Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

La beata riva

Quegli che sazio della vita grigia
navigò verso l'isole custodi
una levarsi intese fra melodi
voce più dolce della canna frigia:

«Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!
Ché l'acqua stessa dei canori approdi
quella è che nutre la palude stigia».

«Con un fiore il passato si cancella!»
«Cancellerai la faccia della Madre
e della Sposa?» - «Tu sola mi piaci!»

«L'amarsi è bello!» - «Ma tu sei più bella!»
«Fra queste braccia soffrirai!» - «Leggiadre!»
«Verrà la Morte.» - «Pur che tu mi baci!»
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Elogio del sonetto

    Lodati, o Padri, che per le Madonne
    amate nel platonico supplizio,
    edificaste il nobile edifizio
    eretto su quattordici colonne!

    Nulla è più dolce al vivere fittizio
    di te, compenso della notte insonne,
    non la capellatura delle donne,
    non metri novi in gallico artifizio.

    Nessuna forma dà questa che dai
    al sognatore ebbrezza non dicibile
    quand'egli con sagacia ti prepari!

    O forma esatta più che ogni altra mai,
    prodigio di parole indistruttibile,
    come i vecchi gioielli ereditati!
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)
      Poeta, or che più lieto arride Maggio
      ritornerai al verde nido ombroso
      «con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio».

      E lieto più che mai ti sia il riposo
      però che al tuo fratello hai dato il bene
      del libro salutifero e gioioso.

      Il senso della Vita alle mie vene
      ritorna ed alla mente il dolce lume
      e fuggonsi i fantasmi di mie pene

      se vado rileggendo il tuo volume.

      II.

      Ma tu non sa ch'io sia: io son la trista
      ombra di un uomo che divenne fievole
      pel veleno dell'«altro evangelista».

      Mia puerizia, illusa dal ridevole
      artificio dei suoni e dagli affanni
      di un sogno esasperante e miserevole,

      apprestò la cicuta ai miei vent'anni:
      amai stolidamente, come il Fabro,
      le musiche composite e gl'inganni

      di donne belle solo di cinabro.

      III.

      Or troppo il sole aperto mi commuove
      tanto fui uso alla penombra esigua
      che avvolgon le cortine delle alcove.

      Tu mi richiami alla campagna irrugua?
      Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,
      troppo mi piacque nostra vita ambigua.

      O benedetti siate voi, ribelli,
      che verso la salute e verso il vero
      ritemprate le sorti dei fratelli.

      Per me nulla tentar. Più nulla spero.

      IV.

      Me non solleverai. Forse già sono
      troppo malato e forse più non vale
      temprarmi alle terzine del tuo dono.

      Però senti e rispondimi: già un tale
      morbo tenne te pur? Tu pur malato
      fosti e guaristi del mio stesso male?

      Sorella Terra dunque t'ha sanato?
      Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
      membra distenderò, come il Beato,

      per aspettare la sorella Morte.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Suprema quies

        Serrati i pugni bianchi come cera
        giace supino in terra arrovesciato
        e la faccia pel rivo insanguinato
        è quasi nera.

        Con orrido rilievo l'apertura
        della ferita tutto il sangue aduna
        su la nuca, sul collo, su la bruna
        capellatura.

        Giace supino. E non sembra dolere
        la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
        ancor la Donna e la sua bocca attinga
        tutto il piacere.

        Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
        rischiarano il silenzio sepolcrale:
        allineati stan nello scaffale
        mille volumi

        che alluminava un mastro fiorentino
        d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
        Aperti sul divano soni i «Modi»
        dell'Aretino

        e sul divano è un guanto che rimosse
        qui, nell'entrar, la Donna del Convito
        ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
        di rose rosse.

        Guata con gli occhi di mestizia pieni
        in capo al letto sull'arazzo infisso
        dolentemente immoto il crocifisso
        di Guido Reni.

        Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
        Come in un sogno d'armonia perplessa
        al Poeta ventenne è già concessa
        l'ultima pace.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          L'esperimento

          «Carlotta»... Vedo il nome che sussurro
          scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio
          ovale, sui volumi di collegio
          d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...

          Nel salone ove par morto da poco
          il riso di Carlotta, fra le buone
          brutte cose borghesi, nel salone
          quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.
          Parla il salone all'anima corrotta,
          d'un'altra età beata e casalinga:
          pel mio rimpianto voglio che tu finga
          una commedia: tu sarai Carlotta.

          Svesti la gonna d'oggi che assottiglia
          la tua persona come una guaina,
          scomponi la tua chioma parigina
          troppo raccolta sulle sopracciglia;
          vesti la gonna di quel tempo: i vecchi
          tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,
          bipartisci le chiome in bande lisce
          custodi delle guancie e degli orecchi.

          Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici
          oblunghi, d'oro lavorato a maglia,
          e al collo una collana di musaici
          effigïanti le città d'Italia...
          T'aspetterò sopra il divano, intento
          in quella stampa: Venere e Vulcano...
          Tu cerca nell'immenso canterano
          dell'altra stanza il tuo travestimento.
          Poi, travestita dei giorni lontani,
          (commediante!) vieni tra le buone
          brutte cose borghesi del salone,
          vieni cantando un'eco dell'Ernani,
          vieni dicendo i versi delicati
          d'una musa del tempo che fu già:
          qualche ballata di Giovanni Prati,
          dolce a Carlotta, sessant'anni fa...
          ...

          Via per le cerule
          volte stellate
          più melanconica
          la Luna errò.
          E il lene e pallido
          stuol delle fate
          nel mar dell'etere
          si dileguò...
          Solo uno spirito
          sotto quel tiglio
          dev'ei si amavano
          s'udia cantar.
          Ahi! Fra le lacrime
          di quest'esiglio
          che importa vivere,
          che giova amar?...
          ...
          ...
          ...

          Che giova amar?... La voce s'avvicina,
          Carlotta appare. Veste d'una stoffa
          a ghirlandette, così dolce e goffa
          nel cerchio immenso della crinolina.
          Vieni, fantasma vano che m'appari,
          qui dove in sogno già ti vidi e udii,
          qui dove un tempo furono gli Zii
          molto dabbene, in belli conversari.

          Ah! Per te non sarò, piccola allieva
          diligente, il sofista schernitore;
          ma quel cugin che si premeva il cuore
          e che diceva «t'amo!» e non rideva.
          Oh! La collana di città! Vïaggio
          lungo la filza grave di musaici:
          dolce seguire i panorami arcaici,
          far con le labbra tal pellegrinaggio!

          Come sussulta al ritmo del tuo fiato
          Piazza San Marco e al ritmo d'una vena
          come sussulta la città di Siena...
          Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!
          Seguo tra i baci molte meraviglie,
          colonne mozze, golfi sorridenti:
          Castellamare... Napoli... Girgenti...
          Tutto il Reame delle Due Sicilie!

          Dolce tentare l'ultime che tieni
          chiuse tra i seni piccole cornici:
          Roma papale! Palpita tra i seni
          la Roma degli Stati Pontifici!
          Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
          della tua gola nuda e palpitante;
          Carlotta non è più! Commedïante
          del mio sognare fanciullesco, rido!

          Rido! Perdona il riso che mi tiene,
          mentre mi baci con pupille fisse...
          Rido! Se qui, se qui ricomparisse
          lo Zio con la Zia molto dabbene!
          Vesti la gonna, pettina le chiome,
          riponi i falbalà nel canterano.
          Commediante del tempo lontano,
          di Carlotta non resta altro che il nome.

          Il nome!... Vedo il nome che sussurro,
          scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio
          ovale, sui volumi di collegio
          d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            E l'anno scorso è morta.
            Ebbe un amante. Pare.

            Ricordi? Io la rivedo,
            rivedo la compagna,
            la classe, la lavagna,
            e lei china alla filza
            dei verbi greci... Smilza
            e mascula: un cinedo
            molto ricciuto e bello...
            Ricordi? Io la rivedo
            bionda, sciocchina, gaia:
            un piccolo cervello
            poco intellettuale
            di piccola crestaia
            molto sentimentale.
            Non la ricordi? Smorta,
            con certe iridi chiare
            dal vasto arco ciliare...

            E l'anno scorso è morta.
            Ebbe un amante. Pare.

            Quella è la casa dove
            crebbe fanciulla. Guarda
            quella finestra dove
            vegliava ad ora tarda;
            il biondo capo chino
            su pergamene rozze
            di greco e di latino,
            sugli assiomi nudi...
            Ma poi lascia gli studi
            maschi, passando a nozze
            cospicue: un amico,
            pare, un amico antico
            della madre, uno sposo
            ricchissimo ed annoso,
            inglese, che la porta
            in terra d'oltremare...

            E l'anno scorso è morta.
            Ebbe un amante. Pare.

            Volsero gli anni. Ed ella
            esule sul Tamigi
            non dava più novella...
            Pure, nei giorni grigi,
            tra i miei grigi ricordi,
            vedevo a quando a quando
            i coniugi discordi:
            lo sposo venerando
            e l'esile compagna
            signora in Gran Bretagna...

            Quand'ecco fa ritorno
            fra noi, senza marito;
            e fu rivista un giorno
            più bella nel vestito
            cupo... Cercava intorno
            col volto sbigottito,
            con pupilla assorta,
            chi la volesse amare...

            E l'anno scorso è morta.
            Ebbe un amante. Pare.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Il commesso farmacista

              Ho per amico un bell'originale
              commesso farmacista. Mi conforta
              col ragionarmi della sposa, morta
              priva di nozze del mio stesso male.

              «Lei guarirà: coi debiti riguardi,
              lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
              ma pensi una modista, in un negozio...
              Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.

              Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
              Pagai le spese del viaggio. E costa!
              Vede quel muro bianco a mezza costa?
              È il cimitero piccolo e selvaggio.

              Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
              La dovevo sposare nell'aprile;
              nell'aprile morì di mal sottile.
              Vede che piango... non me ne vergogno.»

              Piangeva. O morta giovane modista,
              dal cimitero pendulo fra i paschi
              non vedi il pianto sopra i baffi maschi
              del fedele commesso farmacista?

              «Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
              a sera, di svagarmi; lo potrei...
              Preferisco restarmene con lei
              e faccio versi... non me ne vergogno.»

              Sposa che senza nozze hai già varcato
              la fiumana dell'ultima rinunzia,
              vedi lo sposo che per te rinunzia
              alle dolci serate del curato?

              Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
              fra scatole, barattoli, cartine,
              preferisce le tue veglie meschine
              alle gioie del vino e dei tarocchi?

              «Non glie li dico: ché una volta detti
              quei versi perderebbero ogni pregio;
              poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
              per la morta a cui furono diretti.

              Mi pare che soltanto al cimitero,
              protetti dalle risa e dallo scherno
              i versi del mio povero quaderno
              mi parlino di lei, del suo mistero.»

              Imaginate con che rime rozze,
              con che nefandità da melodramma
              il poveretto cingerà di fiamma
              la sposa che morì priva di nozze!

              Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
              il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
              Ma non si rida, amici, non si rida
              del povero commesso farmacista.

              Non si rida alla pena solitaria
              di quel poeta; non si rida, poi
              ch'egli vale ben più di me, di voi
              corrosi dalla tabe letteraria.

              Egli certo non pensa all'euritmia
              quando si toglie il camice di tela,
              chiude la porta, accende la candela
              e piange con la sua malinconia.

              Egli è poeta più di tutti noi
              che, in attesa del pianto che s'avanza,
              apprestiamo con debita eleganza
              le fialette dei lacrimatoi.

              Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
              saputi all'arte come cortigiane,
              in modi vari, con lusinghe piane
              tentiamo il sogno per piacere agli altri.

              Per lui soltanto il verso messaggiero
              va dal finito all'infinito eterno.
              «Vede, se chiudo il povero quaderno
              parlo con lei che dorme in cimitero.»

              A lui soltanto, o gran consolatrice
              poesia, tu consoli i giorni grigi,
              tu che fra tutti i sogni prediligi
              il sogno che si sogna e non si dice.

              «Non glie li dico: ché una volta detti
              quei versi perderebbero ogni pregio:
              poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
              per la morta a cui furono diretti.»

              Saggio, tu pensi che impallidirebbe
              al mondo vano il fiore di parole
              come il cielo notturno che lo crebbe
              impallidisce al sorgere del sole.

              Di me molto più saggio, che licenzio
              i miei sogni, o fratello, tu mantieni
              intatti fra le pillole e i veleni
              i sogni custoditi dal silenzio!

              Buon custode è il silenzio. E le tue grida
              solo la morta giovane modista
              ode: non altri della folla, trista
              per chi fraternamente si confida.

              Non si rida, compagni, non si rida
              del poeta commesso farmacista.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Il commesso farmacista

                Ho per amico un bell'originale
                commesso farmacista. Mi conforta
                col ragionarmi della sposa, morta
                priva di nozze del mio stesso male.

                «Lei guarirà: coi debiti riguardi,
                lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
                ma pensi una modista, in un negozio...
                Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.

                Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
                Pagai le spese del viaggio. E costa!
                Vede quel muro bianco a mezza costa?
                È il cimitero piccolo e selvaggio.

                Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
                La dovevo sposare nell'aprile;
                nell'aprile morì di mal sottile.
                Vede che piango... non me ne vergogno.»

                Piangeva. O morta giovane modista,
                dal cimitero pendulo fra i paschi
                non vedi il pianto sopra i baffi maschi
                del fedele commesso farmacista?

                «Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
                a sera, di svagarmi; lo potrei...
                Preferisco restarmene con lei
                e faccio versi... non me ne vergogno.»

                Sposa che senza nozze hai già varcato
                la fiumana dell'ultima rinunzia,
                vedi lo sposo che per te rinunzia
                alle dolci serate del curato?

                Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
                fra scatole, barattoli, cartine,
                preferisce le tue veglie meschine
                alle gioie del vino e dei tarocchi?

                «Non glie li dico: ché una volta detti
                quei versi perderebbero ogni pregio;
                poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
                per la morta a cui furono diretti.

                Mi pare che soltanto al cimitero,
                protetti dalle risa e dallo scherno
                i versi del mio povero quaderno
                mi parlino di lei, del suo mistero.»

                Imaginate con che rime rozze,
                con che nefandità da melodramma
                il poveretto cingerà di fiamma
                la sposa che morì priva di nozze!

                Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
                il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
                Ma non si rida, amici, non si rida
                del povero commesso farmacista.

                Non si rida alla pena solitaria
                di quel poeta; non si rida, poi
                ch'egli vale ben più di me, di voi
                corrosi dalla tabe letteraria.

                Egli certo non pensa all'euritmia
                quando si toglie il camice di tela,
                chiude la porta, accende la candela
                e piange con la sua malinconia.

                Egli è poeta più di tutti noi
                che, in attesa del pianto che s'avanza,
                apprestiamo con debita eleganza
                le fialette dei lacrimatoi.

                Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
                saputi all'arte come cortigiane,
                in modi vari, con lusinghe piane
                tentiamo il sogno per piacere agli altri.

                Per lui soltanto il verso messaggiero
                va dal finito all'infinito eterno.
                «Vede, se chiudo il povero quaderno
                parlo con lei che dorme in cimitero.»

                A lui soltanto, o gran consolatrice
                poesia, tu consoli i giorni grigi,
                tu che fra tutti i sogni prediligi
                il sogno che si sogna e non si dice.

                «Non glie li dico: ché una volta detti
                quei versi perderebbero ogni pregio:
                poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
                per la morta a cui furono diretti.»

                Saggio, tu pensi che impallidirebbe
                al mondo vano il fiore di parole
                come il cielo notturno che lo crebbe
                impallidisce al sorgere del sole.

                Di me molto più saggio, che licenzio
                i miei sogni, o fratello, tu mantieni
                intatti fra le pillole e i veleni
                i sogni custoditi dal silenzio!

                Buon custode è il silenzio. E le tue grida
                solo la morta giovane modista
                ode: non altri della folla, trista
                per chi fraternamente si confida.

                Non si rida, compagni, non si rida
                del poeta commesso farmacista.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)
                  Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,
                  (non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)

                  Io t'amo! Ché non c'è bisogno di creder in te per amarti
                  (e forse che credo nell'arti? E forse che credo nel sogno?)

                  Io t'amo, Purissima Fonte che non esisti, e t'anelo!
                  (Esiste l'azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)

                  M'accolga l'antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.
                  Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.

                  Son buoni. "Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.
                  Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi."

                  Vi seggo - la mente suasa - ma come potrebbe sedervi
                  un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.

                  - "Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!
                  Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia."

                  - "Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.
                  Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!"

                  "O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo
                  quell'essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!"

                  - "E non ragionare! L'indagine è quella che offùscati il lume.
                  Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,

                  o anima senza conforti, e pensa che solo una fede
                  rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti."

                  - "O Prete, l'amore è un istinto umano. Si spegne alle porte
                  del Tutto. L'amore e la morte son vani al tomista convinto."
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