Si metto int' 'a valanza stu bbene ca te voglio, semplice e genuino carnale e senza 'mbruoglio, schiuppato int'a stu core cu tutt' 'o sentimento, crisciuto cu ll'ammore appassionatamente: nun t'aggio ditto ancora?... pesa tre tunnellate e nu quintale 'a fora!
A me pare uguale agli dei chi a te vicino così dolce suono ascolta mentre tu parli e ridi amorosamente. Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante Come erba patita scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente.
Fissa questa manciata di bellezza su questa tavolozza non si sa mai potrebbe essere finale
oppure lasciala è il paradiso e poi velluta imeni suoi globi dei tuoi occhi
o sul ponte di Butt arrossisci di vergogna la mista declinazione di queste mammelle rizza la tua luna tua e soltanto tua su su su fino alla stella della sera svieni sull'archi-gassometro garofano fresco di Misery Hill svieni sulla piccola rossa casa di preghiere qualcosa cuore di Maria il Bull e il Pool le gettate che non si incontreranno mai almeno in questo mondo
invece sfreccia tra i fusti caracollanti rovescia il ponte Victoria bravo rallenta striscia giù per Ringsend Road Irishtown Sandymount cerca trova il Fuoco dell'Inferno gli AppartamentiMerrion segnati da un trilione di sigma il Dito di Gesucristo Figlio di Dio Salvatore ragazze sorprese mentre si spogliano bravo sul frangiventi e onde di Bootersgrad la marea pànico dei gabbiani bigi le sabbie si smuovono nel tuo cuore caldo nasconditi non nella Rocca non ti fermare non ti fermare.
Tre volte venne l'uomo delle pompe funebri impassibile dietro la bombetta squamosa a misurare non lo pagano per misurare? Questo incorruttibile nell'ingresso questo malebranca guazzante nei gigli Malacoda fino ai ginocchi nei gigli Malacoda nonostante l'esperto terrore che felpa il suo perineo smorza il segnale sospirando nell'aria greve sarà? Deve essere deve essere cerca le gramigne occupali in giardino sentite lei può vedere non c'è bisogno
per seppellire con gli ungulati assistenti cerca le gramigne distrai la loro attenzione sentire lei deve vedere non c'è bisogno
per coprire certo copri copri bene tutto la tua targa permettimi tieni il tuo zolfo divino vetro canicolare sereno aspetta Scarmiglione aspetta aspetta metti questo Huysum sulla cassa attento all'imago è lui sentire lei deve vedere deve tutti a bordo tutti i morti a mezz'asta sì sì.
Pasqua ventosa che sali ai crocifissi con tutto il tuo pallore disperato, dov'è il crudo preludio del sole? E la rosa la vaga profezia? Dagli orti di marmo ecco l'agnello flagellato a brucare scarsa primavera e illumina i mali dei morti pasqua ventosa che i mali fa più acuti
E se è vero che oppresso mi composero a questo tempo vuoto per l'esaltazione del domani, ho tanto desiderato questa ghirlanda di vento e di sale queste pendici che lenirono il mio corpo ferita di cristallo; ho consumato purissimo pane
Discrete febbri screpolano la luce di tutte le pendici della pasqua, svenano il vino gelido dell'odio; è mia questa inquieta Gerusalemme di residue nevi, il belletto s'accumula nelle stanze nelle gabbie spalancate dove grandi uccelli covarono colori d'uova e di rosei regali, e il cielo e il mondo è l'indegno sacrario dei propri lievi silenzi.
Crocifissa ai raggi ultimi è l'ombra le bocche non sono che sangue i cuori non sono che neve le mani sono immagini inferme della sera che miti vittime cela nel seno.
Da questa artificiosa terra-carne esili acuminati sensi e sussulti e silenzi, da questa bava di vicende - soli che urtarono fili di ciglia ariste appena sfrangiate pei colli - da questo lungo attimo inghiottito da nevi, inghiottito dal vento, da tutto questo che non fu primavera non luglio non autunno ma solo egro spiraglio ma solo psiche, da tutto questo che non è nulla ed è tutto ciò ch'io sono: tale la verità geme a se stessa, si vuole pomo che gonfia ed infradicia. Chiarore acido che tessi i bruciori d'inferno degli atomi e il conato torbido d'alghe e vermi, chiarore-uovo che nel morente muco fai parole e amori.
Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po' perché essi non sanno, un po' per amor Tuo e un po' perché hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura.
C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo, capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.
Falce martello e la stella d'Italia ornano nuovi la sala. Ma quanto dolore per quel segno su quel muro!
Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo. Saluta al pugno; dice sue parole perché le donne ridano e i fanciulli che affollano la povera platea. Dice, timido ancora, dell'idea che gli animi affratella; chiude: "E adesso faccio come i tedeschi: mi ritiro". Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l'amico dell'uomo, cui rimargina ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esigli, si scalda a lui come chi ha freddo al sole.
Questo è il Teatro degli Artigianelli, quale lo vide il poeta nel mille novecentoquarantaquattro, un giorno di Settembre, che a tratti rombava ancora il canone, e Firenze taceva, assorta nelle sue rovine.
Anch'io tra i molti vi saluto, rosso- alabardati, sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati. Trepido seguo il vostro gioco. Ignari esprimete con quello antiche cose meravigliose sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari soli d'inverno.
Le angosce che imbiancano i capelli all'improvviso, sono da voi così lontane! La gloria vi dà un sorriso fugace: il meglio onde disponga. Abbracci corrono tra di voi, gesti giulivi.
Giovani siete, per la madre vivi; vi porta il vento a sua difesa. V'ama anche per questo il poeta, dagli altri diversamente - ugualmente commosso.
Tu così avventuroso nel mio mito, così povero sei fra le tue sponde. Non hai, ch'io veda, margine fiorito. Dove ristagni scopri cose immonde.
Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi, o torrentello. Tutto il tuo corso è quello del mio pensiero, che tu risospingi alle origini, a tutto il fronte e il bello che in te ammiravo; e se ripenso i grossi fiumi, l'incontro con l'avverso mare, quest'acqua onde tu appena i piedi arrossi nudi a una lavandaia, la più pericolosa e la più gaia, con isole e cascate, ancor m'appare; e il poggio da cui scendi è una montagna.
Sulla tua sponda lastricata l'erba cresceva, e cresce nel ricordo sempre; sempre è d'intorno a te sabato sera; sempre ad un bimbo la sua madre austera rammenta che quest'acqua è fuggitiva, che non ritrova più la sua sorgente, né la sua riva; sempre l'ancor bella donna si attrista, e cerca la sua mano il fanciulletto, che ascoltò uno strano confronto tra la vita nostra e quella della corrente.