Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Segno

Sono nato sotto il segno dell'Autunno
Perciò amo i frutti e detesto i fiori
Rimpiango i miei baci ad uno ad uno
Come un noce bacchiato al vento racconta i suoi dolori

Eterno autunno o stagione mia mentale
Le mani degli amanti d'una volta cospargono il tuo suolo
Mi segue una sposa è la mia ombra fatale
Stasera le colombe spiccano l'ultimo volo.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Il carnevale di Gerti

    Se la ruota si impiglia nel groviglio
    delle stesse filanti ed il cavallo
    s'impenna tra la calca, se ti nevica
    fra i capelli e le mani un lungo brivido
    d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
    le flebili ocarine che salutano
    il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
    giù dal ponte sul fiume
    se si sfolla la strada e ti conduce
    in un mondo soffiato entro una tremula
    bolla d'aria e di luce dove il sole
    saluta la tua grazia-hai ritrovato
    forse la strada che tentò un istante
    il piombo fuso a mezzanotte quando
    finì l'anno tranquillo senza spari.

    Ed ora vuoi sostare dove un filtro
    fa spogli i suoni
    e ne deriva i sorridenti ed acri
    fumi che ti compongono il domani;
    ora chiedi il paese dove gli onagri
    mordano quadri di zucchero dalle tue mani
    e i tozzi alberi spuntino germogli
    miracolosi al becco dei pavoni.

    (Oh, il tuo carnevale sarà più triste
    stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
    tu per gli assenti: carri dalle tinte
    di rosolio, fantocci ed archibugi,
    palle di gomma, arnesi da cucina
    lillipuziani: l'urna li segnava
    a ognuno dei lontani amici l'ora
    che il gennaio si schiuse e nel silenzio
    si compì il sortilegio. È carnevale
    o il dicembre s'indugia ancora? Penso
    che se muovi la lancetta al piccolo
    orologio che rechi al polso, tutto
    arretrerà dentro un disfatto prisma
    babelico di forme e di colori... )

    E il natale verrà e il giorno dell'anno
    che sfolla le caserme e ti riporta
    gli amici spersi e questo carnevale
    pur esso tornerà che ora ci sfugge
    tra i muri che si fendono già. Chiedi
    tu di fermare il tempo sul paese
    che attorno si dilata? Le grandi ali
    screziate ti sfiorano, le logge
    sospingono all'aperto esili bambole
    bionde, vive, le pale dei mulini
    rotano fisse sulle pozze garrule.
    Chiedi di trattenere le campane
    d'argento sopra il borgo e il suono rauco
    delle colombe? Chiedi tu i mattini
    trepidi delle tue prode lontane?

    Come tutto si fa strano e difficile
    come tutto è impossibile, tu dici.
    La tua vita è quaggiù dove rimbombano
    le ruote dei carriaggi senza posa
    e nulla torna se non forse
    in questi disguidi del possibile.
    Ritorna là fra i morti balocchi
    ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
    al polso e all'esistenza ti ridona,
    tra le mura pesanti che non s'aprono
    al gorgo degli umani affaticato,
    torna alla via dove con te intristisco
    quella che mi additò un piombo raggelato
    alle mie, alle tue sere:
    torna alle primavere che non fioriscono.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      L'anguilla

      L'anguilla, la sirena
      dei mari freddi che lascia il Baltico
      per giungere ai nostri mari,
      ai nostri estuari, ai fiumi
      che risale in profondo, sotto la piena avversa,
      di ramo in ramo e poi
      di capello in capello, assottigliati,
      sempre piú addentro, sempre piú nel cuore
      del macigno, filtrando
      tra gorielli di melma finché un giorno
      una luce scoccata dai castagni
      ne accende il guizzo in pozze d'acquamorta,
      nei fossi che declinano
      dai balzi d'Appennino alla Romagna;
      l'anguilla, torcia, frusta,
      freccia d'Amore in terra
      che solo i nostri botri o i disseccati
      ruscelli pirenaici riconducono
      a paradisi di fecondazione;
      l'anima verde che cerca
      vita là dove solo
      morde l'arsura e la desolazione,
      la scintilla che dice
      tutto comincia quando tutto pare
      incarbonirsi, bronco seppellito:
      l'iride breve, gemella
      di quella che incastonano i tuoi cigli
      e fai brillare intatta in mezzo ai figli
      dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
      non crederla sorella?
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Gloria del disteso mezzogiorno

        Gloria del disteso mezzogiorno
        quand'ombra non rendono gli alberi,
        e piú e piú si mostrano d'attorno
        per troppa luce, le parvenze, falbe.

        Il sole, in alto, - e un secco greto.
        Il mio giorno non è dunque passato:
        l'ora piú bella è di là dal muretto
        che rinchiude in un occaso scialbato.

        L'arsura, in giro; un martin pescatore
        volteggia s'una reliquia di vita.
        La buona pioggia è di là dallo squallore,
        ma in attendere è gioia piú compita.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
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          In limine

          Godi se il vento ch'entra nel pomario
          vi rimena l'ondata della vita:
          qui dove affonda un morto
          viluppo di memorie,
          orto non era, ma reliquario.

          Il frullo che tu senti non è un volo,
          ma il commuoversi dell'eterno grembo;
          vedi che si trasforma questo lembo
          di terra solitario in un crogiuolo.

          Un rovello è di qua dall'erto muro.
          Se procedi t'imbatti
          tu forse nel fantasma che ti salva:
          si compongono qui le storie, gli atti
          scancellati pel giuoco del futuro.

          Cerca una maglia rotta nella rete
          che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
          Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
          mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            La casa dei doganieri

            Tu non ricordi la casa dei doganieri
            sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
            desolata t'attende dalla sera
            in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
            e vi sostò irrequieto.

            Libeccio sferza da anni le vecchie mura
            e il suono del tuo riso non è più lieto:
            la bussola va impazzita all'avventura
            e il calcolo dei dadi più non torna.

            Tu non ricordi; altro tempo frastorna
            la tua memoria; un filo s'addipana.

            Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
            la casa e in cima al tetto la banderuola
            affumicata gira senza pietà.
            Ne tengo un capo; ma tu resti sola
            nè qui respiri nell'oscurità.

            Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
            rara la luce della petroliera!
            Il varco è qui? (ripullula il frangente
            ancora sulla balza che scoscende... ).
            Tu non ricordi la casa di questa
            mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Arsenio

              I turbini sollevano la polvere
              sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
              deserti, ove i cavalli incappucciati
              annusano la terra, fermi innanzi
              ai vetri luccicanti degli alberghi.
              Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
              in questo giorno
              or piovorno ora acceso, in cui par scatti
              a sconvolgerne l'ore
              uguali, strette in trama, un ritornello
              di castagnette.
              È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
              Discendi all'orizzonte che sovrasta
              una tromba di piombo, alta sui gorghi,
              più d'essi vagabonda: salso nembo
              vorticante, soffiato dal ribelle
              elemento alle nubi; fa che il passo
              su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
              il viluppo dell'alghe: quell'istante
              è forse, molto atteso, che ti scampi
              dal finire il tuo viaggio, anello d'una
              catena, immoto andare, oh troppo noto
              delirio, Arsenio, d'immobilità...
              Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
              dei violini, spento quando rotola
              il tuono con un fremer di lamiera
              percossa; la tempesta è dolce quando
              sgorga bianca la stella di Canicola
              nel cielo azzurro e lunge par la sera
              ch'è prossima: se il fulmine la incide
              dirama come un albero prezioso
              entro la luce che s'arrosa: e il timpano
              degli tzigani è il rombo silenzioso
              Discendi in mezzo al buio che precipita
              e muta il mezzogiorno in una notte
              di globi accesi, dondolanti a riva, -
              e fuori, dove un'ombra sola tiene
              mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
              l'acetilene -
              finché goccia trepido
              il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
              tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
              le tende molli, un fruscio immenso rade
              la terra, giù s'afflosciano stridendo
              le lanterne di carta sulle strade.
              Così sperso tra i vimini e le stuoie
              grondanti, giunco tu che le radici
              con sé trascina, viscide, non mai
              svelte, tremi di vita e ti protendi
              a un vuoto risonante di lamenti
              soffocati, la tesa ti ringhiotte
              dell'onda antica che ti volge; e ancora
              tutto che ti riprende, strada portico
              mura specchi ti figge in una sola
              ghiacciata moltitudine di morti,
              e se un gesto ti sfiora, una parola
              ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
              nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
              vita strozzata per te sorta, e il vento
              la porta con la cenere degli astri.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
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                Xenia I

                Avevamo studiato per l'aldilà
                un fischio, un segno di riconoscimento.
                Mi provo a modularlo nella speranza
                che tutti siamo già morti senza saperlo.
                Non ho mai capito se io fossi
                il tuo cane fedele e incimurrito
                o tu lo fossi per me.
                Per gli altri no, eri un insetto miope
                smarrito nel blabla
                dell'alta società. Erano ingenui
                quei furbi e non sapevano
                di essere loro il tuo zimbello:
                di esser visti anche al buio e smascherati
                da un tuo senso infallibile, dal tuo
                radar di pipistrello.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
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                  La Storia

                  La storia non si snoda
                  come una catena
                  di anelli ininterrotta.
                  In ogni caso
                  molti anelli non tengono.
                  La storia non contiene
                  il prima e il dopo,
                  nulla che in lei borbotti
                  a lento fuoco.
                  La storia non è prodotta
                  da chi la pensa e neppure
                  da chi l'ignora. La storia
                  non si fa strada, si ostina,
                  detesta il poco a poco, non procede
                  né recede, si sposta di binario
                  e la sua direzione
                  non è nell'orario.
                  La storia non giustifica
                  e non deplora,
                  la storia non è intrinseca
                  perché è fuori.
                  La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
                  La storia non è magistra
                  di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
                  a farla più vera e più giusta.
                  La storia non è poi
                  la devastante ruspa che si dice.
                  Lascia sottopassaggi, cripte, buche
                  e nascondigli. C'è chi sopravvive.
                  La storia è anche benevola: distrugge
                  quanto più può: se esagerasse, certo
                  sarebbe meglio, ma la storia è a corto
                  di notizie, non compie tutte le sue vendette.
                  La storia gratta il fondo
                  come una rete a strascico
                  con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
                  Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
                  d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
                  Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
                  Gli altri, nel sacco, si credono
                  più liberi di lui.
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