La terra non parlò, non disse nulla, né sussultò, neppure trasalì all'osservare un'altra morte ingiusta. Calpestò dagli albori la sua aureola, il suo tendere in alto, seppellito nelle più buie sue profondità. Vestì il suo volto con i suoi zampilli, il suo morire, il suo esser portato via e sotto di sé, come tornasse al grembo della madre il nascituro, il già nato probabilmente altrove, con l'anima tenuta tra le braccia d'un'altra madre nel suo corpo azzurro, perché succhiasse dai molti capezzoli il latte che gli offrivano le nubi. E la bocca del sole che calava in un silenzio che s'avvicinava al sonno oscuro, sotto le lenzuola, dove dormiva insonne, la sua spuma ai piedi di quel letto si muoveva, scelto l'unico fianco, per l'insonnia a cui era costretto, oltre le labbra i suoi raggi-parola, ormai lontani dal cerchio dell'aureola più pura, sembravano il riflesso d'una voce: "sei santa solamente con il sangue."
Sognavi, e nel tuo sogno, tracotanza c'era, un volere esser solo tu, tu tutto l'alto, l'alto disponibile: tu non moristi quando la sua luce decompose la pelle e si nascose persa tra tutte l'ossa delle nubi, non chiudesti la porta della casa, né abbassasti tutte le sue palpebre, le sue finestre aperte ad ogni sguardo, trascelsi un occhio e ti mettesti al centro e d'una di esse tu fosti pupilla: cadde improvvisa pioggia, la sua cenere, pianse una pietra d'acqua le sue lacrime, tutto raggiunse il suolo e vi rimase. Ma, pure non essendovi salita per quel cadere in cui riconoscesti il tuo destino quasi ineluttabile, vedesti fino al punto in cui la fine portò al suo completarsi, un altro inizio: l'ossa recuperarono biancore, s'andarono spostando mano mano verso l'estremità, verso i suoi fianchi fino a finire libere, ma vive, fuori dal corpo che mostrò la luce, la sua pelle celeste. L'invidiasti, il paesaggio di serenità che fu riapparso, e semplice e arcano, non capisti i sorrisi degli umani a quel vedere ritrovato il cielo: tu l'invidiasti: tu fosti colpevole!
Aver sottratto spazio a un silenzio solo con la presenza del mio corpo, essere stato troppo - un'abbondanza - e gonfio, ridondante e invadente e mai sottile rapido fugace... ora che sono stato messo al mondo, l'ultima volta dato a una materia, l'ultima volta nato da una madre, saprò sparire e farmi solo spirito, io granello di cenere - una lacrima - cadrò dal mento al suolo del mio nulla!
E piange il vento, l'occhio che non vedo, la verticalità che è orizzontale, e lacrima la pietra decomposta, e poi ritorna al solito sentire: l'invisibilità: l'indifferenza!
Quanto macchia la luna di purezza, col centro circolare del suo essere, cuore verso la fine dei suoi battiti, sangue attenuato in tutti i suoi riflessi, quell'oscuro peccato ch'è la notte.
Se si spegnesse quest'ultima lampada, come una vasta aureola sui fogli, corpi distesi ad implorar supini di essere condotti alla salvezza: sarebbe tutto sola oscurità.
Sempre bambino, ritorno al celeste, alla sua chiesa – espresse il desiderio di dilatar le sue quattro pareti – furono spinte fino alla scomparsa: la religione è un'unica natura. Il sole reca l'alone d'un'eco, ch'è il biondo nello spazio del suo tempo, un'ostia non dimentica del grano. Io che mi muovo sono la sua mano, quella che m'è impossibile vedere, ed oltre Lei tutta la sua persona in quella veste, il parroco che m'offre l'ostia innalzata al centro dell'altare: la comunione con le labbra chiuse e le palpebre unite, l'una a toccare l'altra, come fossero giunte.
Solo il tramonto rivelò il suo lato carnale, cielo che morì e fu nero come una crosta dopo una ferita. Eppure quel comando d'obbedienza al mare, figlio sempre sottomesso, non accennò neppure a terminare quando fu spalancata la ferita che dal colore parve spirituale, pallore che donò l'abbronzatura, essa fu trasfusione, diede nuova linfa alla vita, al sonno. Come un cuore ch'innalzato dovunque era al suo centro la stessa pelle erano l'arterie, le stesse dita a tendere agli sguardi, volle arrivare a chi lo rifiutava.