E la sede e i natali
              Non per voler ma per fortuna avesti;
              Ma più saggia, ma tanto
              Meno inferma dell'uom, quanto le frali
              Tue stirpi non credesti
              O dal fato o da te fatte immortali.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Cupido, loser, eigenwilliger Knabe!

                Cupido, loser, eigenwilliger Knabe!
                Du batst mich um Quartier auf einige Stunden.
                Wie viele Tag'und Nächte bist du geblieben!
                Und bist nun herrisch und Meister im Hause geworden!
                Von meinem breiten Lager bin ich vertrieben;
                Nun sitz ich an der Erde, Nächte gequälet;
                Dein Mutwill schüret Flamm auf Flamme des Herdes,
                Verbrennet den Vorrat des Winters
                und senget mich Armen.
                Du hast mir mein Geräte verstellt und verschoben;
                Ich such und bin wie blind und irre geworden.
                Du lärmst so ungeschickt; ich fürchte das Seelchen
                Entflieht, um dir zu entfliehn, und räumet die Hütte.
                Cupido, monello testardo!
                Cupido, monello testardo!
                M'hai chiesto un riparo per poche ore,
                e quanti giorni e notti sei rimasto!
                Adesso il padrone in casa mia sei tu!
                Sono scacciato dal mio ampio letto;
                sto per terra, e di notte mi tormento;
                il tuo capriccio attizza fiamma su fiamma nel fuoco,
                brucia le scorte d'inverno
                e arde me misero.
                Hai spostato e scompigliato gli oggetti miei,
                io cerco, e sono come cieco e smarrito.
                Strepiti senza ritegno, e io temo che l'animula
                fugga via per sfuggire te, e abbandoni questa capanna.
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