Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Destino! Che albero invisibile e infinito

Destino! Che albero invisibile e infinito
dà il tuo frutto, che l'anima
a volte raccoglie, matur0?

Quali di queste idee sono i tuoi rami,
di questi sentimenti sono i tuoi fiori,
di queste canzoni sono i tuoi uccelli,
di questi sorrisi i tuoi profumi?

Cosa alimenta le tue radici?
In che modo, da dove, come in questo limone
dalla mia finestra, tu entri
nella nostra stanza più interna
e lì sfiori, dolcemente, il cuore?
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Canzone

    Quando le tue mani erano luna,
    colsero dal giardino del cielo
    i tuoi occhi, violette divine.

    Che nostalgia, quando i tuoi occhi
    ricordano, di notte, il loro cespo
    alla luce morta delle tue mani!

    Tutta la mia anima, col suo mondo,
    metto nei miei occhi della terra,
    per ammirarti, moglie splendida!

    Non incontreranno le tue due violette
    il leggiadro luogo a cui elevo
    cogliendo nella mia anima l'increato?
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Incontro di due mani

      Incontro di due mani
      in cerca di stelle,
      nella notte!

      Con che pressione immensa
      si sentono le purezze immortali!

      Dolci, quelle due dimenticano
      la loro ricerca senza sosta,
      e incontrano, un istante,
      nel loro circolo chiuso,
      quel che cercavano da sole.

      Rassegnazione d'amore,
      tanto infinita come l'impossibile!
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        La Tovaglia

        Le dicevano: - Bambina!
        Che tu non lasci mai stesa,
        dalla sera alla mattina,
        ma porta dove l'hai presa,
        la tovaglia bianca, appena
        ch'è terminata la cena!
        Bada, che vengono i morti!
        I tristi, i pallidi morti!
        Entrano, ansimano muti.
        Ognuno è tanto mai stanco!
        E si fermano seduti
        la notte intorno a quel bianco.
        Stanno lì sino al domani,
        col capo tra le due mani,
        senza che nulla si senta,
        sotto la lampada spenta. -
        È già grande la bambina:
        la casa regge, e lavora:
        fa il bucato e la cucina,
        fa tutto al modo d'allora.
        Pensa a tutto, ma non pensa
        a sparecchiare la mensa.
        Lascia che vengano i morti,
        i buoni, i poveri morti.
        Oh! la notte nera nera,
        di vento, d'acqua, di neve,
        lascia ch'entrino da sera,
        col loro anelito lieve;
        che alla mensa torno torno
        riposino fino a giorno,
        cercando fatti lontani
        col capo tra le due mani.
        Dalla sera alla mattina,
        cercando cose lontane,
        stanno fissi, a fronte china,
        su qualche bricia di pane,
        e volendo ricordare,
        bevono lagrime amare.
        Oh! non ricordano i morti,
        i cari, i cari suoi morti!
        - Pane, sì... pane si chiama,
        che noi spezzammo concordi:
        ricordate?... È tela, a dama:
        ce n'era tanta: ricordi?...
        Queste?... Queste sono due,
        come le vostre e le tue,
        due nostre lagrime amare
        cadute nel ricordare! -.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          La canzone della granata

          Ricordi quand'eri saggina,
          coi penduli grani che il vento
          scoteva, come una manina
          di bimbo il sonaglio d'argento?
          Cadeva la brina; la pioggia
          cadeva: passavano uccelli
          gemendo: tu gracile e roggia
          tinnivi coi cento ramelli.
          Ed oggi non più come ieri
          tu senti la pioggia e la brina,
          ma sgrigioli come quand'eri
          saggina.
          Restavi negletta nei solchi
          quand'ogni pannocchia fu colta:
          te, colsero, quando i bifolchi
          v'ararono ancora una volta.
          Un vecchio ti prese, recise,
          legò; ti privò della bella
          semenza tua rossa; e ti mise
          nell'angolo, ad essere ancella.
          E in casa tu resti, in un canto,
          negletta qui come laggiù;
          ma niuno è di casa pur quanto
          sei tu.
          Se t'odia colui che la trama
          distende negli alti solai,
          l'arguta gallina pur t'ama,
          cui porti la preda che fai.
          E t'ama anche senza, ché ai costi
          ti sbalza, ed i grani t'invola,
          residui del tempo che fosti
          saggina, nei campi già sola.
          Ma più, gracilando t'aspetta
          con ciò che in tua vasta rapina
          le strascichi dalla già netta
          cucina.
          Tu lasci che t'odiino, lasci
          che t'amino: muta, il tuo giorno,
          nell'angolo, resti, coi fasci
          di stecchi che attendono il forno.
          Nell'angolo il giorno tu resti,
          pensosa del canto del gallo;
          se al bimbo tu già non ti presti,
          che viene, e ti vuole cavallo.
          Riporti, con lui che ti frena,
          le paglie ch'hai tolte, e ben più;
          e gioia or n'ha esso; ma pena
          poi tu.
          Sei l'umile ancella; ma reggi
          la casa: tu sgridi a buon'ora,
          mentre impaziente passeggi,
          gl'ignavi che dormono ancora.
          E quanto tu muovi dal canto,
          la rondine è ancora nel nido;
          e quando comincia il suo canto,
          già ode per casa il tuo strido.
          E l'alba il suo cielo rischiara,
          ma prima lo spruzza e imperlina,
          così come tu la tua cara
          casina.
          Sei l'umile ancella, ma regni
          su l'umile casa pulita.
          Minacci, rimproveri; insegni
          ch'è bella, se pura, la vita.
          Insegni, con l'acre tua cura
          rodendo la pietra e la creta,
          che sempre, per essere pura,
          si logora l'anima lieta.
          Insegni, tu sacra ad un rogo
          non tardo, non bello, che più
          di ciò che tu mondi, ti logori
          tu!
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            La Guazza

            Laggiù, nella notte, tra scosse
            d'un lento sonaglio, uno scalpito
            è fermo. Non anco son rosse
            le cime dell'Alpi.
            Nel cielo d'un languido azzurro,
            le stelle si sbiancano appena:
            si sente un confuso sussurro
            nell'aria serena.
            Chi passa per tacite strade?
            Chi parla da tacite soglie?
            Nessuno. È la guazza che cade
            sopr'aride foglie.
            Si parte, ch'è ora, né giorno,
            sbarrando le vane pupille;
            si parte tra un murmure intorno
            di piccole stille.
            In mezzo alle tenebre sole,
            qualcuna riluce un minuto;
            riflette il tuo Sole, o mio Sole;
            poi cade: ha veduto.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              La fonte di Castelvecchio

              O voi che, mentre i culmini Apuani
              il sole cinge d'un vapor vermiglio,
              e fa di contro splendere i lontani
              vetri di Tiglio;
              venite a questa fonte nuova, sulle
              teste la brocca, netta come specchio,
              equilibrando tremula, fanciulle
              di Castelvecchio;
              e nella strada che già s'ombra, il busso
              picchia dè duri zoccoli, e la gonna
              stiocca passando, e suona eterno il flusso
              della Corsonna:
              fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
              dove brusivo con un lieve rombo
              sotto i castagni; ora convien che corra
              chiusa nel piombo.
              A voi, prigione dalle verdi alture,
              pura di vena, vergine di fango,
              scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
              vergini, piango:
              non come piange nel salir grondando
              l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
              io solo mando tra il gorgoglio blando
              qualche singhiozzo.
              Oh! la mia vita di solinga polla
              nel taciturno colle delle capre!
              Udir soltanto foglia che si crolla,
              cardo che s'apre,
              vespa che ronza, e queruli richiami
              del forasiepe! Il mio cantar sommesso
              era tra i poggi ornati di ciclami
              sempre lo stesso;
              sempre sì dolce! E nelle estive notti,
              più, se l'eterno mio lamento solo
              s'accompagnava ai gemiti interrotti
              dell'assiuolo,
              più dolce, più! Ma date a me, ragazze
              di Castelvecchio, date a me le nuove
              del mondo bello: che si fa? Le guazze
              cadono, o piove?
              E per le selve ancora si tracoglie,
              o fate appietto? Ed il metato fuma,
              o già picchiate? Aspettano le foglie
              molli la bruma,
              o le crinelle empite nè frondai
              in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
              frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
              bianca di neve?
              Più nulla io vedo, io che vedea non molto
              quando chiamavo, con il mio rumore
              fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
              macole e more.
              Col nepotino a me venìa la bianca
              vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
              andare come vaccherella stanca
              va col suo redo.
              Nella deserta chiesa che rovina,
              vive la bianca Matta dei Beghelli
              più? Desta lei la sveglia mattutina
              più, dè fringuelli?
              Essa veniva al garrulo mio rivo
              sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
              e io, garrendo ancora più, l'empivo
              sempre la secchia.
              Ah! che credevo d'essere sua cosa!
              Con lei parlavo, ella parlava meco,
              come una voce nella valle ombrosa
              parla con l'eco.
              Però singhiozzo ripensando a questa
              che lasciai nella chiesa solitaria,
              che avea due cose al mondo, e gliene resta
              l'una, ch'è l'aria.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                La canzone del Girarrosto

                Domenica! Il dì che a mattina
                sorride e sospira al tramonto!...
                Che ha quella teglia in cucina?
                Che brontola brontola brontola...
                È fuori un frastuono di giuoco,
                per casa è un sentore di spigo...
                Che ha quella pentola al fuoco?
                Che sfrigola sfrigola sfrigola...
                E già la massaia ritorna
                da messa;
                così come trovasi adorna,
                s'appressa:
                la brage qua copre, là desta,
                passando, frr, come in un volo,
                spargendo un odore di festa,
                di nuovo, di tela e giaggiolo.
                La macchina è in punto; l'agnello
                nel lungo schidione è già pronto;
                la teglia è sul chiuso fornello,
                che brontola brontola brontola...
                Ed ecco la macchina parte
                da sé, col suo trepido intrigo:
                la pentola nera è da parte,
                che sfrigola sfrigola sfrigola...

                Ed ecco che scende, che sale,
                che frulla,
                che va con un dondolo eguale
                di culla.
                La legna scoppietta; ed un fioco
                fragore all'orecchio risuona
                di qualche invitato, che un poco
                s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
                È l'ora, in cucina, che troppi
                due sono, ed un solo non basta:
                si cuoce, tra murmuri e scoppi,
                la bionda matassa di pasta.
                Qua, nella cucina, lo svolo
                di piccole grida d'impero;
                là, in sala, il ronzare, ormai solo,
                d'un ospite molto ciarliero.
                Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
                né pena,
                la docile macchina gira
                serena,
                qual docile servo, una volta
                ch'ha inteso, né altro bisogna:
                lavora nel mentre che ascolta,
                lavora nel mentre che sogna.
                Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
                con una vertigine molle:
                con qualche suo fremito incuora
                la pentola grande che bolle.
                È l'ora: s'affretta, né tace,
                ché sgrida, rimprovera, accusa,
                col suo ticchettìo pertinace,
                la teglia che brontola chiusa.
                Campana lontana si sente
                sonare.
                Un'altra con onde più lente,
                più chiare,
                risponde. Ed il piccolo schiavo
                già stanco, girando bel bello,
                già mormora, in tavola! In tavola!,
                e dondola il suo campanello.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  Il mendico

                  Presso il rudere un pezzente
                  cena tra le due fontane:
                  pane alterna egli col pane,
                  volti gli occhi all'occidente.
                  Fa un incanto nella mente:
                  carne è fatto, ecco, l'un pane.
                  Tra il gracchiare delle rane
                  sciala il mago sapiente.
                  Sorge e beve alle due fonti:
                  chiara beve acqua nell'una,
                  ma nell'altra un dolce vino.
                  Giace e guarda: sopra i monti
                  sparge il lume della luna;
                  getta l'arti al ciel turchino,
                  baldacchino
                  di mirabile lavoro,
                  ch'ei trapunta a stelle d'oro.
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