Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Le piccole cose

Le piccole cose
che amo di te
quel tuo sorriso
un po' lontano
il gesto lento della mano
con cui mi accarezzi i capelli
e dici: vorrei
averli anch'io così belli
e io dico: caro
sei un po' matto
e a letto svegliarsi
col tuo respiro vicino
e sul comodino
il giornale della sera
la tua caffettiera
che canta, in cucina
l'odore di pipa
che fumi la mattina
il tuo profumo
un po' balsé
il tuo buffo gilet
le piccole cose
che amo di te

Quel tuo sorriso
strano
il gesto continuo della mano
con cui mi tocchi i capelli
e ripeti: vorrei
averli anch'io così belli
e io dico: caro
me l'hai già detto
e a letto sveglia
sentendo il tuo respiro
un po' affannato
e sul comodino
il bicarbonato
la tua caffettiera
che sibila in cucina
l'odore di pipa
anche la mattina
il tuo profumo
un po' demodé
le piccole cose
che amo di te

Quel tuo sorriso beota
la mania idiota
di tirarmi i capelli
e dici: vorrei
averli anch'io così belli
e ti dico: cretino,
comprati un parrucchino!
E a letto stare sveglia
e sentirti russare
e sul comodino
un tuo calzino
e la tua caffettiera
che é esplosa
finalmente, in cucina!
La pipa che impesta
fin dalla mattina
il tuo profumo
di scimpanzé
quell'orrendo gilet
le piccole cose
che amo di te.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Le cose

    Le monete, il bastone, il portachiavi,
    la pronta serratura, i tardi appunti
    che non potranno leggere i miei scarsi
    giorni, le carte da giunco e gli scacchi,
    un libro e tra le pagine appassita
    la viola, monumento d'una sera
    di certo inobliabile e obliata,
    il rosso specchio a occidente in cui arde
    illusoria un'aurora. Quante cose,
    atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
    ci servono come taciti schiavi,
    senza sguardo, stranamente segrete!
    Dureranno piú in là del nostro oblio;
    non sapran mai che ce ne siamo andati.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Forse un mattino

      Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
      arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
      il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
      di me, con un terrore da ubriaco.

      Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
      alberi, case, colli per l'inganno consueto.
      Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
      tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Sonetto alla scienza

        Scienza, vera figlia ti mostri del Tempo annoso,
        tu che ogni cosa trasmuti col penetrante occhio!
        Ma dimmi, perché al poeta così dilani il cuore,
        avvoltoio dalle ali grevi e opache?
        Come potrebbe egli amarti? E giudicarti savia,
        se mai volesti che libero n'andasse errando
        a cercar tesori per i cieli gemmati?
        Pure, si librava con intrepide ali.
        Non hai tu sbalzato Diana dal suo carro?
        E scacciato l'Amadriade dal bosco,
        che in più felice stella trovò riparo?
        Non hai tu strappato la Naiade ai suoi flutti,
        l'Elfo ai verdi prati e me stesso infine
        al mio sogno estivo all'ombra del tamarindo?
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Al mare (o quasi)

          L'ultima cicala stride
          sulla scorza gialla dell'eucalipto
          i bambini raccolgono pinòli
          indispensabili per la galantina
          un cane alano urla dall'inferriata
          di una villa ormai disabitata
          le ville furono costruite dai padri
          ma i figli non le hanno volute
          ci sarebbe spazio per centomila terremotati
          di qui non si vede nemmeno la proda
          se può chiamarsi cosí quell'ottanta per cento
          ceduta in uso ai bagnini
          e sarebbe eccessivo pretendervi
          una pace alcionica
          il mare è d'altronde infestato
          mentre i rifiuti in totale
          formano ondulate collinette plastiche
          esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
          i deliziosi figli della ruggine
          gli scriccioli o reatini come spesso
          li citano i poeti. E c'è anche qualche boccio
          di magnolia l'etichetta di un pediatra
          ma qui i bambini volano in bicicletta
          e non hanno bisogno delle sue cure
          Chi vuole respirare a grandi zaffate
          la musa del nostro tempo la precarietà
          può passare di qui senza affrettarsi
          è il colpo secco quello che fa orrore
          non già l'evanescenza il dolce afflato del nulla
          Hic manebimus se vi piace non proprio
          ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
          alla morte ( e questa piace solo ai giovani)
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            Io sono innamorato di tutte le signore
            che mangiano le paste nelle confetterie.

            Signore e signorine -
            le dita senza guanto -
            scelgon la pasta. Quanto
            ritornano bambine!

            Perché nïun le veda,
            volgon le spalle, in fretta,
            sollevan la veletta,
            divorano la preda.

            C'è quella che s'informa
            pensosa della scelta;
            quella che toglie svelta,
            né cura tinta e forma.

            L'una, pur mentre inghiotte,
            già pensa al dopo, al poi;
            e domina i vassoi
            con le pupille ghiotte.

            Un'altra - il dolce crebbe -
            muove le disperate
            bianchissime al giulebbe
            dita confetturate!

            Un'altra, con bell'arte,
            sugge la punta estrema:
            invano! Ché la crema
            esce dall'altra parte!

            L'una, senz'abbadare
            a giovine che adocchi,
            divora in pace. Gli occhi
            altra solleva, e pare

            sugga, in supremo annunzio,
            non crema e cioccolatte,
            ma superliquefatte
            parole del D'Annunzio.

            Fra questi aromi acuti,
            strani, commisti troppo
            di cedro, di sciroppo,
            di creme, di velluti,

            di essenze parigine,
            di mammole, di chiome:
            oh! Le signore come
            ritornano bambine!

            Perché non m'è concesso -
            o legge inopportuna! -
            il farmivi da presso,
            baciarvi ad una ad una,

            o belle bocche intatte
            di giovani signore,
            baciarvi nel sapore
            di crema e cioccolatte?

            Io sono innamorato di tutte le signore
            che mangiano le paste nelle confetterie.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Desolazione del povero poeta sentimentale

              Perché tu mi dici: poeta?
              Io non sono un poeta.
              Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
              Vedi: non ha che le lagrime da offrire al Silenzio.
              Perché tu mi dici: poeta?
              Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
              Le mie gioie furono semplici,
              sempilci così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
              Oggi io penso a morire.
              Io voglio morire, solamente perché sono stanco;
              solamente perché i grandi angioli
              su le vetrate delle cattedrali
              mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
              solamente perché, io sono, oramai,
              rassegnato come uno specchio,
              come un povero specchio melanconico.
              Vedi che io non sono un poeta:
              sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
              Oh, non meravigliarti della mia tristezza!
              E non domandarmi;
              io non saprei dirti che parole così vane,
              Dio mio così vane,
              che mi verrebbe da piangere come se fossi per morire.
              Le mie lagrime avrebbero l'aria
              di sgranare un rosario di tristezza
              davanti alla mia anima sette volte dolente
              ma io non sarei un poeta;
              sarei semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
              cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
              Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
              E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
              poiché senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
              Questa notte ho dormito con le mani in croce.
              Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
              dimenticato da tutti gli umani,
              povera tenera preda del primo venuto;
              e desiderai di essere venduto,
              di essere battuto
              di essere costretto a digiunare
              per potermi mettere a piangere tutto tutto solo,
              disperatamente triste,
              in un angolo oscuro.
              Io amo la vita semolice delle cose.
              Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
              per ogni cosa che se ne andava!
              Ma tu non mi comprendi e sorridi.
              E pensi che io sia malato.
              Oh, io sono veramente malato!
              E muoio, un poco, ogni giorno.
              Vedi: come le cose.
              Non sono, dunque, un poeta:
              io so che per esser detto: poeta, conviene
              viver ben altra vita!
              Io non so, Dio mio, che morire.
              Amen.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Adolescente

                Su te, vergine adolescente,
                sta come un'ombra sacra.
                Nulla è più misterioso
                e adorabile e proprio
                della tua carne spogliata.
                Ma ti recludi nell'attenta veste
                e abiti lontano
                con la tua grazia
                dove non sai chi ti raggiungerà.
                Certo non io. Se ti veggo passare
                a tanta regale distanza,
                con la chioma sciolta
                e tutta la persona astata,
                la vertigine mi si porta via.
                Sei l'imporosa e liscia creatura
                cui preme nel suo respiro
                l'oscuro gaudio della carne che appena
                sopporta la sua pienezza.
                Nel sangue, che ha diffusioni
                di fiamma sulla tua faccia,
                il cosmo fa le sue risa
                come nell'occhio nero della rondine.
                La tua pupilla è bruciata
                dal sole che dentro vi sta.
                La tua bocca è serrata.
                Non sanno le mani tue bianche
                il sudore umiliante dei contatti.
                E penso come il tuo corpo
                difficoltoso e vago
                fa disperare l'amore
                nel cuor dell'uomo!

                Pure qualcuno ti disfiorerà,
                bocca di sorgiva.
                Qualcuno che non lo saprà,
                un pescatore di spugne,
                avrà questa perla rara.
                Gli sarà grazia e fortuna
                il non averti cercata
                e non sapere chi sei
                e non poterti godere
                con la sottile coscienza
                che offende il geloso Iddio.
                Oh sì, l'animale sarà
                abbastanza ignaro
                per non morire prima di toccarti.
                E tutto è così.
                Tu anche non sai chi sei.
                E prendere ti lascerai,
                ma per vedere come il gioco è fatto,
                per ridere un poco insieme.
                Come fiamma si perde nella luce,
                al tocco della realtà
                i misteri che tu prometti
                si disciolgono in nulla.
                Inconsumata passerà
                tanta gioia!
                Tu ti darai, tu ti perderai,
                per il capriccio che non indovina
                mai, col primo che ti piacerà.
                Ama il tempo lo scherzo
                che lo seconda,
                non il cauto volere che indugia.
                Così la fanciullezza
                fa ruzzolare il mondo
                e il saggio non è che un fanciullo
                che si duole di essere cresciuto.
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