Sono come uno spirito che nell'intimo del suo cuore ha dimorato, e le sue sensazioni ha percepito, e i suoi pensieri ha avuto, e conosciuto il più profondo impulso del suo animo: quel flusso silenzioso che al sangue solo è noto, quando tutte le emozioni in moltitudine descrivono la quiete di mari estivi. Io ho liberato le melodie preziose del suo profondo cuore: i battenti ho spalancato, e in esse mi sono rimescolato. Proprio come un'aquila nella pioggia del tuono, quando veste di lampi le ali.
E chi sente la discordia ora o il dolore? L'Amore è l'universo oggi questi sono gli schiavi di un opaco domani che oscurano la strada labirintica della Vita.
Occhi neri di ribes nero come dense gocce della notte guardano e inconsapevoli domandano o di qualcuno o di qualcosa.
Caverà lesto il tordo saltellante gli occhi neri di ribes nero, ma i gorghi del vortice conservano memoria di qualcuno o di qualcosa.
Non penetrate nella memoria delle amate. Temete quei vortici abissali, perfino la vecchia tua blusa, non di te si ricorda, ma di qualcuno o di qualcosa.
E dopo morto vorrei onestamente sempre vivere in te, come qualcuno no, come qualcosa, che ti rammenti, linea d'orizzonte, solo qualcosa, solo qualcosa.
Io sono Gagarin. Per primo ho volato, e voi volaste dopo di me. Sono stato donato per sempre al cielo, dalla terra, come il figlio dell'umanità. In quell 'aprile i volti delle stelle, che gelavano senza carezze, coperte di muschio e di ruggine, si riscaldarono per le lentiggini rossigne di Smolensk salite al cielo. Ma le lentiggini sono tramontate. Quanto mi è terribile non restare che un bronzo, che un'ombra, non poter carezzare né l'erba, né un bambino, né far scricchiolare il cancelletto d'un giardino. Da sotto la nera cicatrice del timbro postale vi sorrido io con il sorriso ch'è volato via. Ma osservate bene cartoline e francobolli e capirete subito: per l'eternità io sono in volo. Mi applaudivano le mani dell'intera umanità. La gloria tentava di sedurmi, ma no, non c'è riuscita.
Sulla tetra mi sono schiantato, quella che per primo ho visto tanto piccola, e la terra non me l'ha perdonata. Ma io perdono la terra, sono figlio suo, in spirito e carne, e per i secoli prometto di continuare il mio volo al di sopra al di sopra dei bombardamenti, delle tele-radiomenzogne, che la stringono con le loro volute, al di sopra delle donnaccole che baldanzosamente ballano lo streep-tease per i soldati nel Viet Nam, al di sopra della tonsura del frate che vorrebbe volare, ma è imbarazzato dalla sottana, al di sopra della censura che nella sua tonacaccia, inghiottì in Spagna le ali dei poeti...
C'è chi è in volo nel simun vorticoso di stelle. C'è chi si dibatte nella palude da se stesso voluta. Uomini, o uomini ingenui spacconi, pensate: non vi fa paura alzarvi dal Capo che porta il nome dell'uomo che avete ucciso? Vergognatevi di questo baccano da mercato! Voi siete gelosi, rapaci, vendicativi. Come potete cadere tanto in basso se volate tanto in alto?!
Io sono Gagarin, figlio della Terra, figlio dell'umanità: sono russo, greco e bulgaro, australiano e finlandese.
Vi incarno tutti col mio slancio verso i cieli. Il mio nome è casuale, ma io non sono stato per caso.
Mentre la terra s'insozzava di vanità e di peccato, il mio nome cambiava, ma l'anima no.
Mi chiamavano Icaro. Giacqui nella polvere, nella cenere. Mi aveva spinto verso il sole il buio della terra.
La cera si sciolse, spargendosi qua e là. Caddi senza salvezza, ma un pizzico di sole rimase stretto nella mia mano.
Mi chiamarono servo. La rabbia mi pesava sulla schiena mentre, ritmando il tempo con le mani e coi piedi, danzavano sul mio corpo.
Io caddi sotto le bastonate, ma, maledicendo la servitù, mi costruii delle ali coi bastoni dei miei torturatori! Ad Odessa fui Utockin. Fece uno scarto il duca, quando al di sopra dei suoi pantaloncini a piffero si levò un cavallo volante.
Sotto il nome di Nesterov girando sopra la terra, feci innamorare la luna col mio giro della morte.
La morte fischiava sulle ali. È una virtù disprezzarla e con Gastello imberbe mi gettai in volo sul nemico.
E le ali temerarie ardendo come un rogo, hanno protetto, voi che foste allora ragazzi, Aldrin, Collins, Armstrong.
E, sicuro della speranza che gli uomini sono un'unica famiglia, dell'equipaggio di Apollo invisibile io ero.
Mangiammo dai tubetti, avremmo brindato in viaggio come sull'Elba, ci abbracciammo sulla Galassia.
Il lavoro procedeva senza scherzi. Era in gioco la vita e con lo stivale di Armstrong io scesi sulla Luna.
Che vergogna andare al cinema da solo senza un amico, senza un'amica, senza moglie, là dove tutti gli spettacoli sembrano tanto brevi e tanto lunga la loro attesa.
Che vergogna in questa interiore guerra dei nervi davanti alle coppiette beffarde del foyer in un angoletto, tutto rosso, masticare un pasticcino, come se ci fosse di che restar confusi... Noi, fuggendo la solitudine e l'angoscia ci buttiamo in qualsiasi compagnia, e così degli obblighi che fanno schiavi di amicizie senza senso ti perseguiteranno ftno alla tomba.
Le amicizie si formano in modo assurdo: gli uni si danno al bere senza una ragione, gli altri non sono interessati che ai fronzoli e alle donnacce, e c'è pure chi sembra occupare il tempo in discussioni astratte, ma di fatto si somigliano tutti tra di loro... Molte son le forme della vanità! O l'una, o l'altra chiassosa compagniaa... Non saprei a quante di queste io sia riuscito a sfuggire!
E come caduto in un nuovo tranello, sono riuscito a sfuggire, lasciandovi il pelo, sono sfuggito! Mi sei dinanzi, vuota libertà... Perché diavolo mi sei necessaria! Mi sei cara e insieme odiosa, come una moglie non amata e fedele. E tu, amata mia, come stai tu? Ti sei liberata delle tue vane preoccupazioni? A chi adesso appartengono i tuoi occhi strabici e le tue bianche, splendide spalle? Pensi certo che io mi vendichi, che in qualche parte mi precipiti in taxi, ma se anche lo facessi dove scenderei? Eppure non potrei liberarmi di te! Con me le donne si rinchiudono in sé, perché sentono d'essermi ora del tutto estranee. Abbandono la testa sulle loro ginocchia, ma non a loro, a te appartengo... Or non è molto sono stato da una in una brutta casupola di via Sennàja. Ho appeso il paltò a un misero attaccapanni. Sotto un abete spoglio da un lato, con le lampadine fioche, rilucendo con le sue pantofoline bianche, sedeva una donna, severa come una bambina. Avevo così facilmente ottenuto il permesso di venire, che ero sicuro di me e troppo inebriato, come oggi si usa e le avevo portato non fiori, ma vino. Ma tutto apparve molto più complicato... Ella taceva e modestamente due goccette trasparenti, due orecchini, brillavano sui suoi lobi rosati. E, come sofferente, guardandomi confusa, sollevando il suo corpo di fanciulla, mi disse con voce smorzata: "Vattene... È meglio di no... Lo vedo, non sei mio, ma suo... " Mi amava una ragazzetta dalle maniere rudi, da maschiaccio, con un ciuffetto sbarazzino e gli occhi trasparenti, pallida di paura e tenerezza. Eravamo in Crimea. C'era di notte un temporale e la ragazzina al bagliore dei lampi mi sussurrava: "Mio piccolo! Mio piccolo! " e mi copriva gli occhi col palmo della mano. Intorno tutto era spaventosamente solenne, il tuono e il gemito sordo del mare, quando all'improvviso ella, con una lucidità tutta femminile, mi gridò: "Non sei mio! Non sei mio! " Addio, mia amata! Io sono tuo, cupo e fedele, e la solitudine è la più fedele di tutte le fedeltà. E non importa se sulle mie labbra non fonde più la neve d'addio del tuo monchino. Grazie alle donne belle e infedeli per tutto ciò che è durato un istante, per quell'addio! Che non è un "arrivederci! ", perché, fiere come regine nella loro menzogna, ci regalano delle dolci sofferenze e i magnifici frutti della solitudine.