Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie anonime)
Sfioriti corpi pesanti -
esistenza, sei prato che leva
a ustione di luce graffiante:
infamia il desiderio che ti lorda
e l'ira dentro, blu - cobalto che fende
antracite di tenebre.
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Sfioriti corpi pesanti -
esistenza, sei prato che leva
a ustione di luce graffiante:
infamia il desiderio che ti lorda
e l'ira dentro, blu - cobalto che fende
antracite di tenebre.
Perché tu hai vita, ma sepolta giace,
mio amore, distorto ramo disseccato
dove d'incausto verde urlo stride
e vorrebbe gettare, ma non leva
a penetrare sconfiggendo il legno
e non azzarda si riduce peggio
di frammenti di luce
che bianco di materia discaccia
da ritorno al primo grembo:
coltre di neve se bianco implacato possiede,
madre che inerme ti ha gettato.
Sia luce oggi, madre Luna,
splendidamente nera levati
di blu-cobalto, mentre segue l'anima
insieme a te ustionando -
esigere che l'anima non arda
è chiedere al fuoco stesso
di grembo di esistenza
non più ardere, vivo, soltanto vivo
nel silenzio bianco.
Semplicemente hai pensato la luce
mio prato lontano da disperdersi,
anima che sola tensione hai la clausura-
di rado per lievi attimi sfiorata
da levarsi di luna
livida ustione imprevedibile
se desiderio blu - cobalto
di avide comete ti sceglie cibo-
non trova altro e ha fame.
Il momento del parlare
mi tolse fiato,
e nella stanza della sera giovane
fu un sussulto di coraggio.
Nell'istante scrutai i tuoi occhi,
le tue mani non ritratte: la mia intenzione ristette,
poi si ruppe senza fragore.
I sussurri si amalgamarono
sui libri, sui muri, contro le finestre,
all'ora che chiama l'uomo
all'uscire.
E uscimmo nel lieve spirare
di un vento zingaro.
Tacciono le tue parole, lontane,
e volano senza toccarti
i miei pensieri a briglia sciolta.
Di lungi tuona felice
il temporale di luglio,
e copre la tua voce assente,
baluginante nel ricordo,
con lampi incerti di noia.
Non saprai quel sentire per te che segreto
è al nostro cuore; è un pensiero,
un regalo che lumeggia invano
alle tue palpebre chiare.
È la promessa che solleva foglie d’emozione,
e si lascia l’estate alle spalle.
Gli amici sorridono in questa casa sorda,
intrecciamo le nostre malinconie, le nostre paure,
le nostre speranze giganti a due accordi di chitarra,
a un bicchiere di vino che brilla nel buio
straniero di questo giorno senza coraggio che è nato.
Sono per ora lontani gli affanni, i sospiri sognati,
gli occhi che non abbiamo il coraggio di guardare,
gli occhi che non vogliamo dimenticare,
i silenzi carichi di angosce forse già vissute,
oppure di gioie da cogliere nel soffio dello scirocco.
Questa terra non è nostra, ci culla e ci respinge,
torniamo alla pianura senza orizzonte dell'inverno,
alla neve che buca la nebbia dei nostri minuti strani,
alle usate preoccupazioni dell'oggi senza tempo
lontani da quel vento di scirocco che ci seduce e ci abbandona.
Quando, con infantile e spietata ironia,
mi svelano innanzi i protagonisti monchi del mio passato
come spade, come lance
essi penetrano nel mio cuore
come se io fossi l’unica colpevole disposta e destinata a pagare.
La vergogna e l’inferiorità insensate crescono
mio malgrado, ma col mio permesso,
ed io stessa in un istante spaventoso
percepisco ciò che fino a quel momento
mi curavo di ignorare
sistematicamente.
La mia mente è squassata da ciò che altri dipingono e costruiscono
su di me senza curarsi o domandarmi nulla.
La loro ingenua e sagace crudeltà,
più o meno consapevole,
più o meno giustificata o colpevole,
gioca a ridurmi in silenzio:
un goffo pagliaccio, una marionetta senza nerbo né arbitrio
che s’agita ed arrossisce
tentando di non attirare attenzione
sola sul palcoscenico.
Le risate e la pietà del pubblico
di cui fino a quel momento non ero cosciente
risuonano invadenti nella mia testa,
violentandola e lasciandola stordita da un imbarazzante inettitudine
per cui, malgrado tanti sforzi,
non trovo colpevoli.
E mentre cala il sipario
sulla mia commedia inconsapevole
resto seduta, immobile nel buio aspettando il Secondo Atto
e riflettendo amaramente
sul fascino dell’ignoranza e sulla sua forza,
sulla cattiveria dei punti di vista e del relativismo esistenziale
che contemporaneamente mi costringe ad odiare comprendere e invidiare
gli atteggiamenti pseudospensierati
del mio pubblico
umanamente pettegolo
Rimprovero al mio corpo
non la sua debolezza,
ma la sua forza,
la sua solidità,
quando, mio malgrado, reagisce
ed io muoio della consapevolezza
di non riflettere fuori da me
la fragilità della mia anima.
Abbiamo costruito templi dorati
abitandoli di variopinte divinità,
cerchiamo rifugio,
ovunque,
in terra e in cielo,
con ogni mezzo ed ogni fantasia;
rifugio da noi stessi,
dagli altri,
dalla vita e dalla morte.
Ci inebriamo di conoscenze
illudendoci d’immortalità.
Desolati frammenti organici,
non capiamo cosa siamo
né come sia possibile la nostra esistenza.
Entriamo in chiese e laboratori
con le stesse paure e le stesse speranze.
Temiamo di essere disillusi
e invochiamo una qualche certezza
comoda al nostro futuro.
Ogni giorno ci ubriachiamo di professioni di fede,
e ci sentiamo protetti,
ci sentiamo conquistatori.