-Trami - dico ad Amor talora omai fuor de le man di questo crudo ed empio, che vive del mio danno e del mio scempio, per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai. Poi che con tanti miei tormenti e guai sua fiera voglia ancor non pago od empio, o di Diana avaro e crudo tempio, quando del sangue mio sazio sarai? Poi torno a me, e del mio dir mi pento: sì l'ira, il rimembrar pur lui, mi smorza, che dè miei non vorrei meno un tormento. Con sì nov'arte e con sì nova forza la bellezza ch'io amo, e ch'io pavento, ogni senso m'intrica, offusca e sforza.
Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago del mio signor e del suo dolce viso, è tanto e tal, che fa restar conquiso ognun che 'l mira, di gran lunga, e pago. Ma, se qual è un cervier occhio e mago, potesse altri mirar intento e fiso quel che fuor non si mostra, un paradiso di meraviglie vi vedrebbe, un lago. E le donne non pur, ma gli animali, l'erbe, le piante, l'onde, i venti e i sassi farian arder d'amor gli occhi fatali. Quest'una grazia agli occhi miei sol dassi in guiderdon di tanti e tanti mali, per onde a tanto ben poggiando vassi.
Dura è la stella mia, maggior durezza è quella del mio conte: egli mi fugge, ì seguo lui; altri per me si strugge, ì non posso mirar altra bellezza. Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza: verso chi m'è umìle il mio cor rugge, e son umìl con chi mia speme adugge; a così stranio cibo ho l'alma avezza. Egli ognor dà cagione a novo sdegno, essi mi cercan dar conforto e pace; ì lasso questi, ed a quell'un m'attegno. Così ne la tua scola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno: l'umìl si sprezza, e l'empio si compiace.
Quando fu prima il mio signor concetto, tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle gli dier le grazie, e queste doti e quelle, perch'ei fosse tra noi solo perfetto. Saturno diègli altezza d'intelletto; Giove il cercar le cose degne e belle; Marte appo lui fece ogn'altr'uomo imbelle; Febo gli empì di stile e senno il petto; Vener gli dié bellezza e leggiadria; eloquenza Mercurio; ma la luna lo fè gelato più ch'io non vorria. Di queste tante e rare grazie ognuna m'infiammò de la chiara fiamma mia, e per agghiacciar lui restò quell'una.
Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l'altre prime, ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, dè miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, poi che la lor cagione è sì sublime. E spero ancor che debba dir qualcuna: - Felicissima lei, da che sostenne per sì chiara cagion danno sì chiaro! Deh, perché tant'amor, tanta fortuna per sì nobil signor a me non venne, ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?
Era vicino il dì che 'l Creatore, che ne l'altezza sua potea restarsi, in forma umana venne a dimostrarsi, dal ventre virginal uscendo fore, quando degnò l'illustre mio signore, per cui ho tanti poi lamenti sparsi, potendo in luogo più alto annidarsi, farsi nido e ricetto del mio core. Ond'io sì rara e sì alta ventura accolsi lieta; e duolmi sol che tardi mi fè degna di lei l'eterna cura. Da indi in qua pensieri e speme e sguardi volsi a lui tutti, fuor d'ogni misura chiaro e gentil, quanto 'l sol giri e guardi.
Sì come provo ognor novi diletti, ne l'amor mio, e gioie non usate, e veggio in quell'angelica beltate sempre novi miracoli ed effetti, così vorrei aver concetti e detti e parole a tant'opra appropriate, sì che fosser da me scritte e cantate, e fatte cónte a mille alti intelletti. Et udissero l'altre che verranno con quanta invidia lor sia gita altera de l'amoroso mio felice danno; e vedesse anche la mia gloria vera quanta i begli occhi luce e forza hanno di far beata altrui, benché si pèra.
Quasi usando per sua parola Null'altro che un battito al cielo, Il futuro verso s'invola Dall'avorio che in sé lo cela. Ala piano corra all'orecchio Questo ventaglio se esso è Quello per cui qualche specchio Risplendette dietro di te Chiaro (dove ritorna a scendere Inseguita in ogni frammento Un po' d'invisibile cenere Unica a rendermi lamento) Ed appaia uguale domani Tra quelle tue agili mani.
Occhi, laghi alla sola mia ebbrezza di rinascere Altro dall'istrione che col gesto ridesta Come piuma di lampade ignobili la cenere, Ho bucato nel muro di tela una finestra.
Nuotando traditore con gambe e braccia sciolte, A molteplici balzi, rinnegando nell'onda Il falso Amleto! È come se mille e mille volte Per vergine sparirvi innovassi una tomba.
Ilare oro di cembalo che una mano irritò Il sole tocca a un tratto la pura nudità Che dalla mia freschezza di perla io esalai,
Rancida nera pelle quando su me è passata, Ch'era tutto il mio crisma io ignorato, ingrato!, Quel trucco dentro l'acqua perfida dei ghiacciai.
Il verginale, il bello e il vivace presente Con un colpo dell'ala ebbra ecco ci spezza Il duro lago obliato chiuso dal trasparente Ghiacciaio di quei voli che mai seppero altezza!
Un cigno d'altri giorni se stesso a ricordare S'abbandona magnifico, ma ormai senza rimedio Per non aver cantato la plaga ove migrare Quando già dello sterile inverno splenda il tedio.
Questa bianca agonia inflitta nello spazio Al collo che lo nega lo scuoterà di strazio, Ma non l'orror del suolo dove sta prigioniero.
Forma che dona ai luoghi il suo candor di giglio, Il Cigno senza moto nell'inutile esilio Si veste del disprezzo d'un gelido pensiero.