Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il modello

Perché non tenteremo la fortuna
d'un bel sonetto biascicante in ore
e dove il core rimi con amore
e dove luna rimi con laguna?

Pensiero! - E non bellezza inopportuna.
Sincerità! - Il tema delle "otto ore".
Amore! - Un tal che si trapassa il core
per una sarta, al chiaro della luna.

"Ma che arte, che lima!... Chi s'adopra,
scrivendo, a farsi intendere con poca
fatica, sarà valido e sincero... "

Così farò. Così, lasciata l'opra
del paiolo e del mestolo, la cuoca
dirà con te: "Ma qui c'è del pensiero! ".
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    A un demagogo

    Tu dici bene: è tempo che consacri
    ai fratelli la mente che si estolle
    anche il poeta, citaredo folle
    rapido negli antichi simulacri!

    Non più le tempie coronate d'acri
    serti di rose alla Bellezza molle;
    venga all'aperto! Canti tra le folle,
    stenda la mano ai suoi fratelli sacri!

    E tu non mi perdoni se m'indugio,
    poiché di rose non si fanno spade
    per la lotta dei tuoi sogni vermigli.

    Ma un fiore gitterò dal mio rifugio
    sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.
    Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      La loggia

      Noi ci vedemmo sotto cieli tetri,
      vite di Cipro, al tempo che tu arricci
      pochi rimasti pampini ed arsicci
      sui tralci immiseriti come spetri.

      Ci rivediamo che ricopri i vetri
      di verde folto, allacci di viticci
      e attingi coi tuoi grappoli biondicci
      la loggia, in alto, più di venti metri.

      Chi vede le tue prime foglie vizze,
      o loggia solatia, in Vigna Colta,
      come un'amica dolce ti ricorda.

      Tu fosti che indulgesti alle sue bizze,
      quando Centa vietava la raccolta
      alla piccola mano troppo ingorda.

      II.

      M'è caro, loggia, poi che le tue pigne
      la nuova luna di settembre invaia,
      piluccare i bei chicchi a centinaia
      fra le grandi compagini rossigne.

      Più mi compiaccio in te che nelle vigne,
      ma, poiché getto i fiocini ne l'aia,
      Centa s'avvede, Centa la massaia
      mi ricerca con l'iridi benigne.

      «Bevesti il latte che non è mezz'ora!
      Uva e latte dispandon per le membra
      tossico fino! Quella gola stolta!...»

      Sgridami, Centa! Sali come allora
      a condurmi pel braccio via! mi sembra
      che tu debba allevarmi un'altra volta...
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        L'esilio

        Non ti conobbi mai. Ti riconosco.
        Perché già vissi; e quando fui ministro
        d'un rito osceno, agitator di sistro
        t'ho posseduta al limite d'un bosco.

        Bene ravviso il sopracciglio fosco
        le bande fulve... Chi segnò di bistro
        l'occhio caprino gelido sinistro?
        Or ti rivedo in un giardino tosco,

        vergine impura, dopo mille e mille
        anni d'esilio. Tu, fatta Britanna,
        scendi in Italia a ricercarvi il sogno.

        Sono tre mila anni che t'agogno!
        Ma com'è lungi il sogno che m'affanna!
        Dove sono la tunica e le armille?

        ii.

        Dove sono la tunica e le armille
        d'elettro che portavi a Siracusa?
        E le fontane e i templi d'Aretusa
        e l'erme e gli oleandri delle ville?

        Del tempo ti restò nelle pupille
        soltanto la lussuria che t'accusa,
        vergine impura dalla fronte chiusa
        tra le due bande lucide e tranquille.

        E questa sera tu lasci le danze
        (per quel ricordo al limite d'un bosco? )
        tutta fremendo, come un'arpa viva.

        Giungono i suoni dalle aperte stanze
        fin nel giardino... O bocca! Riconosco
        bene il profumo della tua genciva!
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Garessio

          Dalle finestre medioevali e oscure
          non più le dame guardano i cavalli
          e i cavalier passar per queste valli,
          corruscanti di lucide armature.

          Dalle finestre medioevali e oscure
          non più ridon le dame ai bei vassalli,
          ma i garofani bianchi, rossi, gialli
          protendono le gran capigliature...

          Pace e Silenzio! Fiori alle finestre
          che invitano a piacevoli pensieri!
          Ed ecco in alto, nel dirupo alpestre

          fra le balze dei ripidi sentieri
          Voi, o Maria, Voi che date al vento
          il dolce riso e i bei capelli neri!
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            Scritta da: Silvana Stremiz
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            Fratelli

            Nell'impero dell'acque e delle nubi
            dove regnava il pecoraio e il gregge,
            o Numero, già fatta è la tua legge
            dalla potenza delli ordegni indubi.

            Conduce un filo il moto che tu rubi
            all'acqua e vola cento miglia e regge
            gli opifici rombanti di pulegge
            e di magli terribili e di tubi.

            Ben riconosco il Verso tuo fratello
            onnipossente Numero! Tu fai
            a noi men disagevole il sentiero.

            E il tuo parente più leggiadro e snello
            ci fiorisce le soste di rosai
            e di menzogne dolci più del Vero
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)
              Il corruscante cielo d'Oriente
              a gran distesa lodano gli uccelli,
              Aurora arrossa i bianchi capitelli
              sul tempietto di Leda, intensamente.

              Tolgon commiato tra le faci spente
              gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli
              fiori che inghirlandano i capelli
              e li gitta allo stagno, indifferente.

              Le rose aulenti nella notte insonne,
              le rose agonizzanti, morte ai baci
              nelle capellature delle donne,

              scendon piano con l'alighe tenaci,
              in su la melma livida e profonda,
              con le viscide larve dei batraci.

              II.

              Pace alle rose in fondo dello stagno,
              in loro fredda orrenda sepoltura;
              pur anche la sua gran capellatura
              dischioma l'olmo il pioppo ed il castagno.

              Il cigno guata, mutolo e grifagno,
              lo stagno ricolmarsi di frondura.
              Silla, sognamo. Tutto ci assicura
              l'ultima pace e l'ultimo guadagno.

              Guarda, fratello: innumeri le foglie
              attorte e rosse e gialle, senza strazio,
              distaccansi dal ramo, lentamente;

              la Madre antica in sé tutte le accoglie.
              Sognamo, Silla, memori d'Orazio,
              quel sogno confortante che non mente.

              III.

              Perché morire? La città risplende
              in Novembre di faci lusinghiere;
              e molli chiome avrem per origliere,
              bendati gli occhi dalle dolci bende.

              Dopo la tregua è dolce risapere
              coppe obliate e trepide vicende -
              bendati gli occhi dalle dolci bende -
              novellamente intessere al Piacere.

              Ma pur cantando il canti di Mimnerno
              sento che morta è l'Ellade serena
              in questo giorno triste ed autunnale.

              L'anima trema sull'enigma eterno;
              fratello, soffro la tua stessa pena:
              attendo un'Alba e non so dirti quale.

              IV.

              Che giovò dunque il gesto di chi disse:
              «Il gran Pan non è morto! Ecco la via
              dell'allegrezze nove. Ovunque sia
              dato l'annunzio del novello Ulisse!

              Il flavo Galileo che ci afflisse
              di tenebrore e di malinconia
              e quella scialba vergine Maria
              e quella croce diamo alle favisse!»?

              Nulla giovò. L'impavide biasteme
              non rianimeran lo spento sguardo
              dei numi elleni sugli antichi marmi.

              «Lor giuventude vive sol nei carmi.»
              Secondo la parola del Vegliardo
              il fato ineluttabile li preme.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Il frutteto

                Anche né malinconico né lieto
                (forse la consuetudine assecondo
                cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
                oggi varco la soglia del frutteto.

                Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
                È bene questo il luogo; in questa calma
                conchiusa, certo l'intangibil salma
                giacque per sempre dell'amor ucciso,

                del vero antico Amore ch'io cercai
                malinconicamente per l'inquieta
                mia giovinezza, la raggiante mèta
                sì perseguìta e non raggiunta mai.

                Or mi soffermo con pupille intente:
                le cose mi ritornano lontano
                nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
                mi rivedo fanciullo, adolescente.

                O belle, belle come i belli nomi,
                Simona e Gasparina, le gemelle!
                Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
                dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.

                Ed anche qui le statue e le siepi
                ed il busso ribelle alle cesoie.
                (Natali dell'infanzia, o buone gioie,
                quando n'ornavo i colli dei presepi!)

                Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
                simmetrico, sui lauri, sugli spessi
                carpini, sulle rose, sui cipressi,
                sulle vestigia dell'antico lusso

                da cento anni un folto si compose
                di pomi e peri; il regno statuario
                ricoperse; nel florido sudario
                sfiorirono le siepi delle rose;

                nell'ombre il musco ricoperse i cori
                curvi di marmo intatto (l'Antenata
                non vede lo sfacelo, contristata?)
                e nell'ombre languirono gli allori.

                Son l'ombre di una gran pace tranquille:
                il sole, trasparendo dall'intrico,
                segna la ghiaia del giardino antico
                di monete, di lunule, d'armille.

                M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
                dalla gramigna e dal navone folto;
                ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
                il tonfo malinconico d'un frutto.

                Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
                in terra, sui busseti, sui rosai:
                sire Autunno, quest'anno come mai,
                munifico vuotò la cornucopia.

                O gioco strano! Pur nella faretra
                di Diana cadde una perfetta pera,
                così perfetta che non sembra vera
                ma sculturata nell'istessa pietra.

                Il frutto altorecato assai mi tenta:
                balzo sul plinto, il dono della Terra
                tolgo alli acuti simboli di Guerra,
                avvincendomi all'erma sonnolenta.

                S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
                l'erma dal guardo gelido e sinistro?
                (il tempo edace lineò di bistro
                le palpebre lapidee delli occhi).

                Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
                attirante, soffuso di promesse,
                - O miti elleni! - s'ella mi stringesse
                d'improvviso, così, tra le sue braccia! -

                E tolgo e mordo il frutto avventurato
                e mi pare di suggere dal frutto
                un'infinita pace, un bene, tutto
                tutto l'oblio del tedio e del passato.

                Ma guardo in torno. Vedo teoria
                d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
                ridendi tra le squallide piramidi
                del busso. - Torna la malinconia:

                Ridevano così quando mio padre
                esalò la grande anima e pur tali
                (udranno allor le mie grida mortali?)
                sorrideranno e morirà mia madre.

                Ridevano così che nella culla
                dormivo inconsapevole d'affanno:
                implacabili ancor sorrideranno
                quando di me non resterà più nulla.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
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                  L'altro

                  L'Iddio che a tutto provvede
                  poteva farmi poeta
                  di fede; l'anima queta
                  avrebbe cantata la fede.

                  Mi è strano l'odore d'incenso:
                  ma pur ti perdono l'aiuto
                  che non mi desti, se penso
                  che avresti anche potuto,

                  invece di farmi gozzano
                  un po' scimunito, ma greggio,
                  farmi gabrieldannunziano:
                  sarebbe stato ben peggio!

                  Buon Dio, e puro conserva
                  questo mio stile che pare
                  lo stile d'uno scolare
                  corretto un po' da una serva.

                  Non ho nient'altro di bello
                  al mondo, fra crucci e malanni!
                  M'è come un minore fratello,
                  un altro gozzano: a tre anni.

                  Gli devo le ore di gaudi
                  più dolci! Lo tengo vicino;
                  non cedo per tutte Le Laudi
                  quest'altro gozzano bambino!

                  Gli prendo le piccole dita,
                  gli faccio vedere pel mondo
                  la cosa che dicono Mondo,
                  la cosa che dicono Vita...
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)
                    Un tulle, verdognolo d'alga,
                    l'avvolge: bellissimo all'occhio,
                    ed Ella m'accenna dal cocchio -
                    si sfolla il teatro - ch'io salga:

                    «Positivista irredento
                    un'ora fraterna e un the raro
                    a casa vo' darle e il commento
                    dell'opere di Fogazzaro».

                    Sì! Vengo! Ideale, convertirci
                    gli ardori dell'anime calme;
                    uniscile come le palme
                    toccantesi solo coi vertici.

                    Le forme bellissime sue
                    non curo, o Signora! Il Maestro
                    (non so se pudìco o maldestro)
                    ci vieta servircene a due.

                    Daniele non bacia la bocca,
                    ma fugge per Fede e Speranza,
                    vaporeggiando a distanza
                    l'amor della Donna non tocca.

                    Ah! Lungi l'orrore dei sensi!
                    E noi penseremo, o Signora,
                    l'azzurreggiante d'incensi
                    Cappella Sistina canora.

                    Papaveri! E l'ora più blanda
                    faremo, Signora, con quella
                    del Sonno tremenda sorella:
                    (prodigio di versi!...) Miranda.

                    Dispongo le carni compunte,
                    Marchesa, mia pura sorella,
                    la palma pensando, che snella
                    non lega le basi alle punte.

                    Le basi... le punte incorrotte...
                    il the... Fogazzaro... Marchesa!
                    Ma questo sparato mi pesa!
                    Non ho la camicia da notte...
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