Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il comune rustico

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero
Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtú
Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
- Ecco, io parto fra voi quella foresta
D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. -
Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la madre alma dè cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
- Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia. -
A man levata il popol dicea, Sí.
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodí.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    La madre

    Lei certo l'alba che affretta rosea
    al campo ancora grigio gli agricoli
    mirava scalza co 'l piè ratto
    passar tra i roridi odor del fieno.

    Curva su i biondi solchi i larghi omeri
    udivan gli olmi bianchi di polvere
    lei stornellante su 'l meriggio
    sfidar le rauche cicale a i poggi.

    E quando alzava da l'opra il turgido
    petto e la bruna faccia ed i riccioli
    fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
    coloraro ignei le balde forme.

    Or forte madre palleggia il pargolo
    forte; da i nudi seni già sazio
    palleggialo alto, e ciancia dolce
    con lui che à lucidi occhi materni

    intende gli occhi fissi ed il piccolo
    corpo tremante d'inquïetudine
    e le cercanti dita: ride
    la madre e slanciasi tutta amore.

    A lei d'intorno ride il domestico
    lavor, le biade tremule accennano
    dal colle verde, il büe mugghia,
    su l'aia il florido gallo canta.

    Natura a i forti che per lei spregiano
    le care a i vulghi larve di gloria
    cosí di sante visïoni
    conforta l'anime, o Adrïano:

    onde tu al marmo, severo artefice,
    consegni un'alta speme de i secoli.
    Quando il lavoro sarà lieto?
    Quando securo sarà l'amore?

    Quando una forte plebe di liberi
    dirà guardando nel sole - Illumina
    non ozi e guerre a i tiranni,
    ma la giustizia pia del lavoro?
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      L'annuale della fondazione di Roma

      Te redimito di fior purpurei
      april te vide su 'l colle emergere
      da 'l solco di Romolo torva
      riguardante su i selvaggi piani:
      te dopo tanta forza di secoli
      aprile irraggia, sublime, massima,
      e il sole e l'Italia saluta
      te, Flora di nostra gente, o Roma.
      Se al Campidoglio non più la vergine
      tacita sale dietro il pontefice
      né più per Via Sacra il trionfo
      piega i quattro candidi cavalli,
      questa del Fòro tua solitudine
      ogni rumore vince, ogni gloria;
      e tutto che al mondo è civile,
      grande, augusto, egli è romano ancora.
      Salve, dea Roma! Chi disconósceti
      cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
      e a lui nel reo cuore germoglia
      torpida la selva di barbarie.
      Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
      del Fòro, io seguo con dolci lacrime
      e adoro i tuoi sparsi vestigi,
      patria, diva, santa genitrice.
      Son cittadino per te d'Italia,
      per te poeta, madre de i popoli,
      che desti il tuo spirito al mondo,
      che Italia improntasti di tua gloria.
      Ecco, a te questa, che tu di libere
      genti facesti nome uno, Italia,
      ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
      affisa nè tuoi d'aquila occhi.
      E tu dal colle fatal pe 'l tacito
      Fòro le braccia porgi marmoree,
      a la figlia liberatrice
      additando le colonne e gli archi:
      gli archi che nuovi trionfi aspettano
      non più di regi, non più di cesari,
      e non di catene attorcenti
      braccia umane su gli eburnei carri;
      ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
      su l'età nera, su l'età barbara,
      su i mostri onde tu con serena
      giustizia farai franche le genti.
      O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
      tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
      di gloria, di gloria, di gloria
      correran per l'infinito azzurro.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Pianto antico

        L'albero a cui tendevi
        la pargoletta mano,
        il verde melograno
        Da' bei vermigli fiori
        Nel muto orto solingo
        Rinverdì tutto or ora,
        E giugno lo ristora
        Di luce e di calor.
        Tu fior de la mia pianta
        Percossa e inaridita,
        Tu de l'inutil vita
        Estremo unico fior,
        Sei ne la terra fredda,
        Sei ne la terra negra;
        Né il sol piú ti rallegra
        Né ti risveglia amor.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
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          Preludio

          Odio l'usata poesia: concede
          comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
          palpiti sotto i consueti amplessi
          stendesi e dorme.
          A me la strofe vigile, balzante
          co 'l plauso e 'l piede ritmico nè cori:
          per l'ala a volo io còlgola, si volge
          ella e repugna. Tal fra le strette d'amator silvano
          torcesi un'evia su 'l nevoso Edone:
          più belli i vezzi del fiorente petto
          saltan compressi,
          e baci e strilli su l'accesa bocca
          mesconsi: ride la marmorea fronte
          al sole, effuse in lunga onda le chiome
          fremono à venti.
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            San Martino

            La nebbia agli irti colli
            Piovigginando sale,
            E sotto il maestrale
            urla e biancheggia il mar;
            Ma per le vie del borgo
            Dal ribollir dè tini
            Va l'aspro odor de i vini
            L'anime a rallegrar.
            Gira sù ceppi accesi
            Lo spiedo scoppiettando:
            Sta il cacciator fischiando
            Su l'uscio a rimirar
            Tra le rossastre nubi
            Stormi d'uccelli neri,
            Com'esuli pensieri,
            Nel vespero migrar.
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              Eolia

              Lina, brumaio torbido inclina,
              Ne l'aer gelido monta la sera:
              E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
              La primavera.
              In lume roseo, vedi, il nivale
              Fedriade vertice sorge e sfavilla,
              E di Castalia l'onda vocale
              Mormora e brilla.
              Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
              Rivoca Apolline co' nuovi soli,
              Con i virginei peana e i canti
              De' rusignoli.
              Da gl'iperborei lidi al pio suolo
              Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
              Due cigni il traggono candidi a volo:
              Sorride il cielo.
              Al capo ha l'aurea benda di Giove;
              Ma nel crin florido l'aura sospira
              E con un tremito d'amor gli move
              In man la lira.
              D'intorno girano come in leggera
              Danza le Cicladi patria del nume,
              Da lungi plaudono Cipro e Citera
              Con bianche spume.
              E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
              Legno, a purpuree vele, canoro:
              Armato règgelo per l'onde Alceo
              Dal plettro d'oro.
              Saffo dal candido petto anelante
              A l'aura ambrosia che dal dio vola,
              Dal riso morbido, da l'ondeggiante
              Crin di viola,
              In mezzo assidesi. Lina, quieti
              I remi pendono: sali il naviglio.
              Io, de gli eolii sacri poeti
              Ultimo figlio,
              Io meco traggoti per l'aure achive:
              Odi le cetere tinnir: montiamo:
              Fuggiam le occidue macchiate rive,
              Dimentichiamo.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Agli amici della valle tiberina

                Pur da queste serene erme pendici
                D'altra vita al rumor ritornerò;
                Ma nel memore petto, o nuovi amici,
                Un desio dolce e mesto io porterò.
                Tua verde valle ed il bel colle aprico
                Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor;
                Bulciano, albergo di baroni antico,
                Or di libere menti e d'alti cor.
                E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
                Discendendo da i balzi d'Apennin,
                Come gigante che svegliato tardi
                S'affretta in caccia e interroga il mattin,
                Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti
                Di su l'aride carte anelerà
                L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
                Balze austere e felici, a voi verrà.
                Fiume famoso il breve piano inonda;
                Ama la vite i colli; e, a rimirar
                Dolce, fra verdi querce ecco la bionda
                Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar.
                De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
                Pasce la vacca e mira lenta al pian;
                E de le torri, ostello di ribaldi,
                Crebbe l'utile casa al pio villan.
                Dove il bronzo dè frati in su la sera
                Solo rompeva, od accrescea, l'orror,
                Croscia il mulino, suona la gualchiera
                E la canzone del vendemmiator.
                Coraggio, amici. Se di vive fonti
                Corse, tocco dal santo, il balzo alpin,
                A voi saggi ed industri i patrii monti
                Iscaturiscan di fumoso vin:
                Del vin ch'edúca il forte suolo amico
                Di ferro e zolfo con natia virtú:
                Col quale io libo al padre Tebro antico,
                Al Tebro tolto al fin di servitù.
                Fiume d'Italia, a le tue sacre rive
                Peregrin mossi con devoto amor
                Il tuo nume adorando, e de le dive
                Memorie l'ombra mi tremava in cor.
                E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte
                Coronato pontefice salì,
                E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte,
                Di leggi e d'armi il popol suo partì;
                E quando la fatal prora d'Enea
                Per tanto mar la foce tua cercò,
                E l'aureo scudo de la madre dea
                In su l'attonit'onde al sol raggiò;
                E quando Furio e l'arator d'Arpino,
                Imperador plebeo, tornava a te,
                E coprivan l'altar capitolino
                Spoglie di galli e di tedeschi re.
                Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi
                Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor;
                Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
                L'agnel ti salta e túrbati il pastor.
                Meglio cosí, che tra marmoree sponde
                Patir l'oltraggio dè chercuti re,
                E con l'orgoglio de le tumid'onde
                L'orme lambire d'un crociato piè.
                Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni
                Che la vergogna dura: or via, non piú.
                Ecco, un grido io ti do - Morte à tiranni -;
                Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.
                Portal con suono ch'ogni suon confonda,
                Portal con le procelle d'Apennin,
                Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda
                Dal gran monte plebeo, da l'Aventin.
                Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta:
                Allor chi fia che la vorrà infrenar ?
                Cento schiere di prodi a la vendetta
                Da le tue valli verran teco al mar.
                Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi,
                Romito e taumaturgo esser vorrò:
                Da la faccia dè rei figli codardi
                Ne le tombe dè padri io fuggirò.
                Con l'arti vò che cielo o inferno insegna
                Da questi monti il foco isprigionar,
                E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna,
                Al Campidoglio vile io vò mandar.
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