Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Gesù Bambino

Gesù Bambino, come dobbiamo essere
Se vogliamo vedere Dio Padre:
accordaci allora di rinascere

come puri infanti, nudi, senz'altro rifugio
che una stalla, e senz'altra compagnia
che un asino e un bue, umile coppia;

d'avere infinita ignoranza
e l'incommensurabile debolezza
per cui l'umile infanzia è benedetta;

di non agire senza che nonnulla ferisca
la nostra carne tuttavia innocente
ancora perfino d'una carezza,

senza che il nostro misero occhio non senta
dolorosamente perfino il chiarore
dell'alba impallidire appena,

della sera che cade, suprema luce,
senza provare altra voglia
che d'un lungo sonno tiepido e smorto…

Come puri infanti che l'aspra vita
destina – a quale meta tragica
o felice? – folla asservita

o libera truppa, a quale calvario?
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Vocali

    A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu:
    vocali,
    Dirò un giorno le vostre origini latenti:
    A nero busto irsuto delle mosche lucenti
    Che ronzano vicino a fetori crudeli,

    Golfi bui; E, candori di vapori e di tende,
    Lance di ghiacciai, bianchi re, brividi
    d'umbelle;
    I, sangue e sputi, porpore, riso di labbra
    belle
    Nella collera o nelle ebbrezze penitenti;

    U, fremiti divini di verdi mari, cicli,
    Pace di bestie al pascolo, pace di quelle
    rughe
    Che imprime alchìmia all'ampia fronte dello
    studioso;

    O, la superna Tromba piena di strani stridi,
    Silenzi visitati dagli Angeli e dai Mondi:
    - O, l'Omega, violetto raggio di quei Suoi
    Occhi!
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      A un vincitore nel pallone

      Di gloria il viso e la gioconda voce,
      Garzon bennato, apprendi,
      E quanto al femminile ozio sovrasti
      La sudata virtude. Attendi attendi,
      Magnanimo campion (s'alla veloce
      Piena degli anni il tuo valor contrasti
      La spoglia di tuo nome), attendi e il core
      Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
      Arena e il circo, e te fremendo appella
      Ai fatti illustri il popolar favore;
      Te rigoglioso dell'età novella
      Oggi la patria cara
      Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
      Del barbarico sangue in Maratona
      Non colorò la destra
      Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
      Che stupido mirò l'ardua palestra,
      Né la palma beata e la corona
      D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
      Forse le chiome polverose e i fianchi
      Delle cavalle vincitrici asterse
      Tal che le greche insegne e il greco acciaro
      Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
      Nelle pallide torme; onde sonaro
      Di sconsolato grido
      L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
      Vano dirai quel che disserra e scote
      Della virtù nativa
      Le riposte faville? E che del fioco
      Spirto vital negli egri petti avviva
      Il caduco fervor? Le meste rote
      Da poi che Febo instiga, altro che gioco
      Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
      Della menzogna il vero? A noi di lieti
      Inganni e di felici ombre soccorse
      Natura stessa: e là dove l'insano
      Costume ai forti errori esca non porse,
      Negli ozi oscuri e nudi
      Mutò la gente i gloriosi studi.
      Tempo forse verrà ch'alle ruine
      Delle italiche moli
      Insultino gli armenti, e che l'aratro
      Sentano i sette colli; e pochi Soli
      Forse fien volti, e le città latine
      Abiterà la cauta volpe, e l'atro
      Bosco mormorerà fra le alte mura;
      Se la funesta delle patrie cose
      Obblivion dalle perverse menti
      Non isgombrano i fati, e la matura
      Clade non torce dalle abbiette genti
      Il ciel fatto cortese
      Dal rimembrar delle passate imprese.
      Alla patria infelice, o buon garzone,
      Sopravviver ti doglia.
      Chiaro per lei stato saresti allora
      Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
      Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
      Che nullo di tal madre oggi s'onora:
      Ma per te stesso al polo ergi la mente.
      Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
      Beata allor che nè perigli avvolta,
      Se stessa obblia, né delle putri e lente
      Ore il danno misura e il flutto ascolta;
      Beata allor che il piede
      Spinto al varco leteo, più grata riede.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Che stai?

        Che stai? Già il secol l'orma ultima lascia;
        dove del tempo son le leggi rotte
        precipita, portando entro la notte
        quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

        Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
        troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
        or meglio vivi, e con fatiche dotte
        a chi diratti antico esempi lascia.

        Figlio infelice, e disperato amante,
        e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
        giovine d'anni e rugoso in sembiante,

        che stai? Breve è la vita, e lunga è l'arte;
        a chi altamente oprar non è concesso
        fama tentino almen libere carte.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Alla Musa

          Pur tu copia versavi alma di canto
          su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
          quando dè miei fiorenti anni fuggiva
          la stagion prima, e dietro erale intanto

          questa, che meco per la via del pianto
          scende di Lete ver la muta riva:
          non udito or t'invoco; ohimè! Soltanto
          una favilla del tuo spirto è viva.

          E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
          o Dea! Tu pur mi lasci alle pensose
          membranze, e del futuro al timor cieco.

          Però mi accorgo, e mel ridice amore,
          che mal ponno sfogar rade, operose
          rime il dolor che deve albergar meco.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Quasi un madrigale

            Il girasole piega a occidente
            e già precipita il giorno nel suo
            occhio in rovina e l'aria dell'estate
            s'addensa e già curva le foglie e il fumo
            dei cantieri. S'allontana con scorrere
            secco di nubi e stridere di fulmini
            quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
            e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
            degli alberi stretti dentro la cerchia
            dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
            e sempre quel sole che se ne va
            con il filo del suo raggio affettuoso.

            Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
            la memoria risale dalla morte,
            la vita è senza fine. Ogni giorno
            è nostro. Uno si fermerà per sempre,
            e tu con me, quando ci sembri tardi.
            Qui sull'argine del canale, i piedi
            in altalena, come di fanciulli,
            guardiamo l'acqua, i primi rami dentro
            il suo colore verde che s'oscura.
            E l'uomo che in silenzio s'avvicina
            non nasconde un coltello fra le mani,
            ma un fiore di geranio.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              Fœura de porta Ludoviga on mia,
              Su la sinistra, in tra duu fontanin
              E in tra dò fil de piant che ghe fa ombria,
              El gh'è on sentirolin
              Solitari, patetegh, deliziôs
              Che 'l se perd a zicch zacch dent per i praa,
              E ch'el par giusta faa
              Per i malinconij d'on penserôs.

              Là inscì, via del piss piss
              D'on quaj sbilz d'acqua, che sbottiss di us'ciœu,
              Via d'on quaj gorgheg d'on rosignœu,
              O de quaj vers lontan lontan lontan
              D'on manzett, o d'on can,
              No se ghe sent on ett
              Che rompa la quiett.

              Tuttcoss, là inscì, l'aiutta la passion,
              Ne s'à nanch faa duu pass
              Tra quij acqu, tra quij piant, tra quell'ombria,
              Che se sent a quattass d'on cert magon,
              Se sent a trasportass
              D'ona certa èstes de malinconia,
              Che sgonfia i œucc senza savè el perché,
              E sforza a piang, d'on piang che fa piasè.

              Appont in de sto stat de scoldament
              Seva jer sol solett in sta stradella.
              Gh'aveva el Tass sott sella
              E i sœu disgrazi in ment:
              Quand tutt'on tratt dove pù scur e fosch
              E pù suturno per el folt di ramm
              Fan i arbor on bosch,
              Me senti a succudì
              Da on streppet improvvis in di fojamm;
              Me se scuriss el dì,
              Me traballa la terra sott i pee,
              Starluscia, donda i piant, scolti on lument
              Sord sord, tegnù tegnù, come d'on vent
              Che brontolla s'cincaa tra i filidur,
              Come el lument di mort e di pagur.

              E vedi a spôntà sù, Gesus Maria!,
              Tra i rover e i fojasc
              Longa longa on ombria
              Che me varda e me slonga incontra i brasc.
              Foo per scappà... foo per sgarì... no poss...
              Me se instecchiss i pee, voo in convulsion,
              E el pocch fiaa di polmon
              El rantéga, el se perd dent per el goss.

              I pols, i laver, i palper, i dent,
              I mascell, i naris
              Solten, batten, hin tucc in moviment;
              Già brancolli... già svegni... borli giò.
              E in quella che bicocchi, on ton de vôs
              Affabel e pietôs
              El me rinfranca con premura, e el dis:
              — Spiret, Carlin! te me cognosset no?
              Vardem... cognossem... sont on galantomm. -
              Sbaratti i œucc... i fissi in quell'ombria,
              E no l'è pù on'ombria, ma l'è on bell'omm
              D'oss, de carna, de pell,
              Che me varda in d'on att de cortesia,
              E el sporg el volt vers mì
              Come sarant a dì... — E inscì mo adess
              Son quell o no sont quell? parla, di su. -

              L'eva volt, compless, ben fa de la personna,
              Magher puttost che grass,
              L'ha el front quadraa, spaziôs;
              Arcaa, distint i zij;
              Barba, baffi, cavij
              Tacaa insemm, folt e bisc, tra el scur e el biond:
              Œucc viv, celest, redond,
              Sguard poetich, penserôs,
              Pell bianca, nâs grandott, laver suttil,
              Bocca larga; dò fil
              De dent piccol e spess, candidi, inguai,
              Barbozz sporgent in fœura;
              Manegh, corpett, goriglia alla spagnœura...
              — Dio! chi vedi mì... saravel mai,
              Saravel mai — dighi tremant — el Tass?... -
              E lù cerôs, fasent i dò foppell
              In mezz ai dò ganass
              — Sì — el me respond — sont quell, sont propi quell!

              A sto gran nomm, me butti genoggion
              Per adorall de cœur, per ringraziall
              De tanta degnazion...
              — Lù — sclammi — on poetton de quella sort,
              L'onor di Italian,
              Tœuss st'incommed per mì, lassà i sœu mort
              Per vegnì chi in personna
              A parlà cont on tangher de Milan?...
              Ma in dov'ela, sur Tass, quella coronna,
              Che ghe stava inscì ben su quella front? -
              — Ah! Carlo — el me respond,
              Tirand su dai polmon
              On sospiron patetegh e profond -
              Ah! Carlo, la coronna strapazzada
              No la ghè pù per mi... che on tal Manzon,
              On tal Ermes Viscont
              Me l'han tolta del coo, me l'han strasciada.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                A mia madre dalla sua casa

                M'accoglie la tua vecchia, grigia casa
                steso supino sopra un letto angusto,
                forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
                conto le ore lentissime a passare,
                più lente per le nuvole che solcano
                queste notti d'agosto in terre avare.

                Uno che torna a notte alta dai campi
                scambia un cenno a fatica con i simili,
                infila l'erta, il vicolo, scompare
                dietro la porta del tugurio. L'afa
                dello scirocco agita i riposi,
                fa smaniare gli infermi ed i reclusi.

                Non dormo, seguo il passo del nottambulo
                sia demente sia giovane tarato
                mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
                lascio e prendo il mio carico servile
                e scendo, scendo più che già non sia
                profondo in questo tempo, in questo popolo.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Di un Natale metropolitano

                  Un vischio, fin dall'infanzia sospeso grappolo
                  di fede e di pruina sul tuo lavandino
                  e sullo specchio ovale ch'ora adombrano
                  i tuoi ricci bergére fra santini e ritratti
                  di ragazzi infilati un po' alla svelta
                  nella cornice, una caraffa vuota,
                  bicchierini di cenere e di bucce,
                  le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
                  le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
                  non più guerra né pace, il tardo frullo
                  di un piccione incapace di seguirti
                  sui gradini automatici che ti slittano in giù….
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