Poesie d'Autore


in Poesie (Poesie d'Autore)
Non sarà che alle nozze di animi costanti
Io ammetta impedimenti, amore non è amore
Che muta quando scopre mutamenti,
O a separarsi inclina quando altri si separa.
Oh no, è un faro irremovibile
Che mira la tempesta e mai ne viene scosso;
Esso è la stella di ogni sperduta nave,
Remoto il suo valore, pur se il suo luogo noto.
Amore non soggiace al tempo, anche se labbra
E rosee guance cadranno sotto la sua arcuata falce.
Amore non muta in brevi ore e settimane,
Ma impavido resiste fino al giorno del Giudizio.
Se questo è errore, e sarà contro me provato,
allora io non ho mai scritto, e mai nessuno ha amato.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Se anche

    Se anche ci forzassero
    le ossa
    a stare insieme
    troverebbero un varco
    tra la terra
    magari implorando una radice
    a insinuarsi per la separazione
    e noi
    lavorammo col fiato dei raggiri
    a unire due chimiche
    solo perché ci chiesero
    di divorarci le carni
    all'insaputa degli occhi
    abbeverati
    sotto cieli distanti
    eppure insieme
    eravamo un temporale
    tu le nuvole io i lampi
    per la comune pioggia
    di amaro pianto
    segnato rosso al calendario
    tra il nero di lutto e odio
    ... amore... questo termine
    coniato al sublime
    sancì l'incontro
    di un disastro
    nel quale i cuori
    lucrarono soddisfatti
    ... sciacalli...
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      Scritta da: Widmer Valbonesi
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Occhi preziosi dell'amore

      Zaffiri, smeraldi e rubini
      occhi, pietre preziose brillano
      vivi negli sguardi di menti
      intelligenti, si spengono tristi
      nella noia delle menti assenti.
      Rubini zaffiri e smeraldi
      occhi spenti in menti frizzanti
      trasformano la vita in novità
      continua, stress ed angoscia
      diventano cupi dalla frenesia.
      Smeraldi, rubini e zaffiri,
      telecamere incastonate dentro
      al cuore, brillano e si spengono
      come i sentimenti. Sono
      gli occhi preziosi dell'amore.
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        Scritta da: Widmer Valbonesi
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Foresta di smeraldi

        Nel buio della stanza
        vedo i tuoi occhi caldi
        come braci in un camino.
        Mi trasportano in un sogno
        travolgente di piacere.
        Guizzi di luce che trafiggono
        il buio fitto, profondo e nero
        rubini intensi che sfiorano la pelle
        con calma la mente mi accarezzano
        penetrano nel cuore dolcemente.
        Nella penombra della stanza
        i miei occhi azzurri come
        lame trafiggono i tuoi sensi
        accarezzano la pelle di sussurri
        diventano verdi... nel piacere.
        Alici che guizzano nel mare
        zaffiri color del cielo scuro, come
        pennelli dipingono il tuo corpo
        si fondono coi tuoi occhi caldi
        diventano foreste... di smeraldi.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          MI alzo con le palpebre infuocate

          MI alzo con le palpebre infuocate.
          La fanciullezza smorta nella barba
          cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
          si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
          Finisco così nel buio incendio
          di una giovinezza frastornata dall'eternità;
          così mi brucio, è inutile
          - pensando - essere altrimenti,
          imporre limiti al disordine: mi trascina
          sempre più frusto, con un viso secco
          nella sua infanzia, verso un quieto e folle
          ordine, il peso del mio giorno perso
          in mute ore di gaiezza, in muti
          istanti di terrore...
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Senza di te tornavo, come ebbro...

            Senza di te tornavo, come ebbro,
            non più capace d'esser solo, a sera
            quando le stanche nuvole dileguano
            nel buio incerto.
            Mille volte son stato così solo
            dacché son vivo, e mille uguali sere
            m'hanno oscurato agli occhi l'erba, i monti
            le campagne, le nuvole.
            Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
            della fatale sera. Ed ora, ebbro,
            torno senza di te, e al mio fianco
            c'è solo l'ombra.

            E mi sarai lontano mille volte,
            e poi, per sempre. Io non so frenare
            quest'angoscia che monta dentro al seno;
            essere solo.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

              Li osservo, questi uomini, educati
              ad altra vita che la mia: frutti
              d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
              quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
              storica di Roma. Li osservo: in tutti
              c'è come l'aria d'un buttero che dorma
              armato di coltello: nei loro succhi
              vitali, è disteso un tenebrore intenso,
              la papale itterizia del Belli,
              non porpora, ma spento peperino,
              bilioso cotto. La biancheria, sotto,
              fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
              che trapela il suo umido, rosso,
              indecente bruciore. La sera li espone
              quasi in romitori, in riserve
              fatte di vicoli, muretti, androni
              e finestrelle perse nel silenzio.
              È certo la prima delle loro passioni
              il desiderio di ricchezza: sordido
              come le loro membra non lavate,
              nascosto, e insieme scoperto,
              privo di ogni pudore: come senza pudore
              è il rapace che svolazza pregustando
              chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
              essi bramano i soldi come zingari,
              mercenari, puttane: si lagnano
              se non ce n'hanno, usano lusinghe
              abbiette per ottenerli, si gloriano
              plautinamente se ne hanno le saccocce
              piene.
              Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
              ferini lucidatori, invertiti commessi,
              tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
              manovali buoni come cani - avviene
              che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
              troppa avita furberia in quelle vene...

              Sono usciti dal ventre delle loro madri
              a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
              preistorici, e iscritti in un'anagrafe
              che da ogni storia li vuole ignorati...
              Il loro desiderio di ricchezza
              è, così, banditesco, aristocratico.
              Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
              a vincere l'angosciosa scommessa,
              a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re...
              La nostra speranza è ugualmente ossessa:
              estetizzante, in me, in essi anarchica.
              Al raffinato e al sottoproletariato spetta
              la stessa ordinazione gerarchica
              dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
              in un mondo che non ha altri varchi
              che verso il sesso e il cuore,
              altra profondità che nei sensi.
              In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Verso le Terme di Caracalla

                Vanno verso le Terme di Caracalla
                giovani amici, a cavalcioni
                di Rumi o Ducati, con maschile
                pudore e maschile impudicizia,
                nelle pieghe calde dei calzoni
                nascondendo indifferenti, o scoprendo,
                il segreto delle loro erezioni...
                Con la testa ondulata, il giovanile
                colore dei maglioni, essi fendono
                la notte, in un carosello
                sconclusionato, invadono la notte,
                splendidi padroni della notte...

                Va verso le Terme di Caracalla,
                eretto il busto, come sulle natie
                chine appenniniche, fra tratturi
                che sanno di bestia secolare e pie
                ceneri di berberi paesi - già impuro
                sotto il gaglioffo basco impolverato,
                e le mani in saccoccia - il pastore
                migrato
                undicenne, e ora qui, malandrino e
                giulivo
                nel romano riso, caldo ancora
                di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

                Va verso le Terme di Caracalla,
                il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
                che il feroce Frascati ha ridotto
                a una bestia cretina, a un beato,
                con nello chassì i ferrivecchi
                del suo corpo scassato, a pezzi,

                rantolanti: i panni, un sacco,
                che contiene una schiena un po' gobba,
                due cosce certo piene di croste,
                i calzonacci che gli svolazzano sotto
                le saccocce della giacca pese
                di lordi cartocci. La faccia
                ride: sotto le ganasce, gli ossi
                masticano parole, scrocchiando:
                parla da solo, poi si ferma,
                e arrotola il vecchio mozzicone,
                carcassa dove tutta la giovinezza,
                resta, in fiore, come un focaraccio
                dentro una còfana o un catino:
                non muore chi non è mai nato.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)

                  Il canto popolare

                  Improvviso il mille novecento
                  cinquanta due passa sull'Italia:
                  solo il popolo ne ha un sentimento
                  vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
                  la modernità, benché sempre il più
                  moderno sia esso, il popolo, spanto
                  in borghi, in rioni, con gioventù
                  sempre nuove - nuove al vecchio canto -
                  a ripetere ingenuo quello che fu.

                  Scotta il primo sole dolce dell'anno
                  sopra i portici delle cittadine
                  di provincia, sui paesi che sanno
                  ancora di nevi, sulle appenniniche
                  greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
                  i nuovi colori delle tele, i nuovi
                  vestiti come in limpidi roghi
                  dicono quanto oggi si rinnovi
                  il mondo, che diverse gioie sfoghi...

                  Ah, noi che viviamo in una sola
                  generazione ogni generazione
                  vissuta qui, in queste terre ora
                  umiliate, non abbiamo nozione
                  vera di chi è partecipe alla storia
                  solo per orale, magica esperienza;
                  e vive puro, non oltre la memoria
                  della generazione in cui presenza
                  della vita è la sua vita perentoria.

                  Nella vita che è vita perché assunta
                  nella nostra ragione e costruita
                  per il nostro passaggio - e ora giunta
                  a essere altra, oltre il nostro accanito
                  difenderla - aspetta - cantando supino,
                  accampato nei nostri quartieri
                  a lui sconosciuti, e pronto fino
                  dalle più fresche e inanimate ère -
                  il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

                  E se ci rivolgiamo a quel passato
                  ch'è nostro privilegio, altre fiumane
                  di popolo ecco cantare: recuperato
                  è il nostro moto fin dalle cristiane
                  origini, ma resta indietro, immobile,
                  quel canto. Si ripete uguale.
                  Nelle sere non più torce ma globi
                  di luce, e la periferia non pare
                  altra, non altri i ragazzi nuovi...

                  Tra gli orti cupi, al pigro solicello
                  Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
                  d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
                  di Toscana, con strilli di rondinini:
                  Hor atorno fratt Helya! La santa
                  violenza sui rozzi cuori il clero
                  calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
                  feroce nel feudo provinciale l'Impero
                  da Iddio imposto: e il popolo canta.

                  Un grande concerto di scalpelli
                  sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
                  sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
                  suona, giganteggiando il travertino
                  nel nuovo spazio in cui s'affranca
                  l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
                  jersera... ripete con l'anima spanta
                  nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
                  resta nel popolo. E il popolo canta.

                  Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
                  e trepidi nel vento napoleonico,
                  all'Inno dell'Albero della Libertà,
                  tremano i nuovi colori delle nazioni.
                  Ma, cane affamato, difende il bracciante
                  i suoi padroni, ne canta la ferocia,
                  Guagliune 'e mala vita! In branchi
                  feroci. La libertà non ha voce
                  per il popolo cane. E il popolo canta.

                  Ragazzo del popolo che canti,
                  qui a Rebibbia sulla misera riva
                  dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
                  è vero, cantando, l'antica, la festiva
                  leggerezza dei semplici. Ma quale
                  dura certezza tu sollevi insieme
                  d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
                  tuguri e grattacieli, allegro seme
                  in cuore al triste mondo popolare.

                  Nella tua incoscienza è la coscienza
                  che in te la storia vuole, questa storia
                  il cui Uomo non ha più che la violenza
                  delle memorie, non la libera memoria...
                  E ormai, forse, altra scelta non ha
                  che dare alla sua ansia di giustizia
                  la forza della tua felicità,
                  e alla luce di un tempo che inizia
                  la luce di chi è ciò che non sa.
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