Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Quegli mi appare esser proprio un dio

Quegli mi appare esser proprio un dio,
anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio,
perché seduto in fronte a te,
lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti,
mentre sorridi dolce:
e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti.
Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce.
Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra,
le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi.
Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita.
L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Per l'Anno dei Folli (preghiera)

    O Maria, fragile madre,
    ascoltami, ascoltami adesso
    anche se non so le tue parole.
    Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d'argento,
    non è prediletto da Dio
    perché io sono l'infedele.
    Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita,
    è un piccolo angelo nero.
    O Maria, concedimi questa grazia,
    concedimi di cambiare,
    sebbene io sia brutta,
    sommersa dal mio stesso passato,
    dalla mia stessa follia.
    Anche se ci sono delle sedie
    io sono sdraiata sul pavimento.
    Solo le mie mani sono salve
    toccando i grani del rosario.
    Una parola dopo l'altra, ci incespico dentro.
    Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.

    Conto i grani come se fossero onde
    che mi martellano contro,
    saperne il numero mi fa ammalare,
    afflitta, afflitta nel cuore dell'estate
    e la finestra sopra di me
    è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo.
    Dà in abbondanza, è rilassante.
    L'elargitrice del respiro
    lei, mormora,
    i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.

    Sempre più vicina
    è l'ora della mia morte
    mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
    come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
    Tutto ciò è morte.
    Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
    ed io mi muovo lungo di esso come
    nuotando nell'acqua.
    Il mio corpo è inutile.
    È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.
    Si è arreso.
    Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà,
    l'Ave Maria e piena di grazia.
    Ora sono entrata nell'anno senza parole.
    Noto la strana entrata e l'esatto voltaggio.
    Esistono senza parole.
    Senza parole una può toccare il pane
    e riceverlo
    senza emettere alcun suono.

    O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe
    perché sono nel centro.
    È veramente piccolo e l'aria è grigia
    come in una casa a vapore.
    Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte.
    Appare in un bicchiere di delicata fattura,
    con la boccia circolare e l'orlo sottile.
    Il vino ha un colore denso, muffa e segreto.
    Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca
    e me ne accorgo e lo capisco
    soltanto perché è successo.

    Io ho questa paura di tossire
    ma non parlo,
    la paura della pioggia, la paura del cavaliere
    che arriva galoppando nella mia bocca.
    Il bicchiere si inclina da solo
    e io prendo fuoco.
    Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento.
    Mi vedo come se mi vedesse un altro.
    Sono stata tagliata in due.

    O Maria, apri le tue palpebre,
    io sono nel dominio del silenzio,
    nel regno della pazzia e del sonno.
    C'è sangue qui
    ed io l'ho mangiato.
    O madre del grembo,
    sono venuta soltanto per il sangue?
    O piccola madre
    Sono dentro i miei pensieri.
    Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)
      Altri mai foco, stral, prigione o nodo
      sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
      non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
      quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo.
      Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
      mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto,
      per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
      che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
      Né fûro ad altrui mai le gioie care,
      quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
      mirando a le mie luci or fosche or chiare.
      Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
      fin che potrò e viver ed amare,
      lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)
        Arbor felice, aventuroso e chiaro.
        Onde i due rami sono al mondo nati,
        che vanno in alto, e son già tanto alzati,
        quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
        rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
        o s'altri fûr di lor mai più lodati
        (ben lo sanno i miei occhi fortunati,
        che per bearsi in un d'essi miraro),
        a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
        piova rugiada, sì che non v'offenda
        per avversa stagion caldo, né gelo.
        La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
        verde per tutto; e d'onorato zelo
        odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)
          Se così come sono abietta e vile
          donna, posso portar sì alto foco,
          perché non debbo aver almeno un poco
          di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
          S'Amor con novo, insolito focile,
          ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
          perché non può non con usato gioco
          far la pena e la penna in me simìle?
          E, se non può per forza di natura,
          puollo almen per miracolo, che spesso
          vince, trapassa e rompe ogni misura.
          Come ciò sia non posso dir espresso;
          io provo ben che per mia gran ventura
          mi sento il cor di novo stile impresso.
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            Deh, perché così tardo gli occhi apersi
            nel divin, non umano amato volto,
            ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto
            un mar d'alti miracoli e diversi?
            Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
            d'inutil pianto in questo viver stolto,
            né l'alma avria, com'ha, poco né molto
            di Fortuna o d'Amore onde dolersi.
            E sarei forse di sì chiaro grido,
            che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato,
            risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido.
            Ond'io sol piango il mio tempo passato,
            mirando altrove; e forse anche mi fido
            di far in parte il foco mio lodato.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)
              Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
              miri un signor di vago e dolce aspetto,
              giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
              imagin de la gloria e del valore:
              di pelo biondo, e di vivo colore,
              di persona alta e spazioso petto,
              e finalmente in ogni opra perfetto,
              fuor ch'un poco (oimè lassa! ) empio in amore.
              E chi vuol poi conoscer me, rimiri
              una donna in effetti ed in sembiante
              imagin de la morte e dè martiri,
              un albergo di fé salda e costante,
              una, che, perché pianga, arda e sospiri,
              non fa pietoso il suo crudel amante.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                in Poesie (Poesie d'Autore)
                Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera
                imitate e vincete la natura,
                formando questa e quell'altra figura,
                che poi somigli a la sua forma vera,
                venite tutti in graziosa schiera
                a formar la più bella creatura,
                che facesse giamai la prima cura,
                poi che con le sue man fè la primiera.
                Ritraggete il mio conte, e siavi a mente
                qual è dentro ritrarlo, e qual è fore;
                sì che a tanta opra non manchi niente.
                Fategli solamente doppio il core,
                come vedrete ch'egli ha veramente
                il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)
                  Quando i' veggio apparir il mio bel raggio,
                  parmi veder il sol, quand'esce fòra;
                  quando fa meco poi dolce dimora,
                  assembra il sol che faccia suo viaggio.
                  E tanta nel cor gioia e vigor aggio,
                  tanta ne mostro nel sembiante allora,
                  quanto l'erba, che pinge il sol ancora
                  a mezzo giorno nel più vago maggio.
                  Quando poi parte il mio sol finalmente,
                  parmi l'altro veder, che scolorita
                  lasci la terra andando in occidente.
                  Ma l'altro torna e rende luce e vita;
                  e del mio chiaro e lucido oriente
                  è 'l tornar dubbio e certa la partita.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)
                    Chiaro e famoso mare,
                    sovra 'l cui nobil dosso
                    si posò 'l mio signor, mentre Amor volle;
                    rive onorate e care
                    (con sospir dir lo posso),
                    che 'l petto mio vedeste spesso molle;
                    soave lido e colle,
                    che con fiato amoroso
                    udisti le mie note,
                    d'ira e di sdegno vòte,
                    colme d'ogni diletto e di riposo;
                    udite tutti intenti
                    il suon or degli acerbi miei lamenti.
                    Ì dico che dal giorno
                    che fece dipartita
                    l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri,
                    tolti mi fûr d'attorno
                    tutti i ben d'esta vita;
                    e restai preda eterna dè martìri:
                    e, perch'io pur m'adiri
                    e chiami Amor ingrato,
                    che m'involò sì tosto
                    il ben ch'or sta discosto,
                    non per questo a pietade è mai tornato;
                    e tien l'usate tempre,
                    perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre.
                    Deh fosse men lontano
                    almen chi move il pianto,
                    e chi move le giuste mie querele!
                    Ché forse non invano
                    m'affligerei cotanto,
                    e chiamerei Amor empio e crudele,
                    ch'amaro assenzio e fele
                    dopo quel dolce cibo
                    mi fè, lassa, gustare
                    in tempre aspre ed amare.
                    O duro tòsco, che 'n amor delibo,
                    perché fai sì dogliosa
                    la vita mia, che fu già sì gioiosa?
                    Almen, poi che m'è lunge
                    il mio terrestre dio,
                    che sì lontano ancor m'apporta guai,
                    il duol che sì mi punge
                    non mandasse in oblio,
                    e l'udisse ei, per cui piansi e cantai:
                    men acerbi i miei lai,
                    men cruda la mia pena,
                    men fiero il mio tormento,
                    che giorno e notte sento,
                    fôra per la sua luce alma e serena;
                    e sariami 'l dispetto
                    dolce sovra ogni dolce alto diletto.
                    S'egli è pur la mia stella,
                    e se s'accorda il cielo,
                    ch'io moia per cagion così gradita,
                    venga Morte, e con ella
                    Amor, e questo velo
                    tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita;
                    che, da suo albergo uscita,
                    volerà lieta in parte,
                    dove s'avrà mercede
                    de la sua viva fede,
                    fede d'esser cantata in mille carte.
                    Ma, lassa, a che non torna
                    chi le tenebre mie con gli occhi adorna?
                    Se tu fossi contenta,
                    canzon, come sei mesta,
                    n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.
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