Diamante, né smiraldo, né zafino, né vernul'altra gema preziosa, topazo, né giaquinto, né rubino, né l'aritropia, ch'è sì vertudiosa, né l'amatisto, né 'l carbonchio fino, lo qual è molto risprendente cosa, non àno tante belezze in domino quant'à in sé la mia donna amorosa. E di vertute tutte l'autre avanza, e somigliante [ a stella è ] di sprendore, co la sua conta e gaia inamoranza, e più bell'e[ste] che rosa e che frore. Cristo le doni vita ed alegranza, e sì l'acresca in gran pregio ed onore.
I Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone! L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione Indomito destrier. A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti, E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti L'urlo solingo e fier. I bei ginnetti italici han pettinati crini, Le constellate e morbide aiuole dè giardini Sono il lor dolce agon: Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori, La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori De le fanfare al suon; E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso, Il picciol collo inarcano e masticando il morso Par che rignino - Ohibò! - Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia D'un corpo che invecchiò, Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle, Guarda con muto orror. E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati, Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati, Dietro un velato amor. Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico! Non vedi tu le parie forme del tempo antico Accennarne colà ? Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo Solcar come una candida nube l'estremo cielo? Oh gloria, oh libertà!
II Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore Nè superbi silenzii il tuo superbo amore. Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio, Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr. E tutto ciò che facile allor prometton gli anni Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni, Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir. O immane statua bronzea su dirupato monte, Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir. A più frequente palpito di umani odii e d'amori Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori Ultime dee superstiti giustizia e libertà; E uscir credeami italico vate a la nuova etade, Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade, E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va. Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata! Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata, Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn, E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia, Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia, repubblica vergine, l'amazonio tuo sen. A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli, Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello E biondo capo languido chinavi, e te, fratello, Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color; Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia Protendea la repubblica santa le aperte braccia Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol. Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni, Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol? Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente, E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.— O popolo d'Italia, vita del mio pensier, O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo, Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo; E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.
III Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato ! Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato, I gravi e oscuri dí. Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto I falchi salutarono augurando ne l'alto E il bufolo muggí? Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano, Ove china su 'l nubilo inseminato piano La torre feudal Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi Il sonno sepolcral, Mentre tormenta languido sirocco gli assetati Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati Verdi tra il cielo e il mar, Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno Saliva, le fenicie rosse vele nel seno Azzurro ad aspettar? Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera Torre di Donoratico a la cui porta nera Conte Ugolin bussò Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante, Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante Ne l'inferno ammirò? Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte Novella il cacciator Quando al purpureo vespero su la bertesca infida I falchetti famelici empiono il ciel di strida E il can guarda al clamor. Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco; E la pietra pelasgica ed il tirreno speco Furo il mio solo altar E con me nel silenzio meridian fulgente I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente Veniano a conversar. E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada Che nè solchi de i secoli aperti con la spada Del console roman Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava; Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava, Comune italian, Tra le germane faide e i salmi nazareni Esultava nel libero lavoro e ne i sereni Canti dè mietitor. Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero, Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero Nel sano petto il cor. Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso: Ecco, tutte le redini io ti libero al corso: Corriam, fiera gentil. Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti, Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti; E a noi rida l'april, L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori, L'april santo de l'anima piena di nuovi amori, L'aprile del pensier. Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta Cavallo e cavalier, O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione, Con l'occhio ancora gravido di luce e visione, Su 'l toscano mio suol, Ed al fraterno tumolo posi da la fatica, Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica Verso il morente sol.
Nessuno dei cittadini, Pericle, biasimando i lutti dolorosi, gioirà con banchetti, e neppure la città. Tali sono gli uomini che l'onda del mare sonante sommerse; e gonfio di pianto è il cuore per la pena. Ma ai mali irrimediabili gli dèi, o amico, diedero la virile sopportazione come rimedio: ora uno, ora un altro ha questa sorte; su di noi adesso si è volta, e piangiamo la ferita che sanguina. Poi, di nuovo, toccherà ad altri. Ma presto, via, allontanate il lutto femmineo, e sopportate.
Eri tu schivo, Gesù Bambino, un giorno, e come me piccino? E che sentivi a vivere fuori dei Cieli, e proprio come io vivo? Pensavi mai le cose di lassù, dove fossero gli angeli chiedevi? Io al tuo posto avrei pianto Per la mia casa fatta di cielo; io cercherei dintorno a me, nell'aria: "gli angeli dove sono? ", chiederei e destandomi mi dispererei che non vi fosse un angelo a vestirmi! Anche tu possedevi dei balocchi, come li abbiamo noi, bimbe e bambini? E giocavi nei Cieli con tutti gli angeli non troppo alti, con le stelle a piastrella? Si giocava a rimpiattino, dietro le loro ali? Tua Madre ti lasciava sciupare le tue vesti Sul nostro suol giocando? Come bello serbarle sempre nuove, per i Cieli d'azzurro sempre tersi! T'inginocchiavi, a notte, per pregare, e le tue mani, come noi, giungevi? E a volte erano stanche, le manine, e assai lunga sembrava la preghiera? E ti piace così, che noi giungiamo Le nostre mani per pregare a te? A me sembrava, avanti io lo sapessi, che la preghiera solo così vale. E tua Madre, la sera, ti baciava, i tuoi panni piegandoti con cura? Non ti sentivi proprio buono, a letto, baciato e quieto, dette le orazioni?
A tuo Padre la mia preghiera mostra (Egli la guarderà, sei così bello! ), e digli "O Padre, io, io il Figlio tuo, ti reco la preghiera di un bambino". Sorriderà, che la lingua dei bimbi Sia la stessa di quando eri tu un bimbo!
Un male senza fine donò Zeus a Titono, la vecchiaia, più agghiacciante anche della morte penosa. ... Ma come un sogno breve è la giovinezza preziosa: presto, incombe sul capo la tormentosa e deforme vecchiaia, nemica, spregevole, che non fa più riconoscere l'uomo: danneggia gli occhi e la mente avviluppandoli.
Lo viso mi fa andare alegramente, lo bello viso mi fa rinegare; lo viso me conforta ispesament[e], l'adorno viso che mi fa penare. Lo chiaro viso de la più avenente, l'adorno viso, riso me fa fare: di quello viso parlane la gente, che nullo viso [ a viso ] li po' stare. Chi vide mai così begli ochi in viso, né sì amorosi fare li sembianti, né boca con cotanto dolce riso? Quand'eo li parlo moroli davanti, e paremi ch'ì vada in paradiso, e tegnomi sovrano d'ogn'amante.
Acqua salata scende sul viso, lo sapevi che un onda più forte sarebbe arrivata, e chiudi gli occhi e ti brucia, ma fai finta di nulla, eppure il mare è molto lontano, eppure nevica zucchero a velo sui fiori del balcone, ascolti la musica perché quella voce ti fa paura, fai rumore con i coperchi per non sentire quel battito, e danzi ma il cuore ti manca, ti sta portando via il respiro, e allora cammini adagio, riprendoti il fiato rubato, guardi per terra, convincendoti di essere sola, le mani in tasca per sentire null'altro che il rassicurante vuoto delle tue tasche.
Se il cuore è innamorato il fracasso che fa. Io non capisco come mai la gente non se ne avveda mentre quello va tambureggiando sospeso nel petto e non sosti interdetta a domandarsi qual che si sia e chi fa.
Cerchiamo di parlare in due minuti, mentre qualcuno aggiusta le tende alle finestre e gli amici sono già per le scale. Sempre c'è poco tempo quando dobbiamo fare i conti con i morti. E cosí dico a mia madre di aver pazienza – a lei che vicina a morire, ancora vuol sapere com'era la mia cena...