In alto, ove si stagliano terse nell'azzurro vette inviolate, al di sopra del mondo, ove tace l'angoscia d'ogni essere mortale, nella tersa vastità silente, l'animo esulta, nell'infinito vortice si libra e riposa, placato. Non esiste più l'angoscia ed il tormento di andare, come esule, con la carne che duole... Al di sopra del tempo, fuori dalle strade del mondo, qui mi conforta l'infinito abbraccio delle vergini vette. Come uccello, approdato nel nido dopo lunga tempesta, nelle braccia del Creatore, posa l'animo mio.
Tu sei la luce del sole. Ove posi lo sguardo fiorisce la gioia. Ho scoperto con te stelle splendenti nel cielo e teneri fiori pei campi. Abbiamo cercato gocce di rugiada sui fili d'erba... Nei tuoi occhi profondi ho trovato la pace. E quando impaurito, lo sguardo di un timido agnello, mi cerchi la mano, una forza sconosciuta mi assale. Non esiste la Morte, se odo al mio fianco il tuo breve respiro, mio piccolo uomo.
Ritrovare nelle recondite viuzze del Paese la gioia della mia infanzia, quando per gioco salivo e scendevo da esse in cerca di farfalle e lucciole capricciose!
Senza neanche tentar di trovare altre parole oltre a quelle già dette e ridette scordate e perdute... rifletto sulla tua ombra.
Leggera si muove sopra i fiori trapuntati del letto sfiora i quadrati del pavimento si sposta scivolando sulle pareti di stoffa ... sotto il tuo corpo si nasconde quando stanco posi la testa sul cuscino.
La cerco con lo sguardo già sicura di non trovarla quando al mattino solo l'aria profuma di te.
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli accesi, la mia anima torbida che cerca chi le somigli trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest'ora.
Accompagnarti in qualche trattoria di passoporto e guardarti mangiare avidamente! E coricarmi senza desiderio nel tuo letto! Cadavere vicino ad un cadavere bere dalla tua vista l'amarezza come la spugna secca beve l'acqua!
Toccare le tue mani i tuoi capelli che pure a te qualcuno avrà raccolto in un piccolo ciuffo sulla testa! E sentirmi guardato dai tuoi occhi ostili, poveretta, e tormentarti domandandoti il nome di tua madre...
Nessuna gioia vale questo amaro: poterti far piangere, potere piangere con te.
Taci anima mia. Son questi i tristi giorni in cui senza volontà si vive, i giorni dell'attesa disperata. Come l'albero ignudo a mezzo inverno che s'attriste nella deserta corte io non credo di mettere più foglie e dubito d'averle messe mai. Andando per la strada così solo tra la gente che m'urta e non mi vede mi pare d'esser da me stesso assente. E m'accalco ad udire dov'è ressa sosto dalle vetrine abbarbagliato e mi volto al frusciare d'ogni gonna. Per la voce d'un cantastorie cieco per l'improvviso lampo d'una nuca mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime mi s'accendon negli occhi cupidigie. Chè tutta la mia vita è nei miei occhi: ogni cosa che passa la commuove come debola vento un'acqua morta.
Io son come uno specchio rassegnato che riflette ogni cosa per la via. In me stesso non guardo perché nulla vi troverei...
E, venuta la sera, nel mio letto mi stendo lungo come in una bara.
Svegliandomi il mattino, a volte provo sì acuta ripugnanza a ritornare in vita, che di cuore farei patto in quell'istante stesso di morire.
Il risveglio m'è allora un altro nascere; ché la mente lavata dall'oblio e ritornata vergine nel sonno s'affaccia all'esistenza curiosa. Ma tosto a lei l'esperienza emerge come terra scemando la marea. E così chiara allora le si scopre l'irragionevolezza della vita, che si rifiuta a vivere, vorrebbe ributtarsi nel limbo dal quale esce.
Io sono in quel momento come chi si risvegli sull'orlo d'un burrone, e con le mani disperatamente d'arretrare si sforzi ma non possa.
Come il burrone m'empie di terrore la disperata luce del mattino.
Adesso che placata è la lussuria sono rimasto con i sensi vuoti, neppur desideroso di morire. Ignoro se ci sia nel mondo ancora chi pensi a me e se mio padre viva. Evito di pensarci solamente. Chè ogni pensiero di dolore adesso mi sembrerebbe suscitato ad arte. Sento d'esser passato oltre qual limite nel qual si è tanto umani per soffrire, e che quel bene non m'è più dovuto, perché soffrire la colpa è un bene.
Mi lascio accarezzare dalla brezza, illuminare dai fanali, spingere dalla gente che passa, incurioso come nave senz'ancora né vela che abbandona la sua carcassa all'onda. Ed aspetto così, senza pensiero e senza desiderio, che di nuovo per la vicenda eterna delle cose la volontà di vivere ritorni.