O bel clivo fiorito Cavallino ch'io varcai cò leggiadri eguali a schiera al mio bel tempo; chi sa dir se l'era d'olmo la tua parlante ombra o di pino? Era busso ricciuto o biancospino, da cui dorata trasparia la sera? C'è un campanile tra una selva nera, che canta, bianco, l'inno mattutino? Non so: ché quando a te s'appressa il vano desìo, per entro il cielo fuggitivo te vedo incerta vision fluire. So ch'or sembri il paese allor lontano lontano, che dal tuo fiorito clivo io rimirai nel limpido avvenire.
Che hanno le campane, che squillano vicine, che ronzano lontane? È un inno senza fine, or d'oro, ora d'argento, nell'ombre mattutine. Con un dondolìo lento implori, o voce d'oro, nel cielo sonnolento. Tra il cantico sonoro il tuo tintinno squilla, voce argentina - Adoro, adoro - Dilla, dilla, la nota d'oro - L'onda pende dal ciel, tranquilla. Ma voce più profonda sotto l'amor rimbomba, par che al desìo risponda: la voce della tomba.
C'è sopra il mare tutto abbonacciato il tremolare quasi d'una maglia: in fondo in fondo un ermo colonnato, nivee colonne d'un candor che abbaglia: una rovina bianca e solitaria, là dove azzurra è l'acqua come l'aria: il mare nella calma dell'estate ne canta tra le sue larghe sorsate. O bianco tempio che credei vedere nel chiaro giorno, dove sei vanito? Due barche stanno immobilmente nere, due barche in panna in mezzo all'infinito. E le due barche sembrano due bare smarrite in mezzo all'infinito mare; e piano il mare scivola alla riva e ne sospira nella calma estiva.
Fiume che là specchiasti un casolare cò suoi rossi garofani, qua mura d'erme castella, e tremula verzura; eccoti giunto al fragoroso mare: ed ecco i flutti verso te balzare su dall'interminabile pianura, in larghe file; e nella riva oscura questa si frange, e quella in alto appare; tituba e croscia. E là, donde tu lieto, di sasso in sasso, al piè d'una betulla, sgorghi sonoro tra le brevi sponde; a un po' d'auretta scricchiola il canneto, fruscia il castagno, e forse una fanciulla sogna a quell'ombre, al mormorìo dell'onde.
Fantasma tu giungi, tu parti mistero. Venisti, o di lungi? Ché lega già il pero, fiorisce il cotogno laggiù. Di cincie e fringuelli risuona la ripa. Sei tu tra gli ornelli, sei tu tra la stipa? Ombra! Anima! Sogno! Sei tu...? Ogni anno a te grido con palpito nuovo. Tu giungi: sorrido; tu parti: mi trovo due lagrime amare di più. Quest'anno... oh! Quest'anno, la gioia vien teco: già l'odo, o m'inganno, quell'eco dell'eco; già t'odo cantare Cu... cu.
Sono più di trent'anni e, di queste ore, mamma, tu con dolor m'hai partorito; ed il mio nuovo piccolo vagito t'addolorava più del tuo dolore. Poi tra il dolore sempre ed il timore, o dolce madre, m'hai di te nutrito: e quando fui del corpo tuo vestito, quand'ebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore, allor sei morta; e son vent'anni: un giorno! E già gli occhi materni io penso a vuoto; e il caro viso già mi si scolora; mamma, e più non ti so. Ma nel soggiorno freddo dè morti, nel tuo sogno immoto, tu m'accarezzi i riccioli d'allora.
Nevica: l'aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve: gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco: cade del bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera; passano bimbi: un balbettìo di pianto; passa una madre: passa una preghiera.
O dolce usignolo che ascolto (non sai dove), in questa gran pace cantare cantare tra il folto, là, dei sanguini e delle acace; t'ho presa - perdona, usignolo - una dolce nota, sol una, ch'io canto tra me, solo solo, nella sera, al lume di luna. E pare una tremula bolla tra l'odore acuto del fieno, un molle gorgoglio di polla, un lontano fischio di treno... Chi passa, al morire del giorno, ch'ode un fischio lungo laggiù riprende nel cuore il ritorno verso quello che non è più. Si trova al nativo villaggio, vi ritrova quello che c'era: l'odore di mesi-di-maggio buon odor di rose e di cera. Ne ronzano le litanie, come l'api intorno una culla: ci sono due voci sì pie! Di sua madre e d'una fanciulla. Poi fatto silenzio, pian piano, nella nota mia, che t'ho presa, risente squillare il lontano campanello della sua chiesa. Riprende l'antica preghiera, ch'ora ora non ha perché; si trova con quello che c'era, ch'ora ora ora non c'è... Chi sono? Non chiederlo. Io piango, ma di notte, perch'ho vergogna. O alato, io qui vivo nel fango. Sono un gramo rospo che sogna.
Non ammirare, se in un cuor non basso, cui tu rivolga a prova, un pungiglione senti improvviso: c'è sott'ogni sasso lo scorpione. Non ammirare, se in un cuor concesso al male, senti a quando a quando un grido buono, un palpito santo: ogni cipresso porta il suo nido.
Ho nel cuore la mesta parola d'un bimbo ch'all'uscio mi viene. Una lagrima sparsi, una sola, per tante sue povere pene; e pur quella pensai che vanisse negl'ispidi riccioli ignota: egli alzò le pupille sue fisse, sentendosi molle la gota. E io, quasi chiedendo perdono, gli tersi la stilla smarrita, con un bacio, e ponevo il mio dono tra quelle sue povere dita. Ed allora ne intesi nel cuore la voce che ancora vi sta: Non li voglio: non voglio, signore, che scemi le vostra pietà. E quand'egli già fuor del cancello riprese il solingo sentiero, io sentii, che, il suo grave fardello, godeva a portarselo intiero: e chiamava sua madre, che sorta pareva da nebbie lontane, a vederlo; poi ch'erano, morta lei, morta! Ma lui senza pane.