I miei occhi implacabili che sono sempre limpidi pure quando piangono Amicizia non vale ad ingannare. Quando parliamo troppo forte o quando d'improvviso taciamo tutti e due, vedono essi il male che ci rode. Col rumor della voce noi vogliamo creare fra noi quel che non è; quando taciamo non sappiam che dirci ed apre degli abissi quel silenzio. Allacciarci non giova con le braccia se distinti restiamo ai nostri occhi.
A ingannarli non vali neppur tu, Dolore. Quando allenti la tua stretta, il mio padre e le mia sorella anch'esse s'allontanano paurosamente.
Certe volte vedendo una bestiola che lecca una bestiola e gioca seco, mi morde il cuore una crudele invidia.
Con gli occhi vedo che mi sei negata, gioia di voler bene a quelcheduno.
Mi desto dal penoso sonno solo nel cuore della notte. Tace intorno la casa come vuota e laggiù brilla silenzioso coi suoi lumi un porto. Ma sì freddi e remoti son quei lumi e sì alto il silenzio nella casa che mi levo sui gomiti in ascolto. Improvviso terrore mi sorprende il fiato e allarga nella notte gli occhi: separata dal resto della casa separata dal resto della terra è la mia vita ed io son solo al mondo.
Poi il ricordo delle trite vie e dei nomi e dei volti consueti emerge come spiaggia da marea e di me sorridendo mi riadagio.
Ma svanita col sonno la paura, un gelo in fondo all'anima rimane: io tra gli uomini vado curioso di lor ma come estraneo; ed alcuno non ho nelle cui mani metter le mani e col quale di me dimenticarmi.
A volte mentre vado al sole e gli aspetti del mondo accolgo e il cuore quasi m'opprime l'amorosa ressa, ombra il sole ecco farsi l'ombra, gelo.
Un cieco mi par d'essere che va lungo la sponda d'un immenso fiume. Scorrono sotto l'acque maestose; ma non le vede lui: il poco sole lui si prende beato. E se gli giunge a tratti mormorar d'acque, lo crede ronzio d'orecchi illusi.
Perché a me par vivendo questa mia povera vita, un'altra rasentarne come nel sonno; e che quel sonno sia la mia vita presente.
Un vago sentimento allor mi coglie, uno sgomento pueril. Mi siedo dove sono, sul ciglio della strada, miro il misero mio angusto mondo e carezzo con man che trema l'erba.
A volte sulla sponda della via preso da infinito scoramente mi seggo; e dove vado mi domando, perché cammino. E penso la mia morte e mi vedo già steso nella bara troppo stretta fatoccio inanimato...
Quant'albe nasceranno ancora al mondo dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore non rimarrà il più piccolo ricordo
Le generazioni passan come onde di fiume...
Una mortale pesantezza il cuore m'opprime. Inerte vorrei esser fatto come qualche antichissima rovina e guardare succedersi le ore, e gli uomini mutare i passi, i cieli all'alba colorirsi, scolorirsi a sera...
Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo come in sonno tra gli uomini mi muovo. Di chi m'utra col braccio non m'accorgo, e se ogni cosa guardo acutamente quasi sempre non vedo ciò che guardo. Stizza mi prende contro chi mi toglie a me stesso. Ogni voce m'importuna. Amo solo la voce delle cose. M'irrita tutto ciò che è necessario e consueto, tutto ciò che è vita, m'irrita come il fuscello la lumaca e com'essa in me stesso mi ritiro.
Chè la vita che basta agli altri uomini non basterebbe a me. E veramente se un altro mondo non avessi, mio, nel quale dalla vita rifugiarmi, se oltre le miserie e le tristezze e le necessità e le consuetudini a me stesso non rimanessi io stesso, oh come non esistere vorrei! Ma un'impressione strana m'accompagna sempre in ogni mio passo e mi conforta: mi pare di passare come per caso da questo mondo...
Ora che non mi dici niente, ora che non mi fai godere né soffrire, tu sei la consueta dei miei giorni. Assomigli ad un lago tutto uguale sotto un cielo di latta tutto uguale. Assonnato mi muovo sulla riva. Non voglio non desider, neppure penso. Mi tocco per sentir se sono. È l'essere e il non esser, come l'acqua e il cielo di quel lago si confondono. Diventa il mio dolore quel d'un altro e la vita non è né lieta né triste. T'odio, compagna assidua dei miei giorni, che alla vita non mi sottrai, facendomi come il sonno una cosa inanimata, ma me la lasci solo rasentare. Poiché son rassegnato a viver, voglio che ad ogni ora del dì mi pesi sopra, mi tocchi nella mia carne vitale. Voglio il Dolore che m'abbranchi forte e collochi nel centro della Vita. Ora che non mi dici niente, ora che non mi fai godere né soffrire, io rassegnato aspetto che tu passi.
Ora sono solo un sasso gettato dal caso in uno stagno, avvolto da grovigli di erbe d'acqua tenaci e caparbie quanto la gravità. Ma sono stato anche uccello; di quelli che si avvitano veloci oltre i confini della vista fino al bianco puro della non materia, candido come è candido tutto ciò che non è. Di tutte le occasioni mancate di più avrei voluto essere note, mai scritte su un pentagramma ma sparse nell'aria in un ventaglio di suoni, incatenate con un ritmo di colori, scomposte e ricomposte ogni volta come meglio viene.
Mi sveglierò soltanto quando saremo fuori dall'inverno. Allora - lame di luce il sole tra le persiane e il pavimento - sarà più caldo e sereno radersi il mattino; non più caffè amaro e nero e assoli in do minore addosso tutto il giorno. Tu sei nata quasi in primavera; forse potrai capire.