Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Le ricordanze

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    La sera del dì di festa

    Dolce e chiara è la notte e senza vento,
    E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
    Posa la luna, e di lontan rivela
    Serena ogni montagna. O donna mia,
    Già tace ogni sentiero, e pei balconi
    Rara traluce la notturna lampa:
    Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
    Nelle tue chete stanze; e non ti morde
    Cura nessuna; e già non sai né pensi
    Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
    Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
    Appare in vista, a salutar m'affaccio,
    E l'antica natura onnipossente,
    Che mi fece all'affanno. A te la speme
    Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
    Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
    Questo dì fu solenne: or dà trastulli
    Prendi riposo; e forse ti rimembra
    In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
    Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
    Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
    Quanto a viver mi resti, e qui per terra
    Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
    In così verde etate! Ahi, per la via
    Odo non lunge il solitario canto
    Dell'artigian, che riede a tarda notte,
    Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
    E fieramente mi si stringe il core,
    A pensar come tutto al mondo passa,
    E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
    Il dì festivo, ed al festivo il giorno
    Volgar succede, e se ne porta il tempo
    Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
    Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
    Dè nostri avi famosi, e il grande impero
    Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
    Che n'andò per la terra e l'oceano?
    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
    Il mondo, e più di lor non si ragiona.
    Nella mia prima età, quando s'aspetta
    Bramosamente il dì festivo, or poscia
    Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
    Premea le piume; ed alla tarda notte
    Un canto che s'udia per li sentieri
    Lontanando morire a poco a poco,
    Già similmente mi stringeva il core.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      L'ultimo canto di Saffo

      Placida notte, e verecondo raggio
      Della cadente luna; e tu che spunti
      Fra la tacita selva in su la rupe,
      Nunzio del giorno; oh dilettose e care
      Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
      Sembianze agli occhi miei; già non arride
      Spettacol molle ai disperati affetti.
      Noi l'insueto allor gaudio ravviva
      Quando per l'etra liquido si volve
      E per li campi trepidanti il flutto
      Polveroso dè Noti, e quando il carro,
      Grave carro di Giove a noi sul capo,
      Tonando, il tenebroso aere divide.
      Noi per le balze e le profonde valli
      Natar giova trà nembi, e noi la vasta
      Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
      Fiume alla dubbia sponda
      Il suono e la vittrice ira dell'onda.
      Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
      Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
      Infinita beltà parte nessuna
      Alla misera Saffo i numi e l'empia
      Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
      Vile, o natura, e grave ospite addetta,
      E dispregiata amante, alle vezzose
      Tue forme il core e le pupille invano
      Supplichevole intendo. A me non ride
      L'aprico margo, e dall'eterea porta
      Il mattutino albor; me non il canto
      Dè colorati augelli, e non dè faggi
      Il murmure saluta: e dove all'ombra
      Degl'inchinati salici dispiega
      Candido rivo il puro seno, al mio
      Lubrico piè le flessuose linfe
      Disdegnando sottragge,
      E preme in fuga l'odorate spiagge.
      Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
      Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
      Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
      In che peccai bambina, allor che ignara
      Di misfatto è la vita, onde poi scemo
      Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
      Dell'indomita Parca si volvesse
      Il ferrigno mio stame? Incaute voci
      Spande il tuo labbro: i destinati eventi
      Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
      Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
      Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
      Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
      Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
      Alle amene sembianze eterno regno
      Diè nelle genti; e per virili imprese,
      Per dotta lira o canto,
      Virtù non luce in disadorno ammanto.
      Morremo. Il velo indegno a terra sparto
      Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
      E il crudo fallo emenderà del cieco
      Dispensator dè casi. E tu cui lungo
      Amore indarno, e lunga fede, e vano
      D'implacato desio furor mi strinse,
      Vivi felice, se felice in terra
      Visse nato mortal. Me non asperse
      Del soave licor del doglio avaro
      Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
      Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
      Giorno di nostra età primo s'invola.
      Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
      Della gelida morte. Ecco di tante
      Sperate palme e dilettosi errori,
      Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
      Han la tenaria Diva,
      E l'atra notte, e la silente riva.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

        Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
        Silenziosa luna?
        Sorgi la sera, e vai,
        Contemplando i deserti; indi ti posi.
        Ancor non sei tu paga
        Di riandare i sempiterni calli?
        Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
        Di mirar queste valli?
        Somiglia alla tua vita
        La vita del pastore.
        Sorge in sul primo albore;
        Move la greggia oltre pel campo, e vede
        Greggi, fontane ed erbe;
        Poi stanco si riposa in su la sera:
        Altro mai non ispera.
        Dimmi, o luna: a che vale
        Al pastor la sua vita,
        La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
        Questo vagar mio breve,
        Il tuo corso immortale?
        Vecchierel bianco, infermo,
        Mezzo vestito e scalzo,
        Con gravissimo fascio in su le spalle,
        Per montagna e per valle,
        Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
        Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
        L'ora, e quando poi gela,
        Corre via, corre, anela,
        Varca torrenti e stagni,
        Cade, risorge, e più e più s'affretta,
        Senza posa o ristoro,
        Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
        Colà dove la via
        E dove il tanto affaticar fu volto:
        Abisso orrido, immenso,
        Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
        Vergine luna, tale
        È la vita mortale.
        Nasce l'uomo a fatica,
        Ed è rischio di morte il nascimento.
        Prova pena e tormento
        Per prima cosa; e in sul principio stesso
        La madre e il genitore
        Il prende a consolar dell'esser nato.
        Poi che crescendo viene,
        L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
        Con atti e con parole
        Studiasi fargli core,
        E consolarlo dell'umano stato:
        Altro ufficio più grato
        Non si fa da parenti alla lor prole.
        Ma perché dare al sole,
        Perché reggere in vita
        Chi poi di quella consolar convenga?
        Se la vita è sventura
        Perché da noi si dura?
        Intatta luna, tale
        È lo stato mortale.
        Ma tu mortal non sei,
        E forse del mio dir poco ti cale.
        Pur tu, solinga, eterna peregrina,
        Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
        Questo viver terreno,
        Il patir nostro, il sospirar, che sia;
        Che sia questo morir, questo supremo
        Scolorar del sembiante,
        E perir dalla terra, e venir meno
        Ad ogni usata, amante compagnia.
        E tu certo comprendi
        Il perché delle cose, e vedi il frutto
        Del mattin, della sera,
        Del tacito, infinito andar del tempo.
        Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
        Rida la primavera,
        A chi giovi l'ardore, e che procacci
        Il verno cò suoi ghiacci.
        Mille cose sai tu, mille discopri,
        Che son celate al semplice pastore.
        Spesso quand'io ti miro
        Star così muta in sul deserto piano,
        Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
        Ovver con la mia greggia
        Seguirmi viaggiando a mano a mano;
        E quando miro in cielo arder le stelle;
        Dico fra me pensando:
        A che tante facelle?
        Che fa l'aria infinita, e quel profondo
        Infinito seren? Che vuol dir questa
        Solitudine immensa? Ed io che sono?
        Così meco ragiono: e della stanza
        Smisurata e superba,
        E dell'innumerabile famiglia;
        Poi di tanto adoprar, di tanti moti
        D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
        Girando senza posa,
        Per tornar sempre là donde son mosse;
        Uso alcuno, alcun frutto
        Indovinar non so. Ma tu per certo,
        Giovinetta immortal, conosci il tutto.
        Questo io conosco e sento,
        Che degli eterni giri,
        Che dell'esser mio frale,
        Qualche bene o contento
        Avrà fors'altri; a me la vita è male.
        O greggia mia che posi, oh te beata,
        Che la miseria tua, credo, non sai!
        Quanta invidia ti porto!
        Non sol perché d'affanno
        Quasi libera vai;
        Ch'ogni stento, ogni danno,
        Ogni estremo timor subito scordi;
        Ma più perché giammai tedio non provi.
        Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
        Tu sè queta e contenta;
        E gran parte dell'anno
        Senza noia consumi in quello stato.
        Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
        E un fastidio m'ingombra
        La mente, ed uno spron quasi mi punge
        Sì che, sedendo, più che mai son lunge
        Da trovar pace o loco.
        E pur nulla non bramo,
        E non ho fino a qui cagion di pianto.
        Quel che tu goda o quanto,
        Non so già dir; ma fortunata sei.
        Ed io godo ancor poco,
        O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
        Se tu parlar sapessi, io chiederei:
        Dimmi: perché giacendo
        A bell'agio, ozioso,
        S'appaga ogni animale;
        Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
        Forse s'avess'io l'ale
        Da volar su le nubi,
        E noverar le stelle ad una ad una,
        O come il tuono errar di giogo in giogo,
        Più felice sarei, dolce mia greggia,
        Più felice sarei, candida luna.
        O forse erra dal vero,
        Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
        Forse in qual forma, in quale
        Stato che sia, dentro covile o cuna,
        È funesto a chi nasce il dì natale.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          La vita solitaria

          La mattutina pioggia, allor che l'ale
          Battendo esulta nella chiusa stanza
          La gallinella, ed al balcon s'affaccia
          L'abitator dè campi, e il Sol che nasce
          I suoi tremuli rai fra le cadenti
          Stille saetta, alla capanna mia
          Dolcemente picchiando, mi risveglia;
          E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
          Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
          E le ridenti piagge benedico:
          Poiché voi, cittadine infauste mura,
          Vidi e conobbi assai, là dove segue
          Odio al dolor compagno; e doloroso
          Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
          Benché scarsa pietà pur mi dimostra
          Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
          Verso me più cortese! E tu pur volgi
          Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
          Le sciagure e gli affanni, alla reina
          Felicità servi, o natura. In cielo,
          In terra amico agl'infelici alcuno
          E rifugio non resta altro che il ferro.
          Talor m'assido in solitaria parte,
          Sovra un rialto, al margine d'un lago
          Di taciturne piante incoronato.
          Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
          La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
          Ed erba o foglia non si crolla al vento,
          E non onda incresparsi, e non cicala
          Strider, né batter penna augello in ramo,
          Né farfalla ronzar, né voce o moto
          Da presso né da lunge odi né vedi.
          Tien quelle rive altissima quiete;
          Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
          Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
          Giaccian le membra mie, né spirto o senso
          Più le commova, e lor quiete antica
          Cò silenzi del loco si confonda.
          Amore, amore, assai lungi volasti
          Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
          Anzi rovente. Con sua fredda mano
          Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
          Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
          Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
          E irrevocabil tempo, allor che s'apre
          Al guardo giovanil questa infelice
          Scena del mondo, e gli sorride in vista
          Di paradiso. Al garzoncello il core
          Di vergine speranza e di desio
          Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
          Di questa vita come a danza o gioco
          Il misero mortal. Ma non sì tosto,
          Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
          Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
          Non altro convenia che il pianger sempre.
          Pur se talvolta per le piagge apriche,
          Su la tacita aurora o quando al sole
          Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
          Scontro di vaga donzelletta il viso;
          O qualor nella placida quiete
          D'estiva notte, il vagabondo passo
          Di rincontro alle ville soffermando,
          L'erma terra contemplo, e di fanciulla
          Che all'opre di sua man la notte aggiunge
          Odo sonar nelle romite stanze
          L'arguto canto; a palpitar si move
          Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
          Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
          Ogni moto soave al petto mio.
          O cara luna, al cui tranquillo raggio
          Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
          Alla mattina il cacciator, che trova
          L'orme intricate e false, e dai covili
          Error vario lo svia; salve, o benigna
          Delle notti reina. Infesto scende
          Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
          A deserti edifici, in su l'acciaro
          Del pallido ladron ch'a teso orecchio
          Il fragor delle rote e dè cavalli
          Da lungi osserva o il calpestio dè piedi
          Su la tacita via; poscia improvviso
          Col suon dell'armi e con la rauca voce
          E col funereo ceffo il core agghiaccia
          Al passegger, cui semivivo e nudo
          Lascia in breve trà sassi. Infesto occorre
          Per le contrade cittadine il bianco
          Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
          Va radendo le mura e la secreta
          Ombra seguendo, e resta, e si spaura
          Delle ardenti lucerne e degli aperti
          Balconi. Infesto alle malvage menti,
          A me sempre benigno il tuo cospetto
          Sarà per queste piagge, ove non altro
          Che lieti colli e spaziosi campi
          M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
          Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
          Raggio accusar negli abitati lochi,
          Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
          Scopriva umani aspetti al guardo mio.
          Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
          Veleggiar tra le nubi, o che serena
          Dominatrice dell'etereo campo,
          Questa flebil riguardi umana sede.
          Me spesso rivedrai solingo e muto
          Errar pè boschi e per le verdi rive,
          O seder sovra l'erbe, assai contento
          Se core e lena a sospirar m'avanza.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            La ginestra

            Qui su l'arida schiena
            Del formidabil monte
            Sterminator Vesevo,
            La qual null'altro allegra arbor né fiore,
            Tuoi cespi solitari intorno spargi,
            Odorata ginestra,
            Contenta dei deserti. Anco ti vidi
            Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
            Che cingon la cittade
            La qual fu donna dè mortali un tempo,
            E del perduto impero
            Par che col grave e taciturno aspetto
            Faccian fede e ricordo al passeggero.
            Or ti riveggo in questo suol, di tristi
            Lochi e dal mondo abbandonati amante,
            E d'afflitte fortune ognor compagna.
            Questi campi cosparsi
            Di ceneri infeconde, e ricoperti
            Dell'impietrata lava,
            Che sotto i passi al peregrin risona;
            Dove s'annida e si contorce al sole
            La serpe, e dove al noto
            Cavernoso covil torna il coniglio;
            Fur liete ville e colti,
            E biondeggiàr di spiche, e risonaro
            Di muggito d'armenti;
            Fur giardini e palagi,
            Agli ozi dè potenti
            Gradito ospizio; e fur città famose
            Che coi torrenti suoi l'altero monte
            Dall'ignea bocca fulminando oppresse
            Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
            Una ruina involve,
            Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
            I danni altrui commiserando, al cielo
            Di dolcissimo odor mandi un profumo,
            Che il deserto consola. A queste piagge
            Venga colui che d'esaltar con lode
            Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
            È il gener nostro in cura
            All'amante natura. E la possanza
            Qui con giusta misura
            Anco estimar potrà dell'uman seme,
            Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
            Con lieve moto in un momento annulla
            In parte, e può con moti
            Poco men lievi ancor subitamente
            Annichilare in tutto.
            Dipinte in queste rive
            Son dell'umana gente
            Le magnifiche sorti e progressive .
            Qui mira e qui ti specchia,
            Secol superbo e sciocco,
            Che il calle insino allora
            Dal risorto pensier segnato innanti
            Abbandonasti, e volti addietro i passi,
            Del ritornar ti vanti,
            E procedere il chiami.
            Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
            Di cui lor sorte rea padre ti fece,
            Vanno adulando, ancora
            Ch'a ludibrio talora
            T'abbian fra sé. Non io
            Con tal vergogna scenderò sotterra;
            Ma il disprezzo piuttosto che si serra
            Di te nel petto mio,
            Mostrato avrò quanto si possa aperto:
            Ben ch'io sappia che obblio
            Preme chi troppo all'età propria increbbe.
            Di questo mal, che teco
            Mi fia comune, assai finor mi rido.
            Libertà vai sognando, e servo a un tempo
            Vuoi di novo il pensiero,
            Sol per cui risorgemmo
            Della barbarie in parte, e per cui solo
            Si cresce in civiltà, che sola in meglio
            Guida i pubblici fati.
            Così ti spiacque il vero
            Dell'aspra sorte e del depresso loco
            Che natura ci diè. Per questo il tergo
            Vigliaccamente rivolgesti al lume
            Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
            Vil chi lui segue, e solo
            Magnanimo colui
            Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
            Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
            Uom di povero stato e membra inferme
            Che sia dell'alma generoso ed alto,
            Non chiama sé né stima
            Ricco d'or né gagliardo,
            E di splendida vita o di valente
            Persona infra la gente
            Non fa risibil mostra;
            Ma sé di forza e di tesor mendico
            Lascia parer senza vergogna, e noma
            Parlando, apertamente, e di sue cose
            Fa stima al vero uguale.
            Magnanimo animale
            Non credo io già, ma stolto,
            Quel che nato a perir, nutrito in pene,
            Dice, a goder son fatto,
            E di fetido orgoglio
            Empie le carte, eccelsi fati e nove
            Felicità, quali il ciel tutto ignora,
            Non pur quest'orbe, promettendo in terra
            A popoli che un'onda
            Di mar commosso, un fiato
            D'aura maligna, un sotterraneo crollo
            Distrugge sì, che avanza
            A gran pena di lor la rimembranza.
            Nobil natura è quella
            Che a sollevar s'ardisce
            Gli occhi mortali incontra
            Al comun fato, e che con franca lingua,
            Nulla al ver detraendo,
            Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
            E il basso stato e frale;
            Quella che grande e forte
            Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
            Fraterne, ancor più gravi
            D'ogni altro danno, accresce
            Alle miserie sue, l'uomo incolpando
            Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
            Che veramente è rea, che dè mortali
            Madre è di parto e di voler matrigna.
            Costei chiama inimica; e incontro a questa
            Congiunta esser pensando,
            Siccome è il vero, ed ordinata in pria
            L'umana compagnia,
            Tutti fra sé confederati estima
            Gli uomini, e tutti abbraccia
            Con vero amor, porgendo
            Valida e pronta ed aspettando aita
            Negli alterni perigli e nelle angosce
            Della guerra comune. Ed alle offese
            Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
            Al vicino ed inciampo,
            Stolto crede così qual fora in campo
            Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
            Incalzar degli assalti,
            Gl'inimici obbliando, acerbe gare
            Imprender con gli amici,
            E sparger fuga e fulminar col brando
            Infra i propri guerrieri.
            Così fatti pensieri
            Quando fien, come fur, palesi al volgo,
            E quell'orror che primo
            Contra l'empia natura
            Strinse i mortali in social catena,
            Fia ricondotto in parte
            Da verace saper, l'onesto e il retto
            Conversar cittadino,
            E giustizia e pietade, altra radice
            Avranno allor che non superbe fole,
            Ove fondata probità del volgo
            Così star suole in piede
            Quale star può quel ch'ha in error la sede.
            Sovente in queste rive,
            Che, desolate, a bruno
            Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
            Seggo la notte; e su la mesta landa
            In purissimo azzurro
            Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
            Cui di lontan fa specchio
            Il mare, e tutto di scintille in giro
            Per lo vòto seren brillare il mondo.
            E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
            Ch'a lor sembrano un punto,
            E sono immense, in guisa
            Che un punto a petto a lor son terra e mare
            Veracemente; a cui
            L'uomo non pur, ma questo
            Globo ove l'uomo è nulla,
            Sconosciuto è del tutto; e quando miro
            Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
            Nodi quasi di stelle,
            Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
            E non la terra sol, ma tutte in uno,
            Del numero infinite e della mole,
            Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
            O sono ignote, o così paion come
            Essi alla terra, un punto
            Di luce nebulosa; al pensier mio
            Che sembri allora, o prole
            Dell'uomo? E rimembrando
            Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
            Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
            Che te signora e fine
            Credi tu data al Tutto, e quante volte
            Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
            Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
            Per tua cagion, dell'universe cose
            Scender gli autori, e conversar sovente
            Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
            Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
            Fin la presente età, che in conoscenza
            Ed in civil costume
            Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
            Mortal prole infelice, o qual pensiero
            Verso te finalmente il cor m'assale?
            Non so se il riso o la pietà prevale.
            Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
            Cui là nel tardo autunno
            Maturità senz'altra forza atterra,
            D'un popol di formiche i dolci alberghi,
            Cavati in molle gleba
            Con gran lavoro, e l'opre
            E le ricchezze che adunate a prova
            Con lungo affaticar l'assidua gente
            Avea provvidamente al tempo estivo,
            Schiaccia, diserta e copre
            In un punto; così d'alto piombando,
            Dall'utero tonante
            Scagliata al ciel profondo,
            Di ceneri e di pomici e di sassi
            Notte e ruina, infusa
            Di bollenti ruscelli
            O pel montano fianco
            Furiosa tra l'erba
            Di liquefatti massi
            E di metalli e d'infocata arena
            Scendendo immensa piena,
            Le cittadi che il mar là su l'estremo
            Lido aspergea, confuse
            E infranse e ricoperse
            In pochi istanti: onde su quelle or pasce
            La capra, e città nove
            Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
            Son le sepolte, e le prostrate mura
            L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
            Non ha natura al seme
            Dell'uom più stima o cura
            Che alla formica: e se più rara in quello
            Che nell'altra è la strage,
            Non avvien ciò d'altronde
            Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
            Ben mille ed ottocento
            Anni varcàr poi che spariro, oppressi
            Dall'ignea forza, i popolati seggi,
            E il villanello intento
            Ai vigneti, che a stento in questi campi
            Nutre la morta zolla e incenerita,
            Ancor leva lo sguardo
            Sospettoso alla vetta
            Fatal, che nulla mai fatta più mite
            Ancor siede tremenda, ancor minaccia
            A lui strage ed ai figli ed agli averi
            Lor poverelli. E spesso
            Il meschino in sul tetto
            Dell'ostel villereccio, alla vagante
            Aura giacendo tutta notte insonne,
            E balzando più volte, esplora il corso
            Del temuto bollor, che si riversa
            Dall'inesausto grembo
            Su l'arenoso dorso, a cui riluce
            Di Capri la marina
            E di Napoli il porto e Mergellina.
            E se appressar lo vede, o se nel cupo
            Del domestico pozzo ode mai l'acqua
            Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
            Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
            Di lor cose rapir posson, fuggendo,
            Vede lontan l'usato
            Suo nido, e il picciol campo,
            Che gli fu dalla fame unico schermo,
            Preda al flutto rovente,
            Che crepitando giunge, e inesorato
            Durabilmente sovra quei si spiega.
            Torna al celeste raggio
            Dopo l'antica obblivion l'estinta
            Pompei, come sepolto
            Scheletro, cui di terra
            Avarizia o pietà rende all'aperto;
            E dal deserto foro
            Diritto infra le file
            Dei mozzi colonnati il peregrino
            Lunge contempla il bipartito giogo
            E la cresta fumante,
            Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
            E nell'orror della secreta notte
            Per li vacui teatri,
            Per li templi deformi e per le rotte
            Case, ove i parti il pipistrello asconde,
            Come sinistra face
            Che per vòti palagi atra s'aggiri,
            Corre il baglior della funerea lava,
            Che di lontan per l'ombre
            Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
            Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
            Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
            Dopo gli avi i nepoti,
            Sta natura ognor verde, anzi procede
            Per sì lungo cammino
            Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
            Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
            E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
            E tu, lenta ginestra,
            Che di selve odorate
            Queste campagne dispogliate adorni,
            Anche tu presto alla crudel possanza
            Soccomberai del sotterraneo foco,
            Che ritornando al loco
            Già noto, stenderà l'avaro lembo
            Su tue molli foreste. E piegherai
            Sotto il fascio mortal non renitente
            Il tuo capo innocente:
            Ma non piegato insino allora indarno
            Codardamente supplicando innanzi
            Al futuro oppressor; ma non eretto
            Con forsennato orgoglio inver le stelle,
            Né sul deserto, dove
            E la sede e i natali
            Non per voler ma per fortuna avesti;
            Ma più saggia, ma tanto
            Meno inferma dell'uom, quanto le frali
            Tue stirpi non credesti
            O dal fato o da te fatte immortali.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Alla primavera

              Perché i celesti danni
              Ristori il sole, e perché l'aure inferme
              Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
              Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
              Credano il petto inerme
              Gli augelli al vento, e la diurna luce
              Novo d'amor desio, nova speranza
              Nè penetrati boschi e fra le sciolte
              Pruine induca alle commosse belve;
              Forse alle stanche e nel dolor sepolte
              Umane menti riede
              La bella età, cui la sciagura e l'atra
              Face del ver consunse
              Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
              Di febo i raggi al misero non sono
              In sempiterno? Ed anco,
              Primavera odorata, inspiri e tenti
              Questo gelido cor, questo ch'amara
              Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
              Vivi tu, vivi, o santa
              Natura? Vivi e il dissueto orecchio
              Della materna voce il suono accoglie?
              Già di candide ninfe i rivi albergo,
              Placido albergo e specchio
              Furo i liquidi fonti. Arcane danze
              D'immortal piede i ruinosi gioghi
              Scossero e l'ardue selve (oggi romito
              Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
              Meridiane incerte ed al fiorito
              Margo adducea dè fiumi
              Le sitibonde agnelle, arguto carme
              Sonar d'agresti Pani
              Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
              Vide, e stupì, che non palese al guardo
              La faretrata Diva
              Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
              Polve tergea della sanguigna caccia
              Il niveo lato e le verginee braccia.
              Vissero i fiori e l'erbe,
              Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
              Aure, le nubi e la titania lampa
              Fur dell'umana gente, allor che ignuda
              Te per le piagge e i colli,
              Ciprigna luce, alla deserta notte
              Con gli occhi intenti il viator seguendo,
              Te compagna alla via, te dè mortali
              Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
              Cittadini consorzi e le fatali
              Ire fuggendo e l'onte,
              Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
              Selve remoto accolse,
              Viva fiamma agitar l'esangui vene,
              Spirar le foglie, e palpitar segreta
              Nel doloroso amplesso.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                La quiete dopo la tempesta

                Passata è la tempesta:
                Odo augelli far festa, e la gallina,
                Tornata in su la via,
                Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
                Rompe là da ponente, alla montagna;
                Sgombrasi la campagna,
                E chiaro nella valle il fiume appare.
                Ogni cor si rallegra, in ogni lato
                Risorge il romorio
                Torna il lavoro usato.
                L'artigiano a mirar l'umido cielo,
                Con l'opra in man, cantando,
                Fassi in su l'uscio; a prova
                Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
                Della novella piova;
                E l'erbaiuol rinnova
                Di sentiero in sentiero
                Il grido giornaliero.
                Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
                Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
                Apre terrazzi e logge la famiglia:
                E, dalla via corrente, odi lontano
                Tintinnio di sonagli; il carro stride
                Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
                Si rallegra ogni core.
                Sì dolce, sì gradita
                Quand'è, com'or, la vita?
                Quando con tanto amore
                L'uomo à suoi studi intende?
                O torna all'opre? O cosa nova imprende?
                Quando dè mali suoi men si ricorda?
                Piacer figlio d'affanno;
                Gioia vana, ch'è frutto
                Del passato timore, onde si scosse
                E paventò la morte
                Chi la vita abborria;
                Onde in lungo tormento,
                Fredde, tacite, smorte,
                Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
                Mossi alle nostre offese
                Folgori, nembi e vento.
                O natura cortese,
                Son questi i doni tuoi,
                Questi i diletti sono
                Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
                È diletto fra noi.
                Pene tu spargi a larga mano; il duolo
                Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
                Che per mostro e miracolo talvolta
                Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
                Prole cara agli eterni! Assai felice
                Se respirar ti lice
                D'alcun dolor: beata
                Se te d'ogni dolor morte risana.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  Il sabato del villaggio

                  La donzelletta vien dalla campagna,
                  In sul calar del sole,
                  Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
                  Un mazzolin di rose e di viole,
                  Onde, siccome suole,
                  Ornare ella si appresta
                  Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
                  Siede con le vicine
                  Su la scala a filar la vecchierella,
                  Incontro là dove si perde il giorno;
                  E novellando vien del suo buon tempo,
                  Quando ai dì della festa ella si ornava,
                  Ed ancor sana e snella
                  Solea danzar la sera intra di quei
                  Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
                  Già tutta l'aria imbruna,
                  Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
                  Giù dà colli e dà tetti,
                  Al biancheggiar della recente luna.
                  Or la squilla dà segno
                  Della festa che viene;
                  Ed a quel suon diresti
                  Che il cor si riconforta.
                  I fanciulli gridando
                  Su la piazzuola in frotta,
                  E qua e là saltando,
                  Fanno un lieto romore:
                  E intanto riede alla sua parca mensa,
                  Fischiando, il zappatore,
                  E seco pensa al dì del suo riposo.
                  Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
                  E tutto l'altro tace,
                  Odi il martel picchiare, odi la sega
                  Del legnaiuol, che veglia
                  Nella chiusa bottega alla lucerna,
                  E s'affretta, e s'adopra
                  Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
                  Questo di sette è il più gradito giorno,
                  Pien di speme e di gioia:
                  Diman tristezza e noia
                  Recheran l'ore, ed al travaglio usato
                  Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
                  Garzoncello scherzoso,
                  Cotesta età fiorita
                  È come un giorno d'allegrezza pieno,
                  Giorno chiaro, sereno,
                  Che precorre alla festa di tua vita.
                  Godi, fanciullo mio; stato soave,
                  Stagion lieta è cotesta.
                  Altro dirti non vò; ma la tua festa
                  Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)

                    Alla sua donna

                    Cara beltà che amore
                    Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
                    Fuor se nel sonno il core
                    Ombra diva mi scuoti,
                    O nè campi ove splenda
                    Più vago il giorno e di natura il riso;
                    Forse tu l'innocente
                    Secol beasti che dall'oro ha nome,
                    Or leve intra la gente
                    Anima voli? O te la sorte avara
                    Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
                    Viva mirarti omai
                    Nulla spene m'avanza;
                    S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
                    Per novo calle a peregrina stanza
                    Verrà lo spirto mio. Già sul novello
                    Aprir di mia giornata incerta e bruna,
                    Te viatrice in questo arido suolo
                    Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
                    Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
                    Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
                    Saria, così conforme, assai men bella.
                    Fra cotanto dolore
                    Quanto all'umana età propose il fato,
                    Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
                    Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
                    Questo viver beato:
                    E ben chiaro vegg'io siccome ancora
                    Seguir loda e virtù qual nè prim'anni
                    L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
                    Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
                    E teco la mortal vita saria
                    Simile a quella che nel cielo india.
                    Per le valli, ove suona
                    Del faticoso agricoltore il canto,
                    Ed io seggo e mi lagno
                    Del giovanile error che m'abbandona;
                    E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
                    I perduti desiri, e la perduta
                    Speme dè giorni miei; di te pensando,
                    A palpitar mi sveglio. E potess'io,
                    Nel secol tetro e in questo aer nefando,
                    L'alta specie serbar; che dell'imago,
                    Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
                    Se dell'eterne idee
                    L'una sei tu, cui di sensibil forma
                    Sdegni l'eterno senno esser vestita,
                    E fra caduche spoglie
                    Provar gli affanni di funerea vita;
                    O s'altra terra nè superni giri
                    Frà mondi innumerabili t'accoglie,
                    E più vaga del Sol prossima stella
                    T'irraggia, e più benigno etere spiri;
                    Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
                    Questo d'ignoto amante inno ricevi.
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