Quando, con infantile e spietata ironia, mi svelano innanzi i protagonisti monchi del mio passato come spade, come lance essi penetrano nel mio cuore come se io fossi l’unica colpevole disposta e destinata a pagare. La vergogna e l’inferiorità insensate crescono mio malgrado, ma col mio permesso, ed io stessa in un istante spaventoso percepisco ciò che fino a quel momento mi curavo di ignorare sistematicamente. La mia mente è squassata da ciò che altri dipingono e costruiscono su di me senza curarsi o domandarmi nulla. La loro ingenua e sagace crudeltà, più o meno consapevole, più o meno giustificata o colpevole, gioca a ridurmi in silenzio: un goffo pagliaccio, una marionetta senza nerbo né arbitrio che s’agita ed arrossisce tentando di non attirare attenzione sola sul palcoscenico. Le risate e la pietà del pubblico di cui fino a quel momento non ero cosciente risuonano invadenti nella mia testa, violentandola e lasciandola stordita da un imbarazzante inettitudine per cui, malgrado tanti sforzi, non trovo colpevoli. E mentre cala il sipario sulla mia commedia inconsapevole resto seduta, immobile nel buio aspettando il Secondo Atto e riflettendo amaramente sul fascino dell’ignoranza e sulla sua forza, sulla cattiveria dei punti di vista e del relativismo esistenziale che contemporaneamente mi costringe ad odiare comprendere e invidiare gli atteggiamenti pseudospensierati del mio pubblico umanamente pettegolo
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