Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni che, perduti nel tempo, c'incontrammo, alla nostra incresciosa intimità. Ci siamo sempre lasciati senza salutarci, con pentimenti e scuse da lontano. Ci siam riaspettati al passo, bestie caure, cacciatori affinati, a sostenere faticosamente la nostra parte di estranei. Ritrosie disperanti, pause vertiginose e insormontabili, dicevan, nelle nostre confidenze, il contatto evitato e il vano incanto. Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non aver ceduto ai nostri abbandoni, qualcosa ci è sempre mancato.
La vita... è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all'alba: aver veduto fuori la luce incerta: aver sentito nel corpo rotto la malinconia vergine e aspra dell'aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane: l'azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori un mare tutto fresco di colore.
Notte, lucente notte! Notte, più chiara tu del giorno! Notte, più splendida del sole, che luce dai alla luce, che Dio- luce di luce -elesse alla sua luce, notte, trionfante di ogni notte e giorno! Gioiosa notte, che metti in fuga tenebre e singhiozzi, l'odio portato al mondo, le paure, i terrori e orrori atroci. Si squarcia il cielo ma non ne cadono fulmini. Eccolo in questa, chi fece notte e tempi, eccolo carne ed obbediente al tempo: la nostra carne e tempo han pegno eterno! Il fosco dei dolori, il nero dei peccati, il buio della tomba disperde questa notte. Notte, più chiara tu del giorno! Notte, lucente notte!
Luci che mai son pago di mirare come diamanti eternamente ardenti. Voi, fiaccole lucenti, che la notte e tenebrose nubi attraversate; voi che i parchi del cielo, come fiori adornate. Voi, testimoni d'Iddio il dì della creazione, che solo Dio conosce e commisura, che soltanto il Suo verbo chiamò col giusto nome (noi, ciechi mortali, che cimentarci osiamo!) Custodi del piacere, oh quante dolci notti ho trascorso, vegliando, a contemplarvi. Sentinelle del tempo, quando succederà che libero d'affanni e mai di voi dimentico, sotto di me io vi scruti, voi che col vostro lume mi avete acceso l'anima e la mente?
Forse c'è una casa in questa città dove la porta s'apra per sempre questa mattina al tocco dell'aurora, dove lo scopo della luce è raggiunto.
I fiori sono sbocciati nelle siepi e nei giardini, e forse c'è un cuore che in essi ha trovato questa mattina il dono che era in viaggio da un tempo infinito.
Ecco il genio umanitario che del mondo stazionario unge le carrucole. Per finir la vecchia lite tra noi, bestie incivilite sempre un po' selvatiche, coll'idea d'essere Orfeo vuoi mestare in un cibreo l'universo e reliqua. Al ronzio di quella lira ci uniremo, gira gira, tutti in un gomitolo. Varietà d'usi e di clima le son fisime di prima; è mutata l'aria. I deserti, i monti, i mari, son confini da lunari, sogni di geografi. Col vapore e coi palloni troveremo gli scorcioni anco nelle nuvole; ogni tanto, se ci pare, scapperemo a desinare sotto, qui agli antipodi; e né gemini emisferi ci uniremo bianchi e neri: bene! Che bei posteri! Nascerà di cani e gatti una razza di mulatti proprio in corpo e in anima. La scacchiera d'Arlecchino sarà il nostro figurino, simbolo dell'indole. (Già per questo il Gran Sultano fé' la giubba al Mussulmano a coda di rondine!) Bel gabbione di fratelli! Di tirarci pè capelli smetteremo all'ultimo. Sarà inutile il cannone; rnorirem d'indigestione, anzi di nullaggine. La fiaccona generale per la storia universale farà molto comodo. Io non so se il regno umano deve aver Papa e Sovrano: ma se ci hanno a essere, Il Monarca sarà probo e discreto: un re del globo saprà star né limiti. Ed il capo della fede? Consoliamoci, si crede che sarà cattolico.
Finirà, se Dio lo vuole, questa guerra di parole, guerra da pettegoli. Finirà: sarà parlata una lingua mescolata, tutta frasi aeree; e già già da certi tali nei poemi e nei giornali si comincia a scriverè. Il puntiglio discortese di tener dal suo paese, sparirà tra gli uomini. Lo chez-nous'd'un vagabondo vorrà dire: in questo mondo, non a casa al diavolo. Tu, gelosa ipocondria, che m'inchiodi a casa mia, escimi dal fegato; e tu pur chetati, o Musa, che mi secchi colla scusa dell'amor di patria. Son figliuol dell'universo, e mi sembra tempo perso scriver per l'Italia. Cari miei concittadini, non prendiamo per confini l'Alpi e la Sicilia. S'ha da star qui rattrappiti sul terren che ci ha nutriti? O che siamo cavoli? Qua e là nascere adesso, figuratevi, è lo stesso: io mi credo Tartaro. Perché far razza tra noi? Non è scrupolo da voi: abbracciamo i barbari! Un pensier cosmopolita ci moltiplichi la vita, e ci slarghi il cranio. Il cuor nostro accartocciato, nel sentirsi dilatato, cesserà di battere. Così sia: certe battute fanno male alla salute; ci è da dare in tisico. Su venite, io sto per uno; son di tutti e di nessuno; non mi vò confondere. Nella gran cittadinanza, picchia e mena, ho la speranza di veder le scimmie Sì sì, tutto un zibaldone: alla barba di Platone ecco la repubblica!
Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.
È sempre così di giorno e di notte. C'è il gallo che canta e la stella che torna con i suoi sogni per te contadino del mondo ovunque tu sia. Con le mani affondate nelle tasche fischietta il fanciullo e la fanciulla lo attende alla finestra, ma un altro è passato prima di lui, ed è la stessa cosa. Di giorno. Di notte. Il lavoro stanco, il riposo pigro e poi il gallo che canta e si passa il giorno sperando nelle stelle che verranno: ma è una notte di novilunio e non si vede niente mentre un fanciullo fischietta ancora deluso con un filo di paglia in bocca e una lacrima che il sole ha asciugato sul suo viso, e poi la notte. Ma il fanciullo è stanco e vomita odio e dolore al solito canto del gallo e lascia il suo mondo per seguire un cercatore d'oro, ma il colore del metallo non cambia la vita e fischietterà ancora deluso al chiudersi d'una finestra in un peccato d 'amore.
Tu vivi sempre nei tuoi atti. Con la punta delle dita sfiori il mondo, gli strappi aurore, trionfi, colori, allegrie: è la tua musica. La vita è ciò che tu suoni.
Dai tuoi occhi solamente emana la luce che guida i tuoi passi. Cammini fra ciò che vedi. Soltanto.
E se un dubbio ti fa cenno a diecimila chilometri, abbandoni tutto, ti lanci su prore, su ali, sei subito lì; con i baci, coi denti lo laceri: non è più dubbio. Tu mai puoi dubitare.
Perché tu hai capovolto i misteri. E i tuoi enigmi, ciò che mai potrai capire, sono le cose più chiare: la sabbia dove ti stendi, il battito del tuo orologio e il tenero corpo rosato che nel tuo specchio ritrovi ogni giorno al risveglio, ed è il tuo. I prodigi che sono già decifrati.
E mai ti sei sbagliata, solo una volta, una notte che t'invaghisti di un'ombra -l'unica che ti è piaciuta- un'ombra pareva. E volesti abbracciarla. Ed ero io.