Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Nelle mie braccia tutta nuda

Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l'odore dei tuoi capelli
si riflettono sul mio viso.

Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell'ansito?
È tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte forte?

Dove finisce la notte
dove comincia la città?
Dove finisce la città dove cominci tu?
Dove comincio e finisco io stesso?
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il Cavallino

    O bel clivo fiorito Cavallino
    ch'io varcai cò leggiadri eguali a schiera
    al mio bel tempo; chi sa dir se l'era
    d'olmo la tua parlante ombra o di pino?
    Era busso ricciuto o biancospino,
    da cui dorata trasparia la sera?
    C'è un campanile tra una selva nera,
    che canta, bianco, l'inno mattutino?
    Non so: ché quando a te s'appressa il vano
    desìo, per entro il cielo fuggitivo
    te vedo incerta vision fluire.
    So ch'or sembri il paese allor lontano
    lontano, che dal tuo fiorito clivo
    io rimirai nel limpido avvenire.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Les enfants qui s'aiment s'embrassent debout
      Contre les portes de la nuit
      Et les passants qui passent les désignent du doigt
      Mais les enfants qui s'aiment
      Ne sont là pour personne
      Et c'est seulement leur ombre
      Qui tremble dans la nuit
      Excitant la rage des passants
      Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie
      Les enfants qui s'aiment ne sont là pour personne
      Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit
      Bien plus haut que le jour
      Dans l'éblouissante clarté de leur premier amour.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Il Risorgimento

        Credei ch'al tutto fossero
        In me, sul fior degli anni,
        Mancati i dolci affanni
        Della mia prima età:
        I dolci affanni, i teneri
        Moti del cor profondo,
        Qualunque cosa al mondo
        Grato il sentir ci fa.

        Quante querele e lacrime
        Sparsi nel novo stato,
        Quando al mio cor gelato
        Prima il dolor mancò!
        Mancàr gli usati palpiti,
        L'amor mi venne meno,
        E irrigidito il seno
        Di sospirar cessò!

        Piansi spogliata, esanime
        Fatta per me la vita
        La terra inaridita,
        Chiusa in eterno gel;
        Deserto il dì; la tacita
        Notte più sola e bruna;
        Spenta per me la luna,
        Spente le stelle in ciel.

        Pur di quel pianto origine
        Era l'antico affetto:
        Nell'intimo del petto
        Ancor viveva il cor.
        Chiedea l'usate immagini
        La stanca fantasia;
        E la tristezza mia
        Era dolore ancor.

        Fra poco in me quell'ultimo
        Dolore anco fu spento,
        E di più far lamento
        Valor non mi restò.
        Giacqui: insensato, attonito,
        Non dimandai conforto:
        Quasi perduto e morto,
        Il cor s'abbandonò.

        Qual fui! Quanto dissimile
        Da quel che tanto ardore,
        Che sì beato errore
        Nutrii nell'alma un dì!
        La rondinella vigile,
        Alle finestre intorno
        Cantando al novo giorno,
        Il cor non mi ferì:

        Non all'autunno pallido
        In solitaria villa,
        La vespertina squilla,
        Il fuggitivo Sol.
        Invan brillare il vespero
        Vidi per muto calle,
        Invan sonò la valle
        Del flebile usignol.

        E voi, pupille tenere,
        Sguardi furtivi, erranti,
        Voi dè gentili amanti
        Primo, immortale amor,
        Ed alla mano offertami
        Candida ignuda mano,
        Foste voi pure invano
        Al duro mio sopor.

        D'ogni dolcezza vedovo,
        Tristo; ma non turbato,
        Ma placido il mio stato,
        Il volto era seren.
        Desiderato il termine
        Avrei del viver mio;
        Ma spento era il desio
        Nello spossato sen.

        Qual dell'età decrepita
        L'avanzo ignudo e vile,
        Io conducea l'aprile
        Degli anni miei così:
        Così quegl'ineffabili
        Giorni, o mio cor, traevi,
        Che sì fugaci e brevi
        Il cielo a noi sortì.

        Chi dalla grave, immemore
        Quiete or mi ridesta?
        Che virtù nova è questa,
        Questa che sento in me?
        Moti soavi, immagini,
        Palpiti, error beato,
        Per sempre a voi negato
        Questo mio cor non è?

        Siete pur voi quell'unica
        Luce dè giorni miei?
        Gli affetti ch'io perdei
        Nella novella età?
        Se al ciel, s'ai verdi margini,
        Ovunque il guardo mira,
        Tutto un dolor mi spira,
        Tutto un piacer mi dà.

        Meco ritorna a vivere
        La piaggia, il bosco, il monte;
        Parla al mio core il fonte,
        Meco favella il mar.
        Chi mi ridona il piangere
        Dopo cotanto obblio?
        E come al guardo mio
        Cangiato il mondo appar?

        Forse la speme, o povero
        Mio cor, ti volse un riso?
        Ahi della speme il viso
        Io non vedrò mai più.
        Proprii mi diede i palpiti,
        Natura, e i dolci inganni.
        Sopiro in me gli affanni
        L'ingenita virtù;

        Non l'annullàr: non vinsela
        Il fato e la sventura;
        Non con la vista impura
        L'infausta verità.
        Dalle mie vaghe immagini
        So ben ch'ella discorda:
        So che natura è sorda,
        Che miserar non sa.

        Che non del ben sollecita
        Fu, ma dell'esser solo:
        Purché ci serbi al duolo,
        Or d'altro a lei non cal.
        So che pietà fra gli uomini
        Il misero non trova;
        Che lui, fuggendo, a prova
        Schernisce ogni mortal.

        Che ignora il tristo secolo
        Gl'ingegni e le virtudi;
        Che manca ai degni studi
        L'ignuda gloria ancor.
        E voi, pupille tremule,
        Voi, raggio sovrumano,
        So che splendete invano,
        Che in voi non brilla amor.

        Nessuno ignoto ed intimo
        Affetto in voi non brilla:
        Non chiude una favilla
        Quel bianco petto in sé.
        Anzi d'altrui le tenere
        Cure suol porre in gioco;
        E d'un celeste foco
        Disprezzo è la mercè.

        Pur sento in me rivivere
        Gl'inganni aperti e noti;
        E, dè suoi proprii moti
        Si maraviglia il sen.
        Da te, mio cor, quest'ultimo
        Spirto, e l'ardor natio,
        Ogni conforto mio
        Solo da te mi vien.

        Mancano, il sento, all'anima
        Alta, gentile e pura,
        La sorte, la natura,
        Il mondo e la beltà.
        Ma se tu vivi, o misero,
        Se non concedi al fato,
        Non chiamerò spietato
        Chi lo spirar mi dà.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Edge

          The woman is perfected.
          Her dead
          Body wears the smile of accomplishment,
          The illusion of a Greek necessity
          Flows in the scrolls of her toga,
          Her bare
          Feet seem to be saying:
          We have come so far, it is over.
          Each dead child coiled, a white serpent,
          One at each little
          Pitcher of milk, now empty.
          She has folded
          Them back into her body as petals
          Of a rose close when the garden
          Stiffens and odors bleed
          From the sweet, deep throats of the night flower.
          The moon has nothing to be sad about,
          Staring from her hood of bone.
          She is used to this sort of thing.
          Her blacks crackle and drag.
          Orlo
          -Sylvia Plath

          La donna è a perfezione.
          Il suo morto

          Corpo ha il sorriso del compimento,
          un'illusione di greca necessità

          scorre lungo i drappeggi della sua toga,
          i suoi nudi

          piedi sembran dire:
          abbiamo tanto camminato, è finita.

          Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
          come un bianco serpente a una delle due piccole

          tazze del latte, ora vuote.
          Lei li ha riavvolti

          Dentro il suo corpo come petali
          di una rosa richiusa quando il giardino

          s'intorpidisce e sanguinano odori
          dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

          Niente di cui rattristarsi ha la luna
          che guarda dal suo cappuccio d'osso.

          A certe cose è ormai abituata.
          Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            A N. V. N.

            C'è nel contatto umano un limite fatale,
            non lo varca né amore né passione,
            pur se in muto spavento si fondono le labbra
            e il cuore si dilacera d'amore.

            Perfino l'amicizia vi è impotente,
            e anni d'alta, fiammeggiante gioia,
            quando libera è l'anima ed estranea
            allo struggersi lento del piacere.

            Chi cerca di raggiungerlo è folle,
            se lo tocca soffre una sorda pena...
            ora hai compreso perché il mio cuore
            non batte sotto la tua mano.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Forse un mattino

              Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
              arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
              il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
              di me, con un terrore da ubriaco.

              Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
              alberi, case, colli per l'inganno consueto.
              Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
              tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La casa dei doganieri

                Tu non ricordi la casa dei doganieri
                sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
                desolata t'attende dalla sera
                in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
                e vi sostò irrequieto.

                Libeccio sferza da anni le vecchie mura
                e il suono del tuo riso non è più lieto:
                la bussola va impazzita all'avventura
                e il calcolo dei dadi più non torna.

                Tu non ricordi; altro tempo frastorna
                la tua memoria; un filo s'addipana.

                Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
                la casa e in cima al tetto la banderuola
                affumicata gira senza pietà.
                Ne tengo un capo; ma tu resti sola
                nè qui respiri nell'oscurità.

                Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
                rara la luce della petroliera!
                Il varco è qui? (ripullula il frangente
                ancora sulla balza che scoscende... ).
                Tu non ricordi la casa di questa
                mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
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