Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Pioggia

Cantava al buio d'aia in aia il gallo.
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi fra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupìano i rondinotti dell'estate
di quel sottile scendere di spille:
era un brusìo con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
di stille d'oro in coppe di cristallo.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    La Tovaglia

    Le dicevano: - Bambina!
    Che tu non lasci mai stesa,
    dalla sera alla mattina,
    ma porta dove l'hai presa,
    la tovaglia bianca, appena
    ch'è terminata la cena!
    Bada, che vengono i morti!
    I tristi, i pallidi morti!
    Entrano, ansimano muti.
    Ognuno è tanto mai stanco!
    E si fermano seduti
    la notte intorno a quel bianco.
    Stanno lì sino al domani,
    col capo tra le due mani,
    senza che nulla si senta,
    sotto la lampada spenta. -
    È già grande la bambina:
    la casa regge, e lavora:
    fa il bucato e la cucina,
    fa tutto al modo d'allora.
    Pensa a tutto, ma non pensa
    a sparecchiare la mensa.
    Lascia che vengano i morti,
    i buoni, i poveri morti.
    Oh! la notte nera nera,
    di vento, d'acqua, di neve,
    lascia ch'entrino da sera,
    col loro anelito lieve;
    che alla mensa torno torno
    riposino fino a giorno,
    cercando fatti lontani
    col capo tra le due mani.
    Dalla sera alla mattina,
    cercando cose lontane,
    stanno fissi, a fronte china,
    su qualche bricia di pane,
    e volendo ricordare,
    bevono lagrime amare.
    Oh! non ricordano i morti,
    i cari, i cari suoi morti!
    - Pane, sì... pane si chiama,
    che noi spezzammo concordi:
    ricordate?... È tela, a dama:
    ce n'era tanta: ricordi?...
    Queste?... Queste sono due,
    come le vostre e le tue,
    due nostre lagrime amare
    cadute nel ricordare! -.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      We Two Boys Together Clinging

      We two boys together clinging,
      One the other never leaving,
      Up and down the roads going, North and South excursions making,
      Power enjoying, elbows stretching, fingers clutching,
      Arm'd and fearless, eating, drinking, sleeping, loving,
      No law less than ourselves owning, sailing, soldiering, thieving, threatening,
      Misers, menials, priests alarming, air breathing, water drinking,
      on the turf or the sea-beach dancing,
      Cities wrenching, ease scorning, statutes mocking, freebleness chasing,
      Fulfilling our foray.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La neve cade

        La neve cade, la neve cade
        Alle bianche stelline in tempesta
        Si protendono i fiori del geranio
        Dallo stipite della finestra:
        La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
        ogni cosa si lancia in un volo,
        i gradini della nera scala,
        la svolta del crocicchio.
        La neve cade, la neve cade,
        come se non cadessero i fiocchi,
        ma in un mantello rattoppato
        scendesse a terra la volta celeste.
        Come se con l'aspetto di un bislacco
        Dal pianerottolo in cima alle scale,
        di soppiatto, giocando a rimpiattino,
        scendesse il cielo dalla soffitta.
        Perché la vita stringe. Non fai a tempo
        A girarti dattorno, ed è Natale.
        Solo un breve intervallo:
        guardi, ed è l'Anno Nuovo.
        Densa, densissima la neve cade.
        E chi sa che il tempo non trascorra
        Per le stesse orme, nello stesso ritmo,
        con la stessa rapidità o pigrizia,
        tenendo il passo con lei?
        Chi sa che gli anni, l'uno dietro l'altro,
        non si succedano come la neve,
        o come le parole d'un poema?
        La neve cade, la neve cade,
        la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
        il pedone imbiancato,
        le piante sorprese,
        la svolta del crocicchio.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il grillo dei campi e il grillo del focolare

          Mai la terrestre poesia non muore.
          Quando tutti gli uccelli al solleone
          vengono meno e stan nascosti in mezzo
          la frescura degli alberi, una voce
          corre di siepe in siepe intorno al prato
          su cui appena passò rasa la falce:
          è del grillo dei campi, il capintesta
          nel tripudio d'estate, mai godere
          non cessa, perché quando a giuochi è stanco
          posa con agio sotto una grata erba.
          Fine non ha la poesia terrestre.
          D'inverno, in una sera solitaria,
          quando il silenzio è opera del gelo,
          strepe fuor della stufa il suon del grillo
          del focolare che col caldo sempre
          viene crescendo, e a uno che smarrito
          a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto
          par del grillo dei campi ai colli erbosi.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Taci, anima stanca di godere

            Taci, anima stanca di godere
            e di soffrire(all'uno e all'altro vai
            rassegnata)
            Nessuna voce tua odo se ascolto:
            non di rimpianto per la miserabile
            giovinezza, non d'ira o di speranza,
            e neppure di tedio.
            Giaci come
            il corpo, ammutolita, tutta piena
            d'una rassegnazione disperata.
            Non ci stupiremmo,
            non è vero, mia anima, se il cuore
            si fermasse, sospeso se ci fosse
            il fiato...
            Invece camminiamo,
            camminiamo io e te come sonnambuli.
            E gli alberi son alberi, le case
            sono case, le donne
            che passano son donne, e tutto è quello
            che è, soltanto quel che è.
            La vicenda di gioia e di dolore
            non ci tocca. Perduto ha la voce
            la sirena del mondo, e il mondo è un grande
            deserto.
            Nel deserto
            io guardo con asciutti occhi me stesso.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              La verità

              Sino al trono di Dio
              anciò mio cor gli accenti,
              Che in murmure tremendo
              Rispondono i torrenti,
              E dalla ferrea calma
              Delle notti profonde
              Palma battendo a palma
              Ogni morto risponde.

              D'entusïasmo ho l'anima
              Albergo; e sol d'un Nume
              Io son cantor: degli angeli
              L'impenetrabil lume
              Circonda il mio pensiero,
              Ch'erto su lucid'ali,
              Sprezza l'invito altero
              Dè superbi mortali.

              E coronar di laudi
              Dovrò chi turpe e folle
              Splendido sol per l'auro
              Sa l'orgoglio s'estolle?
              Che dir deggio di lui?
              Pria di giustizia il brando
              Sù forti bracci sui
              Vada folgoreggiando;

              E canterò. Nettarea
              Da me non cerchi ei lode,
              Se a lutulenta in braccio
              Sorte tripudia e gode,
              E tra un'immensa schiera
              D'insania al carro avvinto
              scioglie con sua man nera
              A iniquitate il cinto.

              E tu chi sei che il titolo
              Santo d'amico usurpi?
              E vile d'amicizia
              L'aspetto almo deturpi?
              Chi sei tu che m'inviti
              Di gloria a spander raggio
              E a sciòrre inni graditi
              A chi in virtù è selvaggio?

              Non sai che santuario
              Al ver nell'alma alzai
              E che io del vero antistite
              Sempre d'esser giurai?
              Non sai che mercar fama
              Da tal canto non curo,
              E più dolce m'è brama
              Sul ver posarmi oscuro?

              Vero suonò di Davide
              Il pastoral concento,
              E a Dio piacque il veridico
              Suono, e tra cento e cento
              L'unse à popoli ebrei
              Rege di pace, e adorni
              D'illustri eventi e bèi
              Fè dell'uom giusto i giorni.

              E immagine d'obbrobrio
              Vuoi tu farmi, o profano?
              Oh! quell'immonda faccia
              Copriti con la mano
              Lungi da me: chi fia
              Cui faccian forza i detti
              Ch'io l'alta cetra mia
              Di ricca peste infetti!

              Garrir fole non odemi
              L'atrio di adulazione,
              E in questa solitudine
              Dall'aurata prigione
              Fuggo; esecrando il folle
              Che blandisce con mèle
              Il grande; e in sen gli bolle
              Rancor, invidia, e fiele.

              Dunque chi vuol, d'encomio
              Canti impudente intuoni
              Per lo tuo eroe; ch'io cantici
              Fra gli angelici suoni
              Ergo al Solopossente,
              Che dall'empirea sede
              Gl'inni in letizia sente
              Di verità e di fede.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il canto popolare

                Improvviso il mille novecento
                cinquanta due passa sull'Italia:
                solo il popolo ne ha un sentimento
                vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
                la modernità, benché sempre il più
                moderno sia esso, il popolo, spanto
                in borghi, in rioni, con gioventù
                sempre nuove - nuove al vecchio canto -
                a ripetere ingenuo quello che fu.

                Scotta il primo sole dolce dell'anno
                sopra i portici delle cittadine
                di provincia, sui paesi che sanno
                ancora di nevi, sulle appenniniche
                greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
                i nuovi colori delle tele, i nuovi
                vestiti come in limpidi roghi
                dicono quanto oggi si rinnovi
                il mondo, che diverse gioie sfoghi...

                Ah, noi che viviamo in una sola
                generazione ogni generazione
                vissuta qui, in queste terre ora
                umiliate, non abbiamo nozione
                vera di chi è partecipe alla storia
                solo per orale, magica esperienza;
                e vive puro, non oltre la memoria
                della generazione in cui presenza
                della vita è la sua vita perentoria.

                Nella vita che è vita perché assunta
                nella nostra ragione e costruita
                per il nostro passaggio - e ora giunta
                a essere altra, oltre il nostro accanito
                difenderla - aspetta - cantando supino,
                accampato nei nostri quartieri
                a lui sconosciuti, e pronto fino
                dalle più fresche e inanimate ère -
                il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

                E se ci rivolgiamo a quel passato
                ch'è nostro privilegio, altre fiumane
                di popolo ecco cantare: recuperato
                è il nostro moto fin dalle cristiane
                origini, ma resta indietro, immobile,
                quel canto. Si ripete uguale.
                Nelle sere non più torce ma globi
                di luce, e la periferia non pare
                altra, non altri i ragazzi nuovi...

                Tra gli orti cupi, al pigro solicello
                Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
                d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
                di Toscana, con strilli di rondinini:
                Hor atorno fratt Helya! La santa
                violenza sui rozzi cuori il clero
                calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
                feroce nel feudo provinciale l'Impero
                da Iddio imposto: e il popolo canta.

                Un grande concerto di scalpelli
                sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
                sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
                suona, giganteggiando il travertino
                nel nuovo spazio in cui s'affranca
                l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
                jersera... ripete con l'anima spanta
                nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
                resta nel popolo. E il popolo canta.

                Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
                e trepidi nel vento napoleonico,
                all'Inno dell'Albero della Libertà,
                tremano i nuovi colori delle nazioni.
                Ma, cane affamato, difende il bracciante
                i suoi padroni, ne canta la ferocia,
                Guagliune 'e mala vita! In branchi
                feroci. La libertà non ha voce
                per il popolo cane. E il popolo canta.

                Ragazzo del popolo che canti,
                qui a Rebibbia sulla misera riva
                dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
                è vero, cantando, l'antica, la festiva
                leggerezza dei semplici. Ma quale
                dura certezza tu sollevi insieme
                d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
                tuguri e grattacieli, allegro seme
                in cuore al triste mondo popolare.

                Nella tua incoscienza è la coscienza
                che in te la storia vuole, questa storia
                il cui Uomo non ha più che la violenza
                delle memorie, non la libera memoria...
                E ormai, forse, altra scelta non ha
                che dare alla sua ansia di giustizia
                la forza della tua felicità,
                e alla luce di un tempo che inizia
                la luce di chi è ciò che non sa.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Patria

                  Sogno d'un dì d'estate.
                  Quanto scampanellare
                  tremulo di cicale!
                  Stridule pel filare
                  moveva il maestrale
                  le foglie accartocciate.
                  Scendea tra gli olmi il sole
                  in fascie polverose;
                  erano in ciel due sole
                  nuvole, tenui, róse:
                  due bianche spennellate
                  in tutto il ciel turchino.
                  Siepi di melograno,
                  fratte di tamerice,
                  il palpito lontano
                  d'una trebbiatrice,
                  l'angelus argentino...
                  dov'ero? Le campane
                  mi dissero dov'ero,
                  piangendo, mentre un cane
                  latrava al forestiero,
                  che andava a capo chino.
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