Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Serenata Indiana

Sorgo dal tuo sogno soave
Dal primo sogno della notte folta
Mentre il vento respira leggero
Ed ogni stella palpitando ascolta.

Sorgo dal tuo sogno soave
E uno Spirito mi ha recato
Chi mai, chi mai saprà come?
Sotto la tua finestra, bene amato.

Nel tacito, oscuro cammino
Anche la brezza già muore.
Come pensiero nel sogno
Del ciàmpak esala l'odore.

Si spegne sul piccolo petto
Dall'usignolo il lamento
Come su te io cadrei
Per come amata ti sento.

Sollevami dall'erba dove muoio.
Irrora di pioggia mai stanca
Di baci gli occhi sfiniti,
La bocca immobile, bianca.

Io sussulti d'anèliti profondi.
Ho pallida, fredda la faccia.
Oh stringi il mio cuore sul tuo
Fino a che taccia.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Frammento: Anime gemelle

    Sono come uno spirito
    che nell'intimo del suo cuore ha dimorato,
    e le sue sensazioni ha percepito, e i suoi pensieri
    ha avuto, e conosciuto il più profondo impulso
    del suo animo: quel flusso silenzioso che al sangue solo
    è noto, quando tutte le emozioni
    in moltitudine descrivono la quiete di mari estivi.
    Io ho liberato le melodie preziose
    del suo profondo cuore: i battenti
    ho spalancato, e in esse mi sono rimescolato.
    Proprio come un'aquila nella pioggia del tuono,
    quando veste di lampi le ali.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Ribes nero

      Occhi neri di ribes nero
      come dense gocce della notte
      guardano e inconsapevoli domandano
      o di qualcuno o di qualcosa.

      Caverà lesto il tordo saltellante
      gli occhi neri di ribes nero,
      ma i gorghi del vortice conservano memoria
      di qualcuno o di qualcosa.

      Non penetrate nella memoria delle amate.
      Temete quei vortici abissali, perfino
      la vecchia tua blusa, non di te si ricorda, ma
      di qualcuno o di qualcosa.

      E dopo morto vorrei onestamente sempre vivere
      in te, come qualcuno no, come qualcosa,
      che ti rammenti, linea d'orizzonte,
      solo qualcosa, solo qualcosa.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Sono Gagarin, il figlio della terra

        Io sono Gagarin.
        Per primo ho volato,
        e voi volaste dopo di me.
        Sono stato donato
        per sempre al cielo, dalla terra,
        come il figlio dell'umanità.
        In quell 'aprile
        i volti delle stelle, che gelavano senza carezze,
        coperte di muschio e di ruggine,
        si riscaldarono
        per le lentiggini rossigne di Smolensk
        salite al cielo.
        Ma le lentiggini sono tramontate.
        Quanto mi è terribile
        non restare che un bronzo, che un'ombra,
        non poter carezzare né l'erba, né un bambino,
        né far scricchiolare il cancelletto d'un giardino.
        Da sotto la nera cicatrice del timbro postale
        vi sorrido io
        con il sorriso ch'è volato via.
        Ma osservate bene cartoline e francobolli
        e capirete subito:
        per l'eternità
        io sono in volo.
        Mi applaudivano le mani dell'intera umanità.
        La gloria tentava di sedurmi,
        ma no, non c'è riuscita.

        Sulla tetra mi sono schiantato,
        quella che per primo ho visto tanto piccola,
        e la terra non me l'ha perdonata.
        Ma io perdono la terra,
        sono figlio suo, in spirito e carne,
        e per i secoli prometto
        di continuare il mio volo
        al di sopra al di sopra dei bombardamenti,
        delle tele-radiomenzogne,
        che la stringono con le loro volute,
        al di sopra delle donnaccole che baldanzosamente
        ballano lo streep-tease
        per i soldati nel Viet Nam,
        al di sopra della tonsura
        del frate
        che vorrebbe volare, ma è imbarazzato dalla sottana,
        al di sopra della censura
        che nella sua tonacaccia, inghiottì in Spagna le ali dei poeti...

        C'è chi
        è in volo
        nel simun vorticoso di stelle.
        C'è chi
        si dibatte
        nella palude da se stesso voluta.
        Uomini, o uomini
        ingenui spacconi,
        pensate: non vi fa paura
        alzarvi dal Capo che porta il nome dell'uomo che avete ucciso?
        Vergognatevi di questo baccano da mercato!
        Voi siete gelosi,
        rapaci,
        vendicativi.
        Come potete cadere tanto in basso se volate tanto in alto?!

        Io sono Gagarin, figlio della Terra,
        figlio dell'umanità:
        sono russo, greco e bulgaro,
        australiano e finlandese.

        Vi incarno tutti
        col mio slancio verso i cieli.
        Il mio nome è casuale,
        ma io non sono stato per caso.

        Mentre la terra s'insozzava
        di vanità e di peccato,
        il mio nome cambiava,
        ma l'anima no.

        Mi chiamavano Icaro.
        Giacqui nella polvere, nella cenere.
        Mi aveva spinto verso il sole
        il buio della terra.

        La cera si sciolse, spargendosi qua e là.
        Caddi senza salvezza,
        ma un pizzico di sole
        rimase stretto nella mia mano.

        Mi chiamarono servo.
        La rabbia mi pesava sulla schiena
        mentre, ritmando il tempo con le mani e coi piedi,
        danzavano sul mio corpo.

        Io caddi sotto le bastonate,
        ma, maledicendo la servitù,
        mi costruii delle ali coi bastoni
        dei miei torturatori!
        Ad Odessa fui Utockin.
        Fece uno scarto il duca,
        quando al di sopra dei suoi pantaloncini a piffero
        si levò un cavallo volante.

        Sotto il nome di Nesterov
        girando sopra la terra,
        feci innamorare la luna
        col mio giro della morte.

        La morte fischiava sulle ali.
        È una virtù disprezzarla
        e con Gastello imberbe
        mi gettai in volo sul nemico.

        E le ali temerarie
        ardendo come un rogo, hanno protetto,
        voi che foste allora ragazzi,
        Aldrin, Collins, Armstrong.

        E, sicuro della speranza
        che gli uomini sono un'unica famiglia,
        dell'equipaggio di Apollo
        invisibile io ero.

        Mangiammo dai tubetti,
        avremmo brindato in viaggio
        come sull'Elba,
        ci abbracciammo sulla Galassia.

        Il lavoro procedeva senza scherzi.
        Era in gioco la vita
        e con lo stivale di Armstrong
        io scesi sulla Luna.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Al mio cane

          Ficcando il naso nero nel vetro,
          il cane aspetta, aspetta sempre qualcuno.

          Infilo la mano nel suo pelo,
          io pure aspetto qualcuno.

          Ricordi, cane, c'è stato un tempo
          quando una donna abitava qui.

          E chi era essa per me?
          Forse una sorella, una moglie forse,

          e forse, talvolta, sembrava una figlia
          a cui dovevo il mio aiuto.

          Essa è lontana... Ti sei fatto zitto.
          Più non ci saranno altre donne qui.

          Mio bravo cane, sei bravo in tutto,
          ma che peccato che tu non possa bere!
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Tra vergogna e paura

            E allora, aquila bicipite,
            verso dove abbiamo preso il volo
            con una ignominiosa nuova gloria,
            verso le tormente cecene?

            Là, per vergogna e paura,
            sulle vette guardarsi
            negli occhi l'un l'altra
            due teste aquiline non potranno.

            Chi ti strappò le penne
            sopra ceneri e polvere?
            No, non fu scelta aquilina -
            tra vergogna e paura.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Tu non hai affatto capito

              Tu non hai affatto capito,
              mia coscienza esigente, che è solo per debolezza
              se adesso ho bisticciato con te.

              E non hai affatto capito,
              quando con disprezzo ti sei vendicata,
              che causa di debolezza
              non impudenza fu - stanchezza.

              E non mi hai capito,
              e forse io non ho capito te,
              quando ti ho porto la mano
              e tu non mi hai porto la tua.

              Ma molto bene hai capito
              che è la disperazione a portarci
              alla perdita del confine, fatale,
              tra le forze del bene e del male...
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Solitudine

                Che vergogna andare al cinema da solo
                senza un amico, senza un'amica, senza moglie,
                là dove tutti gli spettacoli sembrano tanto brevi
                e tanto lunga la loro attesa.

                Che vergogna
                in questa interiore guerra dei nervi
                davanti alle coppiette beffarde del foyer
                in un angoletto, tutto rosso, masticare un pasticcino,
                come se ci fosse di che restar confusi...
                Noi,
                fuggendo la solitudine
                e l'angoscia
                ci buttiamo in qualsiasi compagnia,
                e così degli obblighi che fanno schiavi di amicizie senza senso
                ti perseguiteranno ftno alla tomba.

                Le amicizie si formano in modo assurdo:
                gli uni si danno al bere senza una ragione,
                gli altri non sono interessati che ai fronzoli e alle donnacce,
                e c'è pure chi
                sembra occupare il tempo in discussioni astratte,
                ma di fatto
                si somigliano tutti tra di loro...
                Molte son le forme della vanità!
                O l'una,
                o l'altra chiassosa compagniaa...
                Non saprei a quante di queste
                io sia riuscito a sfuggire!

                E come caduto in un nuovo tranello,
                sono riuscito a sfuggire,
                lasciandovi il pelo,
                sono sfuggito!
                Mi sei dinanzi, vuota libertà...
                Perché diavolo mi sei necessaria! Mi sei cara
                e insieme odiosa,
                come una moglie non amata e fedele.
                E tu, amata mia,
                come stai tu?
                Ti sei liberata delle tue vane preoccupazioni?
                A chi adesso appartengono i tuoi occhi strabici
                e le tue bianche, splendide spalle?
                Pensi certo che io mi vendichi,
                che in qualche parte mi precipiti in taxi,
                ma se anche lo facessi
                dove scenderei?
                Eppure non potrei liberarmi di te!
                Con me le donne si rinchiudono in sé,
                perché sentono
                d'essermi ora del tutto estranee.
                Abbandono la testa sulle loro ginocchia, ma non a loro,
                a te appartengo...
                Or non è molto sono stato da una
                in una brutta casupola di via Sennàja.
                Ho appeso il paltò a un misero attaccapanni.
                Sotto un abete spoglio da un lato, con le lampadine fioche,
                rilucendo con le sue pantofoline bianche,
                sedeva una donna, severa come una bambina.
                Avevo così facilmente ottenuto il permesso
                di venire,
                che ero sicuro di me
                e troppo inebriato, come oggi si usa
                e le avevo portato non fiori, ma vino.
                Ma tutto apparve molto più complicato...
                Ella taceva
                e modestamente due goccette trasparenti,
                due orecchini,
                brillavano sui suoi lobi rosati.
                E, come sofferente, guardandomi confusa,
                sollevando il suo corpo di fanciulla, mi disse con voce smorzata:
                "Vattene...
                È meglio di no... Lo vedo,
                non sei mio, ma suo... "
                Mi amava una ragazzetta
                dalle maniere rudi, da maschiaccio,
                con un ciuffetto sbarazzino
                e gli occhi trasparenti,
                pallida di paura e tenerezza.
                Eravamo in Crimea.
                C'era di notte un temporale
                e la ragazzina
                al bagliore dei lampi
                mi sussurrava:
                "Mio piccolo!
                Mio piccolo! "
                e mi copriva gli occhi col palmo della mano.
                Intorno tutto era spaventosamente solenne,
                il tuono
                e il gemito sordo del mare, quando all'improvviso ella,
                con una lucidità tutta femminile, mi gridò:
                "Non sei mio!
                Non sei mio! "
                Addio, mia amata!
                Io sono tuo, cupo
                e fedele,
                e la solitudine
                è la più fedele di tutte le fedeltà.
                E non importa se sulle mie labbra non fonde più
                la neve d'addio del tuo monchino.
                Grazie alle donne
                belle e infedeli
                per tutto ciò che è durato un istante, per quell'addio!
                Che non è un "arrivederci! ",
                perché, fiere come regine nella loro menzogna,
                ci regalano delle dolci sofferenze
                e i magnifici frutti della solitudine.
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