Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Dormi, Liù

Dorme la corriera
dorme la farfalla
dormono le mucche
nella stalla

il cane nel canile
il bimbo nel bimbile
il fuco nel fucile
e nella notte nera
dorme la pula
dentro la pantera

dormono i rappresentanti
nei motel dell'Esso
dormono negli Hilton
i cantanti di successo
dorme il barbone
dorme il vagone
dorme il contino
nel baldacchino
dorme a Betlemme
Gesù bambino
un po' di paglia
come cuscino
dorme Pilato
tutto agitato

dorme il bufalo
nella savana
e dorme il verme
nella banana
dorme il rondone
nel campanile
russa la seppia
sul'arenile
dorme il maiale
all'Hotel Nazionale
e sull'amaca
sta la lumaca
addormentata

dorme la mamma
dorme il figlio
dorme la lepre
dorme il coniglio
e sotto i camion
nelle autostazioni
dormono stretti
i copertoni

dormono i monti
dormono i mari
dorme quel porco
di Scandellari
che m'ha rubato
la mia Liù
per cui io solo
porcamadonna
non dormo più.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Bokassa Rap

    I giudici se vogliono giudicare bisogna che si facciano eleggere
    i giornalisti se vogliono scrivere non devono criticare
    i sindacalisti devono alzarsi in piedi quando mi vedono entrare
    l'opposizione non deve opporsi se no non vale
    e insomma una buona volta lasciatemi lavorare
    ho sei ville in Sardegna e le bollette da pagare
    e forse dovrei farmi ricoverare
    Mi consenta mi consenta senta
    c'è troppa anomalia in questa società violenta

    I giudici se vogliono restare non ci devono arrestare
    la stampa estera l'Italia non la deve riguardare
    e io a casa mia mangio con chi mi pare
    e insomma Bettino smettila di telefonare
    più di quello che ho fatto proprio non lo posso fare
    ho sei televisioni sulle spalle da mantenere
    e forse mi dovrei far ricoverare
    Mi consenta mi consenta senta
    c'è troppa finanza in questa società violenta

    E i tre saggi se sono saggi non si devono impicciare
    e la Rai deve essere complementare
    e perdio spiegatemi cosa vuol dire complementare
    e non dite che non so l'italiano che mi fate incazzare
    e i giudici i processi li devono stipulare
    e i giornalisti non devono esageracerbare
    e forse mi dovrei far ricoverare
    Mi consenta mi consenta senta
    c'è troppa poca Fininvest in questa società violenta

    E i giudici si alzino in piedi prima di giudicare
    e se la mafia mi vota cosa ci posso fare
    e il milione di posti l'avevo detto per scherzare
    e voglio tremila guardie del corpo che mi devono guardare
    e un ritratto di sei metri vestito da imperatore
    e che sono fascista non me lo dovete dire
    e i giornalisti prima di scrivere si facciano eleggere
    e i rigori contro il Milan non li dovete dare
    e gli agit-prop vadano in Russia ad agitproppare
    e non chiamatemi Bokassa o vi faccio fucilare
    e i giudici il paese non lo possono sventrare
    e a me gli avvisi di garanzia non li dovete mandare
    e forse mi dovrei un po' calmare
    ma se io sono Dio cosa ci posso fare
    Mi consenta mi consenta senta
    no c'è più religione in questa società violenta.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il poeta solitario

      O dolce usignolo che ascolto
      (non sai dove), in questa gran pace
      cantare cantare tra il folto,
      là, dei sanguini e delle acace;
      t'ho presa - perdona, usignolo -
      una dolce nota, sol una,
      ch'io canto tra me, solo solo,
      nella sera, al lume di luna.
      E pare una tremula bolla
      tra l'odore acuto del fieno,
      un molle gorgoglio di polla,
      un lontano fischio di treno...
      Chi passa, al morire del giorno,
      ch'ode un fischio lungo laggiù
      riprende nel cuore il ritorno
      verso quello che non è più.
      Si trova al nativo villaggio,
      vi ritrova quello che c'era:
      l'odore di mesi-di-maggio
      buon odor di rose e di cera.
      Ne ronzano le litanie,
      come l'api intorno una culla:
      ci sono due voci sì pie!
      Di sua madre e d'una fanciulla.
      Poi fatto silenzio, pian piano,
      nella nota mia, che t'ho presa,
      risente squillare il lontano
      campanello della sua chiesa.
      Riprende l'antica preghiera,
      ch'ora ora non ha perché;
      si trova con quello che c'era,
      ch'ora ora ora non c'è...
      Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
      ma di notte, perch'ho vergogna.
      O alato, io qui vivo nel fango.
      Sono un gramo rospo che sogna.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Calypso

        Più svelto, macchinista, e fammi in fretta
        la Springfield Line sotto il sole splendente.
        Via come un razzo, non fermarti mai
        finché non freni in Grand Central, New York.
        Perché ad aspettarmi c'è laggiù,
        in mezzo a quel salone, colui che fra tutti amo di più.
        Se non è lì quando arrivo in città
        starò sul marciapiede e piangerò.
        Perché è lui che voglio rimirare,
        l'acme di perfezione e di bontà.
        Se mi serra la mano e mi dice "ti amo",
        ed è per me un fenomeno sublime.
        I boschi sono tutti verdi e lustri ai lati del binario
        ; anche gli alberi hanno i loro amori, pur diversi dal mio.
        Ma il povero banchiere vecchio e obeso, in carrozza di lusso,
        non ha nessuno che lo ami eccetto il suo avana.
        Se fossi io il Capo dela Chiesa o dello Stato,
        m'inciprierei il naso e ordinerei a tutti di aspettare.
        Perché l'amore conta ed è potente
        ben più di un prete o di un politicante.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Al fiume

          Bel fiume! Nel tuo limpido flutto
          di lucido cristallo, acqua errabonda,
          tu sei emblema d'una fulgente
          beltà - cuore non disvelato -
          piacevole intrico dell'arte
          nella figlia del vecchio Alberto;

          ma quando la tua onda ella contempla -
          che scintilla allora e tremola,
          oh, allora il più leggiadro rivo
          si fa simile a colui che l'adora:
          ché nel cuore di lui, come nel tuo scorrere,
          l'immagine di colei è radicata:
          in quel cuore che tremola al raggio
          di occhi che cercano l'anima.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            L'amor mio è vestita di luce

            L'amor mio è vestita di luce
            In mezzo ai meli
            Dove i lieti venti più bramano
            Di correre insieme.

            Là dove i venti lieti restano un poco
            A corteggiare le giovani foglie,
            L'amor mio va lentamente, china
            Alla propria ombra sull'erba;

            Là, dove il cielo è una coppa azzurrina
            Rovescia sulla terra ridente,
            Va l'amor mio luminoso, sostenendo
            Con garbo la veste.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

              Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
              Silenziosa luna?
              Sorgi la sera, e vai,
              Contemplando i deserti; indi ti posi.
              Ancor non sei tu paga
              Di riandare i sempiterni calli?
              Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
              Di mirar queste valli?
              Somiglia alla tua vita
              La vita del pastore.
              Sorge in sul primo albore;
              Move la greggia oltre pel campo, e vede
              Greggi, fontane ed erbe;
              Poi stanco si riposa in su la sera:
              Altro mai non ispera.
              Dimmi, o luna: a che vale
              Al pastor la sua vita,
              La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
              Questo vagar mio breve,
              Il tuo corso immortale?
              Vecchierel bianco, infermo,
              Mezzo vestito e scalzo,
              Con gravissimo fascio in su le spalle,
              Per montagna e per valle,
              Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
              Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
              L'ora, e quando poi gela,
              Corre via, corre, anela,
              Varca torrenti e stagni,
              Cade, risorge, e più e più s'affretta,
              Senza posa o ristoro,
              Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
              Colà dove la via
              E dove il tanto affaticar fu volto:
              Abisso orrido, immenso,
              Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
              Vergine luna, tale
              È la vita mortale.
              Nasce l'uomo a fatica,
              Ed è rischio di morte il nascimento.
              Prova pena e tormento
              Per prima cosa; e in sul principio stesso
              La madre e il genitore
              Il prende a consolar dell'esser nato.
              Poi che crescendo viene,
              L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
              Con atti e con parole
              Studiasi fargli core,
              E consolarlo dell'umano stato:
              Altro ufficio più grato
              Non si fa da parenti alla lor prole.
              Ma perché dare al sole,
              Perché reggere in vita
              Chi poi di quella consolar convenga?
              Se la vita è sventura
              Perché da noi si dura?
              Intatta luna, tale
              È lo stato mortale.
              Ma tu mortal non sei,
              E forse del mio dir poco ti cale.
              Pur tu, solinga, eterna peregrina,
              Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
              Questo viver terreno,
              Il patir nostro, il sospirar, che sia;
              Che sia questo morir, questo supremo
              Scolorar del sembiante,
              E perir dalla terra, e venir meno
              Ad ogni usata, amante compagnia.
              E tu certo comprendi
              Il perché delle cose, e vedi il frutto
              Del mattin, della sera,
              Del tacito, infinito andar del tempo.
              Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
              Rida la primavera,
              A chi giovi l'ardore, e che procacci
              Il verno cò suoi ghiacci.
              Mille cose sai tu, mille discopri,
              Che son celate al semplice pastore.
              Spesso quand'io ti miro
              Star così muta in sul deserto piano,
              Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
              Ovver con la mia greggia
              Seguirmi viaggiando a mano a mano;
              E quando miro in cielo arder le stelle;
              Dico fra me pensando:
              A che tante facelle?
              Che fa l'aria infinita, e quel profondo
              Infinito seren? Che vuol dir questa
              Solitudine immensa? Ed io che sono?
              Così meco ragiono: e della stanza
              Smisurata e superba,
              E dell'innumerabile famiglia;
              Poi di tanto adoprar, di tanti moti
              D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
              Girando senza posa,
              Per tornar sempre là donde son mosse;
              Uso alcuno, alcun frutto
              Indovinar non so. Ma tu per certo,
              Giovinetta immortal, conosci il tutto.
              Questo io conosco e sento,
              Che degli eterni giri,
              Che dell'esser mio frale,
              Qualche bene o contento
              Avrà fors'altri; a me la vita è male.
              O greggia mia che posi, oh te beata,
              Che la miseria tua, credo, non sai!
              Quanta invidia ti porto!
              Non sol perché d'affanno
              Quasi libera vai;
              Ch'ogni stento, ogni danno,
              Ogni estremo timor subito scordi;
              Ma più perché giammai tedio non provi.
              Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
              Tu sè queta e contenta;
              E gran parte dell'anno
              Senza noia consumi in quello stato.
              Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
              E un fastidio m'ingombra
              La mente, ed uno spron quasi mi punge
              Sì che, sedendo, più che mai son lunge
              Da trovar pace o loco.
              E pur nulla non bramo,
              E non ho fino a qui cagion di pianto.
              Quel che tu goda o quanto,
              Non so già dir; ma fortunata sei.
              Ed io godo ancor poco,
              O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
              Se tu parlar sapessi, io chiederei:
              Dimmi: perché giacendo
              A bell'agio, ozioso,
              S'appaga ogni animale;
              Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
              Forse s'avess'io l'ale
              Da volar su le nubi,
              E noverar le stelle ad una ad una,
              O come il tuono errar di giogo in giogo,
              Più felice sarei, dolce mia greggia,
              Più felice sarei, candida luna.
              O forse erra dal vero,
              Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
              Forse in qual forma, in quale
              Stato che sia, dentro covile o cuna,
              È funesto a chi nasce il dì natale.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La morte di Tantalo

                Noi sedemmo sull'orlo
                della fontana nella vigna d'oro.
                Sedemmo lacrimosi in silenzio.
                Le palpebre della mia dolce amica
                si gonfiavano dietro le lagrime
                come due vele
                dietro una leggera brezza marina.
                Il nostro dolore non era dolore d'amore
                né dolore di nostalgia
                né dolore carnale.
                Noi morivamo tutti i giorni
                cercando una causa divina
                il mio dolce bene ed io.

                Ma quel giorno già vanía
                e la causa della nostra morte
                non era stata rivenuta.

                E calò la sera su la vigna d'oro
                e tanto essa era oscura
                che alle nostre anime apparve
                una nevicata di stelle.

                Assaporammo tutta la notte
                i meravigliosi grappoli.
                Bevemmo l'acqua d'oro,
                e l'alba ci trovò seduti
                sull'orlo della fontana
                nella vigna non piú d'oro.

                O dolce mio amore,
                confessa al viandante
                che non abbiamo saputo morire
                negandoci il frutto saporoso
                e l'acqua d'oro, come la luna.

                E aggiungi che non morremo piú
                e che andremo per la vita
                errando per sempre.
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