Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Che stai?

Che stai? Già il secol l'orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
or meglio vivi, e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d'anni e rugoso in sembiante,

che stai? Breve è la vita, e lunga è l'arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama tentino almen libere carte.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    A Zacinto

    Né più mai toccherò le sacre sponde
    ove il mio corpo fanciulletto giacque,
    Zacinto mia, che te specchi nell'onde
    del greco mar da cui vergine nacque

    Venere, e fea quelle isole feconde
    col suo primo sorriso, onde non tacque
    le tue limpide nubi e le tue fronde
    l'inclito verso di colui che l'acque

    cantò fatali, ed il diverso esiglio
    per cui bello di fama e di sventura
    baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

    Tu non altro che il canto avrai del figlio,
    o materna mia terra; a noi prescrisse
    il fato illacrimata sepoltura.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Notturno nuziale

      Quando tu venisti, una notte, verso il suo letto, al buio,
      e le dicesti, piano, già sopra di lei: Non ti vedo, non ti sento.
      E la ghermisti con artiglio d'aquila, e tutta la costringesti nella tua forza
      riplasmandola in te con tal furore ch'ella perdette il senso d'esistere.
      E uno solo in due bocche fu il rantolo e misto fu il sangue e fu il ritmo perfetto,
      e dal balcone aperto la notte guardava con l'occhio d'una sola stella
      rossastra,
      e il sonno che seguì parve la morte, e immoti come cadaveri
      la tristezza dell'ombra vi vegliò sino all'alba.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Virgilio

        Come, quando sù campi arsi la pia
        Luna imminente il gelo estivo infonde,
        Mormora al bianco lume il rio tra via
        Riscintillando tra le brevi sponde;
        E il secreto usignuolo entro le fronde
        Empie il vasto seren di melodia,
        Ascolta il viatore ed a le bionde
        Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;
        Ed orba madre, che doleasi in vano,
        Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
        E in quel diffuso albor l'animo queta;
        Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
        Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
        Tale il tuo verso a me, divin poeta.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il bove

          T'amo pio bove; e mite un sentimento
          Di vigore e di pace al cor m'infondi,
          O che solenne come un monumento
          Tu guardi i campi liberi e fecondi,
          O che al giogo inchinandoti contento
          L'agil opra de l'uom grave secondi:
          Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
          Giro dè pazienti occhi rispondi.
          E del grave occhio glauco entro l'austera
          Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
          Il divino del pian silenzio verde.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Nel paese di mia madre

            Nel paese di mia madre v'è un campo quadrato, cinto di gelsi.
            Di là da quel campo altri campi quadrati, cinti di gelsi.
            Roggie scorrenti vi sono, fra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire.
            La terra s'allarga a misura del cielo, e non si sa dove vada a finire.

            Nel paese di mia madre v'han ponti di nebbia, che il vento solleva da placidi fiumi:
            varca il sogno quei ponti di nebbia, mentre le rive si stellan di lumi.
            Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan de l'acque il fluire:
            quando nè rami s'impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire.

            Nel paese di mia madre un basso tugurio sonnecchia sul limite della risaia,
            e ronzano mosche lucenti, ghiotte, intorno a un ammasso di concio.
            Possanza di morte, possanza di vita, nell'odore del concio: ne gode
            la terra dall'humus profondo, sotto la vampa d'agosto che immobile sta.

            Nel paese di mia madre, quando il tramonto s'insaguina obliquio sui prati,
            vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via:
            la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all'aie fiorite di lucciole,
            vecchia canzone di gente lombarda: "La Violetta la vaaa la vaaaa... "
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Sinfonia azzurra

              Venne in cerca di te
              nella calda notte, lungo le strade dai fanali azzurri.
              Tutte le strade, allora, la notte erano azzurre
              come le vie dei cieli,
              e il volto amato
              non si vedeva: si sentiva in cuore
              E ti trovò, o dolcezza, nell'ombra
              casta, velata d'un vapor di stelle.
              Fra quel tremolìo d'astri
              discesi in terra,
              in quell'azzurro di due firmamenti
              l'uno a specchio dell'altro, ella
              ella pure rispecchiò in te l'anima sua notturna.
              E ti seguì con passo di bambina
              senza sapere, senza vedere, tacita e fluida.
              E allor che il giorno apparve
              con fresco riso roseo su l'immenso turchino,
              non trovò più se stessa
              per ritornare.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Anniversario

                Non chiamarmi, non dirmi nulla
                Non tentare di farmi sorridere.
                Oggi io sono come la belva
                che si rintana per morire.

                Abbassa la lampada, copri il fuoco,
                che la stanza sia come una tomba.
                Lascia ch'io mi rannicchi nell'angolo
                con la testa sulle ginocchia.

                L'ore si spengano nel silenzio.
                Salga in torbide onde l'angoscia
                e m'affoghi: altro non chiedo
                che di perdere la conoscenza.

                Ma non è dato. Quel volto,
                quel riso l'ho sempre davanti.
                Giorno e notte il ricordo m'è uncino
                confitto nella carne viva.

                Forse morire io non potrò
                mai: condannata in eterno
                a vegliare il mio strazio in me,
                piangendo con occhi senza palpebre.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Giardini nascosti

                  Amo la libertà dè tuoi romiti
                  vicoli e delle tue piazze deserte,
                  rossa Pavia, città della mia pace.
                  Le fontanelle cantano ai crocicchi
                  con chioccolìo sommesso: alte le torri
                  sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore,
                  me l'avventano su verso le nubi.
                  Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s'intrecciano
                  a labirinto; ed ai muretti pendono
                  glicini e madreselve; e vi s'affacciano
                  alberi di gran fronda, dai giardini
                  nascosti. Viene da quel verde un fresco
                  pispigliare d'uccelli, una fragranza
                  di fiori e frutti, un senso di rifugio
                  inviolato, ove la vita ignara
                  sia di pianto e di morte. Assai più belli
                  i bei giardini, se nascosti: tutto
                  mi pare più bello, se lo vedo in sogno.
                  E a me basta passar lungo i muretti
                  caldi di sole; e perdermi nè tuoi
                  vicoli che serpeggian come bisce
                  fra verzure d'occulti orti da fiaba,
                  rossa Pavia, città della mia pace.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Fontana di luce

                    Nel marzo ebro di sole il grande arbusto
                    in mezzo al prato si coprì di gialli
                    fioretti: le novelle accese rame
                    salenti e ricadenti con superba
                    veemenza di getto dànno raggi
                    e barbagli a mirarle; e tu quasi odi
                    scroscio di fonte uscir da loro; e tutta
                    la Primavera da quell'aurea polla
                    ti si versa cantando entro le vene.
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