Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il giorno in cui

Il giorno in cui fiorì il loto,
ahimè, la mia mente era persa
e io non me ne accorsi.
Il mio cestino rimase vuoto
e il fiore inosservato.

Ogni tanto però
una tristezza mi prendeva
mi svegliavo dal mio sogno
e sentivo nel vento del sud
la presenza dolce di una strana fragranza.

Quella vaga dolcezza
come desiderio tormentava il mio cuore
sembrava l'alito ardente dell'estate
in cerca di soddisfazione.

Non sapevo allora
che era così vicina
che era già mia
che questa dolcezza perfetta
era fiorita
nel profondo del mio cuore.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Talvolta la mia gioia

    Talvolta
    la mia gioia
    ti spaventa
    amore mio
    nasce dal nulla
    e si nutre di poco
    di larve invisibili
    che il vento trasporta
    di frammenti di paura
    che si fondono in tepore
    di briciole di serenità
    cadute
    dalla mensa dei poveri
    di un raggio di sole
    che risveglia lucciole
    addormentate
    in gocce di rugiada
    se mi ami
    amore mio
    perdona la mia gioia.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il tempo perso

      Sulla porta dell'officina
      d'improvviso si ferma l'operaio
      la bella giornata l'ha tirato per la giacca
      e non appena volta lo sguardo
      per osservare il sole
      tutto rosso tutto tondo
      sorridente nel suo cielo di piombo
      fa l'occhiolino
      familiarmente
      Dimmi dunque compagno Sole
      davvero non ti sembra
      che sia un po' da coglione
      regalare una giornata come questa
      ad un padrone?
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Sono quella che sono

        Sono quella che sono
        Sono fatta così
        Se ho voglia di ridere
        Rido come una matta
        Amo colui che m'ama
        Non è colpa mia
        Se non e sempre quello
        Per cui faccio follie
        Sono quella che sono
        Sono fatta così
        Che volete ancora
        Che volete da me
        Son fatta per piacere
        Non c'è niente da fare
        Troppo alti i miei tacchi
        Troppo arcuate le reni
        Troppo sodi i miei seni
        Troppo truccati gli occhi
        E poi
        Che ve ne importa a voi
        Sono fatta così
        Chi mi vuole son qui
        Che cosa ve ne importa
        Del mio proprio passato
        Certo qualcuno ho amato
        E qualcuno ha amato me
        Come i giovani che s'amano
        Sanno semplicemente amare
        Amare amare...
        Che vale interrogarmi
        Sono qui per piacervi
        E niente può cambiarmi.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Il Risorgimento

          Credei ch'al tutto fossero
          In me, sul fior degli anni,
          Mancati i dolci affanni
          Della mia prima età:
          I dolci affanni, i teneri
          Moti del cor profondo,
          Qualunque cosa al mondo
          Grato il sentir ci fa.

          Quante querele e lacrime
          Sparsi nel novo stato,
          Quando al mio cor gelato
          Prima il dolor mancò!
          Mancàr gli usati palpiti,
          L'amor mi venne meno,
          E irrigidito il seno
          Di sospirar cessò!

          Piansi spogliata, esanime
          Fatta per me la vita
          La terra inaridita,
          Chiusa in eterno gel;
          Deserto il dì; la tacita
          Notte più sola e bruna;
          Spenta per me la luna,
          Spente le stelle in ciel.

          Pur di quel pianto origine
          Era l'antico affetto:
          Nell'intimo del petto
          Ancor viveva il cor.
          Chiedea l'usate immagini
          La stanca fantasia;
          E la tristezza mia
          Era dolore ancor.

          Fra poco in me quell'ultimo
          Dolore anco fu spento,
          E di più far lamento
          Valor non mi restò.
          Giacqui: insensato, attonito,
          Non dimandai conforto:
          Quasi perduto e morto,
          Il cor s'abbandonò.

          Qual fui! Quanto dissimile
          Da quel che tanto ardore,
          Che sì beato errore
          Nutrii nell'alma un dì!
          La rondinella vigile,
          Alle finestre intorno
          Cantando al novo giorno,
          Il cor non mi ferì:

          Non all'autunno pallido
          In solitaria villa,
          La vespertina squilla,
          Il fuggitivo Sol.
          Invan brillare il vespero
          Vidi per muto calle,
          Invan sonò la valle
          Del flebile usignol.

          E voi, pupille tenere,
          Sguardi furtivi, erranti,
          Voi dè gentili amanti
          Primo, immortale amor,
          Ed alla mano offertami
          Candida ignuda mano,
          Foste voi pure invano
          Al duro mio sopor.

          D'ogni dolcezza vedovo,
          Tristo; ma non turbato,
          Ma placido il mio stato,
          Il volto era seren.
          Desiderato il termine
          Avrei del viver mio;
          Ma spento era il desio
          Nello spossato sen.

          Qual dell'età decrepita
          L'avanzo ignudo e vile,
          Io conducea l'aprile
          Degli anni miei così:
          Così quegl'ineffabili
          Giorni, o mio cor, traevi,
          Che sì fugaci e brevi
          Il cielo a noi sortì.

          Chi dalla grave, immemore
          Quiete or mi ridesta?
          Che virtù nova è questa,
          Questa che sento in me?
          Moti soavi, immagini,
          Palpiti, error beato,
          Per sempre a voi negato
          Questo mio cor non è?

          Siete pur voi quell'unica
          Luce dè giorni miei?
          Gli affetti ch'io perdei
          Nella novella età?
          Se al ciel, s'ai verdi margini,
          Ovunque il guardo mira,
          Tutto un dolor mi spira,
          Tutto un piacer mi dà.

          Meco ritorna a vivere
          La piaggia, il bosco, il monte;
          Parla al mio core il fonte,
          Meco favella il mar.
          Chi mi ridona il piangere
          Dopo cotanto obblio?
          E come al guardo mio
          Cangiato il mondo appar?

          Forse la speme, o povero
          Mio cor, ti volse un riso?
          Ahi della speme il viso
          Io non vedrò mai più.
          Proprii mi diede i palpiti,
          Natura, e i dolci inganni.
          Sopiro in me gli affanni
          L'ingenita virtù;

          Non l'annullàr: non vinsela
          Il fato e la sventura;
          Non con la vista impura
          L'infausta verità.
          Dalle mie vaghe immagini
          So ben ch'ella discorda:
          So che natura è sorda,
          Che miserar non sa.

          Che non del ben sollecita
          Fu, ma dell'esser solo:
          Purché ci serbi al duolo,
          Or d'altro a lei non cal.
          So che pietà fra gli uomini
          Il misero non trova;
          Che lui, fuggendo, a prova
          Schernisce ogni mortal.

          Che ignora il tristo secolo
          Gl'ingegni e le virtudi;
          Che manca ai degni studi
          L'ignuda gloria ancor.
          E voi, pupille tremule,
          Voi, raggio sovrumano,
          So che splendete invano,
          Che in voi non brilla amor.

          Nessuno ignoto ed intimo
          Affetto in voi non brilla:
          Non chiude una favilla
          Quel bianco petto in sé.
          Anzi d'altrui le tenere
          Cure suol porre in gioco;
          E d'un celeste foco
          Disprezzo è la mercè.

          Pur sento in me rivivere
          Gl'inganni aperti e noti;
          E, dè suoi proprii moti
          Si maraviglia il sen.
          Da te, mio cor, quest'ultimo
          Spirto, e l'ardor natio,
          Ogni conforto mio
          Solo da te mi vien.

          Mancano, il sento, all'anima
          Alta, gentile e pura,
          La sorte, la natura,
          Il mondo e la beltà.
          Ma se tu vivi, o misero,
          Se non concedi al fato,
          Non chiamerò spietato
          Chi lo spirar mi dà.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            A un vincitore nel pallone

            Di gloria il viso e la gioconda voce,
            Garzon bennato, apprendi,
            E quanto al femminile ozio sovrasti
            La sudata virtude. Attendi attendi,
            Magnanimo campion (s'alla veloce
            Piena degli anni il tuo valor contrasti
            La spoglia di tuo nome), attendi e il core
            Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
            Arena e il circo, e te fremendo appella
            Ai fatti illustri il popolar favore;
            Te rigoglioso dell'età novella
            Oggi la patria cara
            Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
            Del barbarico sangue in Maratona
            Non colorò la destra
            Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
            Che stupido mirò l'ardua palestra,
            Né la palma beata e la corona
            D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
            Forse le chiome polverose e i fianchi
            Delle cavalle vincitrici asterse
            Tal che le greche insegne e il greco acciaro
            Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
            Nelle pallide torme; onde sonaro
            Di sconsolato grido
            L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
            Vano dirai quel che disserra e scote
            Della virtù nativa
            Le riposte faville? E che del fioco
            Spirto vital negli egri petti avviva
            Il caduco fervor? Le meste rote
            Da poi che Febo instiga, altro che gioco
            Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
            Della menzogna il vero? A noi di lieti
            Inganni e di felici ombre soccorse
            Natura stessa: e là dove l'insano
            Costume ai forti errori esca non porse,
            Negli ozi oscuri e nudi
            Mutò la gente i gloriosi studi.
            Tempo forse verrà ch'alle ruine
            Delle italiche moli
            Insultino gli armenti, e che l'aratro
            Sentano i sette colli; e pochi Soli
            Forse fien volti, e le città latine
            Abiterà la cauta volpe, e l'atro
            Bosco mormorerà fra le alte mura;
            Se la funesta delle patrie cose
            Obblivion dalle perverse menti
            Non isgombrano i fati, e la matura
            Clade non torce dalle abbiette genti
            Il ciel fatto cortese
            Dal rimembrar delle passate imprese.
            Alla patria infelice, o buon garzone,
            Sopravviver ti doglia.
            Chiaro per lei stato saresti allora
            Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
            Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
            Che nullo di tal madre oggi s'onora:
            Ma per te stesso al polo ergi la mente.
            Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
            Beata allor che nè perigli avvolta,
            Se stessa obblia, né delle putri e lente
            Ore il danno misura e il flutto ascolta;
            Beata allor che il piede
            Spinto al varco leteo, più grata riede.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              All'Italia

              O patria mia, vedo le mura e gli archi
              E le colonne e i simulacri e l'erme
              Torri degli avi nostri,
              Ma la la gloria non vedo,
              Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
              I nostri padri antichi. Or fatta inerme
              Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
              Oimè quante ferite,
              Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
              Formesissima donna!
              Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
              Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
              Che di catene ha carche ambe le braccia,
              Sì che sparte le chiome e senza velo
              Siede in terra negletta e sconsolata,
              Nascondendo la faccia
              Tra le ginocchia, e piange.
              Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
              Le genti a vincer nata
              E nella fausta sorte e nella ria.
              Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
              Mai non potrebbe il pianto
              Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
              Che fosti donna, or sei povera ancella.
              Chi di te parla o scrive,
              Che, rimembrando il tuo passato vanto,
              Non dica: già fu grande, or non è quella?
              Perché, perché? Dov'è la forza antica?
              Dove l'armi e il valore e la costanza?
              Chi ti discinse il brando?
              Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
              0 qual tanta possanza,
              Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
              Come cadesti o quando
              Da tanta altezza in così basso loco?
              Nessun pugna per te? Non ti difende
              Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
              Combatterà, procomberò sol io.
              Dammi, o ciel, che sia foco
              Agl'italici petti il sangue mio.
              Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
              E di carri e di voci e di timballi
              In estranie contrade
              Pugnano i tuoi figliuoli.
              Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
              Un fluttuar di fanti e di cavalli,
              E fumo e polve, e luccicar di spade
              Come tra nebbia lampi.
              Nè ti conforti e i tremebondi lumi
              Piegar non soffri al dubitoso evento?
              A che pugna in quei campi
              L'itata gioventude? 0 numi, o numi
              Pugnan per altra terra itali acciari.
              Oh misero colui che in guerra è spento,
              Non per li patrii lidi e per la pia
              Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
              Per altra gente, e non può dir morendo
              Alma terra natia,
              La vita che mi desti ecco ti rendo.
              Oh venturose e care e benedette
              L'antiche età, che a morte
              Per la patria correan le genti a squadre
              E voi sempre onorate e gloriose,
              0 tessaliche strette,
              Dove la Persia e il fato assai men forte
              Fu di poch'alme franche e generose!
              Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
              E le montagne vostre al passeggere
              Con indistinta voce
              Narrin siccome tutta quella sponda
              Coprir le invitte schiere
              Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
              Allor, vile e feroce,
              Serse per l'Ellesponto si fuggia,
              Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
              E sul colle d'Antela, ove morendo
              Si sottrasse da morte il santo stuolo,
              Simonide salia,
              Guardando l'etra e la marina e il suolo.
              E di lacrime sparso ambe le guance,
              E il petto ansante, e vacillante il piede,
              Toglicasi in man la lira:
              Beatissimi voi,
              Ch'offriste il petto alle nemiche lance
              Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
              Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
              Nell'armi e nè perigli
              Qual tanto amor le giovanette menti,
              Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
              Come si lieta, o figli,
              L'ora estrema vi parve, onde ridenti
              Correste al passo lacrimoso e, duro?
              Parea ch'a danza e non a morte andasse
              Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
              Ma v'attendea lo scuro
              Tartaro, e l'ond'a morta;
              Nè le spose vi foro o i figli accanto
              Quando su l'aspro lito
              Senza baci moriste e senza pianto.
              Ma non senza dè Persi orrida pena
              Ed immortale angoscia.
              Come lion di tori entro una mandra
              Or salta a quello in tergo e sì gli scava
              Con le zanne la schiena,
              Or questo fianco addenta or quella coscia;
              Tal fra le Perse torme infuriava
              L'ira dè greci petti e la virtute.
              Vè cavalli supini e cavalieri;
              Vedi intralciare ai vinti
              La fuga i carri e le tende cadute,
              E correr frà primieri
              Pallido e scapigliato esso tiranno;
              vè come infusi e tintí
              Del barbarico sangue i greci eroi,
              Cagione ai Persi d'infinito affanno,
              A poco a poco vinti dalle piaghe,
              L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
              Beatissimi voi
              Mentre nel mondo si favelli o scriva.
              Prima divelte, in mar precipitando,
              Spente nell'imo strideran le stelle,
              Che la memoria e il vostro
              Amor trascorra o scemi.
              La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
              Verran le madri ai parvoli le belle
              Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
              0 benedetti, al suolo,
              E bacio questi sassi e queste zolle,
              Che fien lodate e chiare eternamente
              Dall'uno all'altro polo.
              Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
              Fosse del sangue mio quest'alma terra.
              Che se il fato è diverso, e non consente
              Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
              Chiuda prostrato in guerra,
              Così la vereconda
              Fama del vostro vate appo i futuri
              Possa, volendo i numi,
              Tanto durar quanto la, vostra duri.
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