Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
Sì come provo ognor novi diletti,
ne l'amor mio, e gioie non usate,
e veggio in quell'angelica beltate
sempre novi miracoli ed effetti,
così vorrei aver concetti e detti
e parole a tant'opra appropriate,
sì che fosser da me scritte e cantate,
e fatte cónte a mille alti intelletti.
Et udissero l'altre che verranno
con quanta invidia lor sia gita altera
de l'amoroso mio felice danno;
e vedesse anche la mia gloria vera
quanta i begli occhi luce e forza hanno
di far beata altrui, benché si pèra.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Ventaglio

    Quasi usando per sua parola
    Null'altro che un battito al cielo,
    Il futuro verso s'invola
    Dall'avorio che in sé lo cela.
    Ala piano corra all'orecchio
    Questo ventaglio se esso è
    Quello per cui qualche specchio
    Risplendette dietro di te
    Chiaro (dove ritorna a scendere
    Inseguita in ogni frammento
    Un po' d'invisibile cenere
    Unica a rendermi lamento)
    Ed appaia uguale domani
    Tra quelle tue agili mani.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il pagliaccio punito

      Occhi, laghi alla sola mia ebbrezza di rinascere
      Altro dall'istrione che col gesto ridesta
      Come piuma di lampade ignobili la cenere,
      Ho bucato nel muro di tela una finestra.

      Nuotando traditore con gambe e braccia sciolte,
      A molteplici balzi, rinnegando nell'onda
      Il falso Amleto! È come se mille e mille volte
      Per vergine sparirvi innovassi una tomba.

      Ilare oro di cembalo che una mano irritò
      Il sole tocca a un tratto la pura nudità
      Che dalla mia freschezza di perla io esalai,

      Rancida nera pelle quando su me è passata,
      Ch'era tutto il mio crisma io ignorato, ingrato!,
      Quel trucco dentro l'acqua perfida dei ghiacciai.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Sonetto

        Il verginale, il bello e il vivace presente
        Con un colpo dell'ala ebbra ecco ci spezza
        Il duro lago obliato chiuso dal trasparente
        Ghiacciaio di quei voli che mai seppero altezza!

        Un cigno d'altri giorni se stesso a ricordare
        S'abbandona magnifico, ma ormai senza rimedio
        Per non aver cantato la plaga ove migrare
        Quando già dello sterile inverno splenda il tedio.

        Questa bianca agonia inflitta nello spazio
        Al collo che lo nega lo scuoterà di strazio,
        Ma non l'orror del suolo dove sta prigioniero.

        Forma che dona ai luoghi il suo candor di giglio,
        Il Cigno senza moto nell'inutile esilio
        Si veste del disprezzo d'un gelido pensiero.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Elemosina

          Prendi questa borsa, Mendicante!
          Tu non l'hai carezzata
          vecchio poppante a una mammella avara
          per distillarne soldo a soldo il tuo
          rintocco funebre.

          Ma cava dall'amato
          metallo qualche estroso
          peccato e vasto come noi, quando a manciate
          lo baciamo, e soffia, che si torca!
          Un'ardente fanfara.

          Tutte chiese
          velate dall'incenso queste case
          quando ai muri cullando una bluastra
          fosforescente tacito il tabacco
          svolge orazioni,
          e l'oppio strapotente
          sbaraglia i farmachi! Anche tu,
          stracci e pelle, vuoi forse lacerare
          la sete e bere con la tua saliva
          un'inerzia felice,
          nei caffè
          principeschi attendere il mattino?

          Soffitti sovraccarichi di ninfe
          e veli; si getta al mendicante
          oltre i vetri un festino.

          E quando esci
          vecchio dio, tremando nel tuo sacco
          d'imballaggio, l'aurora è come un lago
          di vino d'oro e tu giuri d'avere
          le stelle in gola!

          Invece di contare
          il luccicante tuo tesoro, almeno
          potrai pavoneggiarti di una piuma,
          accendere a completa al santo in cui
          ancora credi, un certo.

          Non pensate che io
          dica follie: vecchi la terra s'apre
          a chi crepa di fame. Odio un'altra
          elemosina e voglio che mi scordi.

          Soprattutto, fratello, non andare
          a comprarti del pane.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Brindisi funebre

            O tu, fatale emblema della nostra ventura!

            Saluto di demenza e libagione oscura,
            Certo non alla magica speranza del passaggio
            Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato!
            La tua apparizione ormai più non mi basta:
            Poiché io stesso in luogo di porfido t'ho posto.
            Il rito è per le mani d'estinguere la face
            Contro le ferree porte del sepolcro che tace:
            E mal s'ignora, eletto per questa nostra quieta
            Festa di celebrare l'assenza del poeta,
            Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero.
            Eccetto che la gloria ardente del mestiere,
            Fino all'ora comune e vile della cenere,
            Pel vetro acceso d'una sera fiera di scendere,
            Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!

            Magnifico, totale e solitario, tale
            Esalando vacilla il falso orgoglio umano.
            Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo
            La triste opacità di noi spettri futuri.
            Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri
            D'una lacrima il lucido orrore ho disprezzato,
            Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato,
            Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto,
            Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta
            Nell'eroe intangibile della postuma attesa.
            Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa
            Dal turbo di parole ch'egli non disse ancora,
            Il nulla a questo Uomo abolito di allora:
            "Memorie d'orizzonti, cos'è, o tu, la Terra? "
            Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda,
            Lo spazio ha per trastullo il grido: "Io non so! "

            Il Maestro, col grave occhio, pacificò
            Sui suoi passi dell'eden l'inquieta meraviglia
            Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia
            Il mistero d'un nome per il Giglio e la Rosa.
            Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa?
            Una oscura credenza, o voi tutti, v'ingombra.
            Il genio luminoso eterno non ha ombra.
            Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere
            A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere
            Ideale che sono i parchi di quest'astro
            Restare per l'onore del tranquillo disastro
            Una solenne, vasta agitazione in cielo
            Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo,
            Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d'aurora,
            Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore,
            Alza solo tra l'ora ed il raggio del giorno!

            Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno,
            Dove il poeta puro, col gesto largo e mite
            Al sogno, del suo còmpito nemico, lo interdice;
            Affinché nel mattino del suo riposo altero
            Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero,
            Quando l'antica morte è come per Gautier
            Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé,
            Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte,
            E l'avaro silenzio e la pesante notte.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Le Finestre

              Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro
              Che sale tra il biancore banale delle tende
              Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro,
              Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:

              Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento,
              Alle vetrate che un raggio chiaro indora,
              Meno per riscaldare il suo disfacimento
              Che per vedere il sole sopra le piere ancora.

              E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata,
              (Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro,
              Un corpo verginale e d'allora) ha lordato
              D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.

              Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto,
              L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema,
              E allorquando la sera sanguina sopra il tetto,
              Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,

              Vede galere d'oro, splendide come cigni,
              Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze,
              Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili,
              Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!

              Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura,
              Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli
              Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura
              Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,

              Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate
              Dove si volge il dorso alla vita e al destino,
              E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade,
              Che l'Infinito indora col suo casto mattino,

              Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno
              -Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza-
              A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno,
              Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.

              Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro
              Rifugio esso perviene talora a nausearmi,
              E la Stupidità, col suo vomito impuro,
              Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.

              Non tenteremo, o Me che sai amare pene,
              D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno,
              E di fuggire infine, mie ali senza penne,
              A volo con il rischio di cadere in eterno?
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Angoscia

                Non vengo questa sera per il tuo corpo, o bestia
                Che i peccati d'un popolo accogli, né a scavare
                Nei tuoi capelli impuri una triste tempesta
                Sotto il tedio incurabile che versa il mio baciare:
                Chiedo al tuo letto il sonno pesante, senza sogni,
                Librato sotto il velo segreto dei rimorsi,
                E che tu puoi gustare dopo le tue menzogne
                Nere, tu che del nulla conosci più che i morti.
                Poi che il Vizio, rodendomi l'antica nobiltà,
                M'ha come te segnato di sua sterilità;
                Ma mentre nel tuo seno di pietra abita un cuore
                Che crimine o rimorso mai potrà divorare,
                Io pallido, disfatto, fuggo col mio sudario,
                Sgomento di morire se dormo solitario.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  La Doppia Immagine

                  A novembre compio trent'anni.
                  Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
                  Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
                  turbinano nella pioggia d'inverno,
                  cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
                  i tre autunni che non hai passato qui.
                  Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
                  Ti dico quel che mai saprai davvero:
                  le congetture mediche
                  che spiegano il cervello non saranno mai reali
                  quanto queste foglie abbattute.

                  Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
                  ti avevo dato un nomignolo
                  appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
                  poi una febbre t'è rantolata in gola
                  ed io mi muovevo come una pantomima
                  attorno al tuo capino.
                  Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
                  dicevano, era mia. Facevano gli spioni
                  come streghe verdi versando nella testa la rovina
                  come un rubinetto rotto;
                  come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
                  un vecchio debito che dovevo accollarmi.

                  La morte era più semplice di quanto credessi.
                  Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
                  Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
                  Ho finto d'esser morta
                  finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
                  m'hanno messo senza braccia e slavata
                  nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
                  Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
                  Oggi le foglie gialle
                  sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
                  Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.

                  Oggi, piccina mia, Gioia,
                  ama il tuo essere dove adesso vive.
                  Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
                  allora perché t'ho fatto crescere altrove.
                  Tu non riconoscevi la mia voce
                  quando tornavo a casa a trovarti.
                  Tutti i superlativi
                  di alberi di Natale e vischi del futuro
                  non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
                  Nel tempo che non amai me stessa
                  venni in visita a te su marciapiedi spalati,
                  mi tenevi per un guanto.
                  Dopo questo fu di nuovo neve.

                  2.

                  Mi hanno spedito lettere con tue notizie
                  e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
                  Quando cominciai a sopportarmi
                  andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
                  troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
                  Non me ne sono andata.
                  Ma un ritratto mi son fatto.

                  Dal manicomio nel parziale ritorno
                  venni alla casa di mia madre a Gloucester.
                  Ed ecco come venni ad abbrancarla,
                  ed ecco come venni a perderla.
                  Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
                  Non l'hai mai potuto.
                  Ma un ritratto lei m'ha fatto.

                  Ho vissuto da ospite rabbioso,
                  parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
                  Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
                  Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
                  Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
                  Non mi pareva interessante.
                  Ma un ritratto mi son fatto.

                  C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
                  là in bianchi armadi fummo inchiavati
                  come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
                  Mio padre passava col piattino per la questua.
                  Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
                  E non fui propriamente perdonata.
                  Ma un ritratto m'hanno fatto.

                  3.

                  Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
                  a pioggia sull'erba rivierasca.
                  Parlavamo di siccità
                  mentre il prato corroso dal salmastro
                  nuovamente raddolciva.
                  Per passare il tempo falciavo l'erba
                  e la mattina mi facevo fare il ritratto,
                  fissando il sorriso nella formalità.
                  Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
                  e una cartolina col Motif number one
                  come se fosse normale
                  essere madre ed essersene andata.

                  Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
                  del lato nord, che bene mi si addice,
                  per farmi stare bene.
                  Soltanto mia madre s'ammalò.
                  Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
                  come se la morte si riflettesse,
                  come se il mio morire l'avesse corrosa.
                  Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
                  Il primo settembre mi guardò in faccia
                  e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
                  Le mozzarono le colline dolci
                  e ancora non avevo la risposta.

                  4.

                  Quell'inverno lei tornò
                  parziale ritorno
                  alla sterile suite
                  di medici, nauseante
                  crociera di raggi X,
                  l'aritmetica delle cellule impazzita.
                  Parziale intervento,
                  braccio grasso, prognosi infausta,
                  li ho sentiti dire.

                  Durante le burrasche marine
                  lei si fece fare il ritratto.
                  Caverna di uno specchio,
                  appeso al lato sud;
                  una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
                  E tu mi assomigliavi sconosciuto
                  viso mio, tu lo indossavi.
                  Dopotutto eri mia.

                  Ho svernato a Boston,
                  sposa senza figli,
                  niente di dolce da spartire,
                  con le streghe a fianco.
                  Ho perduto la tua infanzia,
                  tentato un altro suicidio,
                  subito il secondo hotel dei sigilli.
                  M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
                  Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.

                  5.

                  Per l'ultima volta m'hanno dimesso
                  il primo maggio;
                  laureata in casi mentali,
                  con l'assenso dell'analista,
                  un libro finito di versi,
                  la macchina da scrivere e le borse.

                  Quell'estate imparai a rimettere vita
                  nelle mie sette stanze,
                  andavo su barchette a cigno, al mercato,
                  rispondevo al telefono,
                  da brava moglie offrivo da bere,
                  facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.

                  E tu venivi ogni weekend. No, mento.
                  Venivi di rado. Fingevo che c'eri
                  bimba farfalla, porcellina
                  guance di gelatina,
                  tre anni di disobbedienza,
                  ma splendida sconosciuta.

                  E dovevo imparare
                  perché volevo morire invece che amare,
                  perché mi faceva male la tua innocenza,
                  e perché accumulo le colpe
                  come un giovane internista
                  rivela i sintomi e la certa evidenza.

                  Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
                  le colline rosse mi ricordavano
                  la pelliccia di volpe rossa sdrucita
                  in cui giocavo da bambina,
                  immobile come un orso, una tenda,
                  una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.

                  Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
                  il baracchino dove vendono l'esca,
                  Pigeon Cove, lo Yacht Club,
                  Squall Hill, verso la casa in attesa
                  ancora, la casa sul mare.
                  E due ritratti sono appesi su opposte pareti.

                  6.

                  Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
                  risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
                  Mentre posavo lì cosa avevo sognato
                  tutta me negli occhi in attesa,
                  il giovane viso, la zona del sorriso,
                  trappola per volpi.

                  Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
                  le guance vizze come orchidee appassite;
                  mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
                  mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
                  quella testa di morte impietrita
                  che avevo sopraffatto.

                  L'artista ci fissò alla svolta;
                  si sorrideva inquadrate nelle tele
                  prima di scegliere strade da prima separate.
                  La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
                  Mi decompongo sulla parete
                  come Dorian Grey.

                  E questa fu caverna di uno specchio,
                  una donna sdoppiata che si fissa
                  come se il tempo l'avesse impietrita
                  - due signore in terra d'ombra assise -
                  Hai dato un bacio alla nonna,
                  e lei ha pianto.

                  7.

                  Non potevo tenerti
                  tranne il weekend. Ogni volta venivi
                  stringendo il disegnino del coniglio
                  che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
                  disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
                  La prima volta hai chiesto il mio nome.
                  Ora rimani per sempre. Dimenticherò
                  che sbalzavamo cozzandoci come marionette
                  appese a fili. Non era l'amore
                  ridursi al weekend.
                  Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
                  traballando sul marciapiede piangi e chiami.
                  Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
                  che altrove, nei dintorni di Boston, muore.

                  Ricordo che ti chiamammo Gioia
                  per poterti chiamare gioia.
                  Arrivasti come un ospite imbarazzato
                  allora, tutta fasciata umida meraviglia
                  alla mia mammella pesante.
                  Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
                  solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
                  da sempre amata, da sempre esuberante
                  nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
                  Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
                  avevo bisogno di un'altra vita,
                  di un'altra immagine per ricordarmi.
                  E fu questa la mia più grave colpa;
                  tu non potevi curarla o lenirla.
                  Ti ho fatta per trovarmi.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)

                    Filo sottile

                    La mia fede
                    è un carico enorme
                    appeso a un filo sottile,
                    proprio come un ragno
                    appende i suoi piccoli a una tela fine,
                    proprio come dalla vite,
                    esile e rigida,
                    pendono grappoli
                    come occhi,
                    come molti angeli
                    danzano su una capocchia di spillo.

                    Dio non chiede troppo filo
                    per restare qui;
                    solo una venuzza
                    e sangue che vi scorra
                    e un po' d'amore.
                    Come qualcuno ha detto:
                    l'amore e la tosse
                    non si possono nascondere.
                    Neppure un colpetto di tosse
                    neppure un amore minimo.
                    Perciò se hai solo un filo sottile
                    a Dio non importa:
                    Lui te lo troverai tra le mani facilmente
                    proprio come una volta con dieci centesimi
                    ti potevi prendere una Coca.
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