Poesie inserite da Silvana Stremiz

Questo utente ha inserito contributi anche in Frasi & Aforismi, in Indovinelli, in Frasi di Film, in Umorismo, in Racconti, in Leggi di Murphy, in Frasi per ogni occasione e in Proverbi.

Scritta da: Silvana Stremiz

Brindisi funebre

O tu, fatale emblema della nostra ventura!

Saluto di demenza e libagione oscura,
Certo non alla magica speranza del passaggio
Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato!
La tua apparizione ormai più non mi basta:
Poiché io stesso in luogo di porfido t'ho posto.
Il rito è per le mani d'estinguere la face
Contro le ferree porte del sepolcro che tace:
E mal s'ignora, eletto per questa nostra quieta
Festa di celebrare l'assenza del poeta,
Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero.
Eccetto che la gloria ardente del mestiere,
Fino all'ora comune e vile della cenere,
Pel vetro acceso d'una sera fiera di scendere,
Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!

Magnifico, totale e solitario, tale
Esalando vacilla il falso orgoglio umano.
Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo
La triste opacità di noi spettri futuri.
Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri
D'una lacrima il lucido orrore ho disprezzato,
Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato,
Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto,
Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta
Nell'eroe intangibile della postuma attesa.
Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa
Dal turbo di parole ch'egli non disse ancora,
Il nulla a questo Uomo abolito di allora:
"Memorie d'orizzonti, cos'è, o tu, la Terra? "
Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda,
Lo spazio ha per trastullo il grido: "Io non so! "

Il Maestro, col grave occhio, pacificò
Sui suoi passi dell'eden l'inquieta meraviglia
Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia
Il mistero d'un nome per il Giglio e la Rosa.
Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa?
Una oscura credenza, o voi tutti, v'ingombra.
Il genio luminoso eterno non ha ombra.
Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere
A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere
Ideale che sono i parchi di quest'astro
Restare per l'onore del tranquillo disastro
Una solenne, vasta agitazione in cielo
Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo,
Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d'aurora,
Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore,
Alza solo tra l'ora ed il raggio del giorno!

Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno,
Dove il poeta puro, col gesto largo e mite
Al sogno, del suo còmpito nemico, lo interdice;
Affinché nel mattino del suo riposo altero
Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero,
Quando l'antica morte è come per Gautier
Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé,
Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte,
E l'avaro silenzio e la pesante notte.
Vota la poesia: Commenta
    Scritta da: Silvana Stremiz

    Le Finestre

    Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro
    Che sale tra il biancore banale delle tende
    Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro,
    Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:

    Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento,
    Alle vetrate che un raggio chiaro indora,
    Meno per riscaldare il suo disfacimento
    Che per vedere il sole sopra le piere ancora.

    E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata,
    (Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro,
    Un corpo verginale e d'allora) ha lordato
    D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.

    Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto,
    L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema,
    E allorquando la sera sanguina sopra il tetto,
    Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,

    Vede galere d'oro, splendide come cigni,
    Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze,
    Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili,
    Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!

    Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura,
    Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli
    Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura
    Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,

    Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate
    Dove si volge il dorso alla vita e al destino,
    E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade,
    Che l'Infinito indora col suo casto mattino,

    Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno
    -Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza-
    A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno,
    Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.

    Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro
    Rifugio esso perviene talora a nausearmi,
    E la Stupidità, col suo vomito impuro,
    Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.

    Non tenteremo, o Me che sai amare pene,
    D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno,
    E di fuggire infine, mie ali senza penne,
    A volo con il rischio di cadere in eterno?
    Vota la poesia: Commenta
      Scritta da: Silvana Stremiz

      Angoscia

      Non vengo questa sera per il tuo corpo, o bestia
      Che i peccati d'un popolo accogli, né a scavare
      Nei tuoi capelli impuri una triste tempesta
      Sotto il tedio incurabile che versa il mio baciare:
      Chiedo al tuo letto il sonno pesante, senza sogni,
      Librato sotto il velo segreto dei rimorsi,
      E che tu puoi gustare dopo le tue menzogne
      Nere, tu che del nulla conosci più che i morti.
      Poi che il Vizio, rodendomi l'antica nobiltà,
      M'ha come te segnato di sua sterilità;
      Ma mentre nel tuo seno di pietra abita un cuore
      Che crimine o rimorso mai potrà divorare,
      Io pallido, disfatto, fuggo col mio sudario,
      Sgomento di morire se dormo solitario.
      Vota la poesia: Commenta
        Scritta da: Silvana Stremiz

        La Doppia Immagine

        A novembre compio trent'anni.
        Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
        Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
        turbinano nella pioggia d'inverno,
        cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
        i tre autunni che non hai passato qui.
        Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
        Ti dico quel che mai saprai davvero:
        le congetture mediche
        che spiegano il cervello non saranno mai reali
        quanto queste foglie abbattute.

        Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
        ti avevo dato un nomignolo
        appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
        poi una febbre t'è rantolata in gola
        ed io mi muovevo come una pantomima
        attorno al tuo capino.
        Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
        dicevano, era mia. Facevano gli spioni
        come streghe verdi versando nella testa la rovina
        come un rubinetto rotto;
        come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
        un vecchio debito che dovevo accollarmi.

        La morte era più semplice di quanto credessi.
        Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
        Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
        Ho finto d'esser morta
        finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
        m'hanno messo senza braccia e slavata
        nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
        Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
        Oggi le foglie gialle
        sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
        Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.

        Oggi, piccina mia, Gioia,
        ama il tuo essere dove adesso vive.
        Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
        allora perché t'ho fatto crescere altrove.
        Tu non riconoscevi la mia voce
        quando tornavo a casa a trovarti.
        Tutti i superlativi
        di alberi di Natale e vischi del futuro
        non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
        Nel tempo che non amai me stessa
        venni in visita a te su marciapiedi spalati,
        mi tenevi per un guanto.
        Dopo questo fu di nuovo neve.

        2.

        Mi hanno spedito lettere con tue notizie
        e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
        Quando cominciai a sopportarmi
        andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
        troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
        Non me ne sono andata.
        Ma un ritratto mi son fatto.

        Dal manicomio nel parziale ritorno
        venni alla casa di mia madre a Gloucester.
        Ed ecco come venni ad abbrancarla,
        ed ecco come venni a perderla.
        Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
        Non l'hai mai potuto.
        Ma un ritratto lei m'ha fatto.

        Ho vissuto da ospite rabbioso,
        parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
        Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
        Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
        Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
        Non mi pareva interessante.
        Ma un ritratto mi son fatto.

        C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
        là in bianchi armadi fummo inchiavati
        come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
        Mio padre passava col piattino per la questua.
        Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
        E non fui propriamente perdonata.
        Ma un ritratto m'hanno fatto.

        3.

        Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
        a pioggia sull'erba rivierasca.
        Parlavamo di siccità
        mentre il prato corroso dal salmastro
        nuovamente raddolciva.
        Per passare il tempo falciavo l'erba
        e la mattina mi facevo fare il ritratto,
        fissando il sorriso nella formalità.
        Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
        e una cartolina col Motif number one
        come se fosse normale
        essere madre ed essersene andata.

        Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
        del lato nord, che bene mi si addice,
        per farmi stare bene.
        Soltanto mia madre s'ammalò.
        Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
        come se la morte si riflettesse,
        come se il mio morire l'avesse corrosa.
        Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
        Il primo settembre mi guardò in faccia
        e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
        Le mozzarono le colline dolci
        e ancora non avevo la risposta.

        4.

        Quell'inverno lei tornò
        parziale ritorno
        alla sterile suite
        di medici, nauseante
        crociera di raggi X,
        l'aritmetica delle cellule impazzita.
        Parziale intervento,
        braccio grasso, prognosi infausta,
        li ho sentiti dire.

        Durante le burrasche marine
        lei si fece fare il ritratto.
        Caverna di uno specchio,
        appeso al lato sud;
        una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
        E tu mi assomigliavi sconosciuto
        viso mio, tu lo indossavi.
        Dopotutto eri mia.

        Ho svernato a Boston,
        sposa senza figli,
        niente di dolce da spartire,
        con le streghe a fianco.
        Ho perduto la tua infanzia,
        tentato un altro suicidio,
        subito il secondo hotel dei sigilli.
        M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
        Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.

        5.

        Per l'ultima volta m'hanno dimesso
        il primo maggio;
        laureata in casi mentali,
        con l'assenso dell'analista,
        un libro finito di versi,
        la macchina da scrivere e le borse.

        Quell'estate imparai a rimettere vita
        nelle mie sette stanze,
        andavo su barchette a cigno, al mercato,
        rispondevo al telefono,
        da brava moglie offrivo da bere,
        facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.

        E tu venivi ogni weekend. No, mento.
        Venivi di rado. Fingevo che c'eri
        bimba farfalla, porcellina
        guance di gelatina,
        tre anni di disobbedienza,
        ma splendida sconosciuta.

        E dovevo imparare
        perché volevo morire invece che amare,
        perché mi faceva male la tua innocenza,
        e perché accumulo le colpe
        come un giovane internista
        rivela i sintomi e la certa evidenza.

        Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
        le colline rosse mi ricordavano
        la pelliccia di volpe rossa sdrucita
        in cui giocavo da bambina,
        immobile come un orso, una tenda,
        una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.

        Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
        il baracchino dove vendono l'esca,
        Pigeon Cove, lo Yacht Club,
        Squall Hill, verso la casa in attesa
        ancora, la casa sul mare.
        E due ritratti sono appesi su opposte pareti.

        6.

        Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
        risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
        Mentre posavo lì cosa avevo sognato
        tutta me negli occhi in attesa,
        il giovane viso, la zona del sorriso,
        trappola per volpi.

        Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
        le guance vizze come orchidee appassite;
        mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
        mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
        quella testa di morte impietrita
        che avevo sopraffatto.

        L'artista ci fissò alla svolta;
        si sorrideva inquadrate nelle tele
        prima di scegliere strade da prima separate.
        La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
        Mi decompongo sulla parete
        come Dorian Grey.

        E questa fu caverna di uno specchio,
        una donna sdoppiata che si fissa
        come se il tempo l'avesse impietrita
        - due signore in terra d'ombra assise -
        Hai dato un bacio alla nonna,
        e lei ha pianto.

        7.

        Non potevo tenerti
        tranne il weekend. Ogni volta venivi
        stringendo il disegnino del coniglio
        che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
        disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
        La prima volta hai chiesto il mio nome.
        Ora rimani per sempre. Dimenticherò
        che sbalzavamo cozzandoci come marionette
        appese a fili. Non era l'amore
        ridursi al weekend.
        Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
        traballando sul marciapiede piangi e chiami.
        Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
        che altrove, nei dintorni di Boston, muore.

        Ricordo che ti chiamammo Gioia
        per poterti chiamare gioia.
        Arrivasti come un ospite imbarazzato
        allora, tutta fasciata umida meraviglia
        alla mia mammella pesante.
        Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
        solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
        da sempre amata, da sempre esuberante
        nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
        Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
        avevo bisogno di un'altra vita,
        di un'altra immagine per ricordarmi.
        E fu questa la mia più grave colpa;
        tu non potevi curarla o lenirla.
        Ti ho fatta per trovarmi.
        Vota la poesia: Commenta
          Scritta da: Silvana Stremiz

          Filo sottile

          La mia fede
          è un carico enorme
          appeso a un filo sottile,
          proprio come un ragno
          appende i suoi piccoli a una tela fine,
          proprio come dalla vite,
          esile e rigida,
          pendono grappoli
          come occhi,
          come molti angeli
          danzano su una capocchia di spillo.

          Dio non chiede troppo filo
          per restare qui;
          solo una venuzza
          e sangue che vi scorra
          e un po' d'amore.
          Come qualcuno ha detto:
          l'amore e la tosse
          non si possono nascondere.
          Neppure un colpetto di tosse
          neppure un amore minimo.
          Perciò se hai solo un filo sottile
          a Dio non importa:
          Lui te lo troverai tra le mani facilmente
          proprio come una volta con dieci centesimi
          ti potevi prendere una Coca.
          Vota la poesia: Commenta
            Scritta da: Silvana Stremiz

            Notte stellata

            La città non esiste
            se non dove un albero dai capelli
            neri scivola via, come una donna
            annegata nel cielo caldo. Tace,
            la città. Bolle la notte, con dieci
            e una stella. Oh notte stellata,
            stellata notte! È così che voglio
            morire.

            Si muove. Sono tutti quanti vivi.
            Quando la luna rompe le catene
            arancioni che la legano e spruzza
            bambini dai suoi occhi, come un dio,
            il vecchio serpente, senza esser visto
            divora le stelle. Oh stellata notte,
            notte stellata! È così che voglio
            morire:

            in questa strisciante bestia notturna,
            risucchiata tutta dentro nel grande
            drago, separata
            dalla mia vita senza una bandiera,
            senza pancia
            né grido.
            Vota la poesia: Commenta
              Scritta da: Silvana Stremiz

              Il Natale del 1833

              Sì che Tu sei terribile!
              Sì che in quei lini ascoso,
              In braccio a quella Vergine,
              Sovra quel sen pietoso,
              Come da sopra i turbini
              Regni, o Fanciul severo!
              E fato il tuo pensiero,
              È legge il tuo vagir.

              Vedi le nostre lagrime,
              Intendi i nostri gridi;
              Il voler nostro interroghi,
              E a tuo voler decidi.
              Mentre a stornar la folgore
              Trepido il prego ascende
              Sorda la folgor scende
              Dove tu vuoi ferir.

              Ma tu pur nasci a piangere,
              Ma da quel cor ferito
              Sorgerà pure un gemito,
              Un prego inesaudito:
              E questa tua fra gli uomini
              Unicamente amata,
              Nel guardo tuo beata,
              Ebra del tuo respir,

              Vezzi or ti fa; ti supplica
              Suo pargolo, suo Dio,
              Ti stringe al cor, che attonito
              Va ripetendo: è mio!
              Un dì con altro palpito,
              Un dì con altra fronte,
              Ti seguirà sul monte.
              E ti vedrà morir.

              Onnipotente….
              Vota la poesia: Commenta
                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il Natale

                Qual masso che dal vertice
                Di lunga erta montana,
                Abbandonato all'impeto
                Di rumorosa frana,
                Per lo scheggiato calle
                Precipitando a valle,
                Batte sul fondo e sta;
                Là dove cadde, immobile
                Giace in sua lenta mole;
                Né, per mutar di secoli,
                Fia che riveda il sole
                Della sua cima antica,
                Se una virtude amica
                In alto nol trarrà:
                Tal si giaceva il misero
                Figliol del fallo primo,
                Dal dì che un'ineffabile
                Ira promessa all'imo
                D'ogni malor gravollo,
                Donde il superbo collo
                Più non potea levar.
                Qual mai tra i nati all'odio
                Quale era mai persona
                Che al Santo inaccessibile
                Potesse dir: perdona?
                Far novo patto eterno?
                Al vincitore inferno
                La preda sua strappar?
                Ecco ci è nato un Pargolo,
                Ci fu largito un Figlio:
                Le avverse forze tremano
                Al mover del suo ciglio:
                All'uom la mano Ei porge,
                Che si ravviva, e sorge
                Oltre l'antico onor.
                Dalle magioni eteree
                Sgorga una fonte, e scende
                E nel borron dè triboli
                Vivida si distende:
                Stillano mele i tronchi;
                Dove copriano i bronchi,
                Ivi germoglia il fior.
                O Figlio, o Tu cui genera
                L'Eterno, eterno seco;
                Qual ti può dir dè secoli:
                Tu cominciasti meco?
                Tu sei: del vasto empiro
                Non ti comprende il giro:
                La tua parola il fè.
                E Tu degnasti assumere
                Questa creata argilla?
                Qual merto suo, qual grazia
                A tanto onor sortilla?
                Se in suo consiglio ascoso
                Vince il perdon, pietoso
                Immensamente Egli è.
                Oggi Egli è nato: ad Efrata,
                Vaticinato ostello,
                Ascese un'alma Vergine,
                La gloria d'Israello,
                Grave di tal portato:
                Da cui promise è nato,
                Donde era atteso uscì.
                La mira Madre in poveri.
                Panni il Figliol compose,
                E nell'umil presepio
                Soavemente il pose;
                E l'adorò: beata!
                Innanzi al Dio prostrata
                Che il puro sen le aprì.
                L'Angel del cielo, agli uomini
                Nunzio di tanta sorte,
                Non dè potenti volgesi
                Alle vegliate porte;
                Ma tra i pastor devoti,
                Al duro mondo ignoti,
                Subito in luce appar.
                E intorno a lui per l'ampia
                Notte calati a stuolo,
                Mille celesti strinsero
                Il fiammeggiante volo;
                E accesi in dolce zelo,
                Come si canta in cielo,
                A Dio gloria cantar.
                L'allegro inno seguirono,
                Tornando al firmamento:
                Tra le varcate nuvole
                Allontanossi, e lento
                Il suon sacrato ascese,
                Fin che più nulla intese
                La compagnia fedel.
                Senza indugiar, cercarono
                L'albergo poveretto
                Què fortunati, e videro,
                Siccome a lor fu detto,
                Videro in panni avvolto,
                In un presepe accolto,
                Vagire il Re del Ciel.
                Dormi, o Fanciul; non piangere;
                Dormi, o Fanciul celeste:
                Sovra il tuo capo stridere
                Non osin le tempeste,
                Use sull'empia terra,
                Come cavalli in guerra,
                Correr davanti a Te.
                Dormi, o Celeste: i popoli
                Chi nato sia non sanno;
                Ma il dì verrà che nobile
                Retaggio tuo saranno;
                Che in quell'umil riposo,
                Che nella polve ascoso,
                Conosceranno il Re.
                Vota la poesia: Commenta
                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Il Cinque Maggio

                  Ei fu. Siccome immobile,
                  dato il mortal sospiro,
                  stette la spoglia immemore
                  orba di tanto spiro,
                  così percossa, attonita
                  la terra al nunzio sta,
                  muta pensando all'ultima
                  ora dell'uom fatale;
                  né sa quando una simile
                  orma di piè mortale
                  la sua cruenta polvere
                  a calpestar verrà.
                  Lui folgorante in solio
                  vide il mio genio e tacque;
                  quando, con vece assidua,
                  cadde, risorse e giacque,
                  di mille voci al sònito
                  mista la sua non ha:
                  vergin di servo encomio
                  e di codardo oltraggio,
                  sorge or commosso al sùbito
                  sparir di tanto raggio;
                  e scioglie all'urna un cantico
                  che forse non morrà.
                  Dall'Alpi alle Piramidi,
                  dal Manzanarre al Reno,
                  di quel securo il fulmine
                  tenea dietro al baleno;
                  scoppiò da Scilla al Tanai,
                  dall'uno all'altro mar.
                  Fu vera gloria? Ai posteri
                  l'ardua sentenza: nui
                  chiniam la fronte al Massimo
                  Fattor, che volle in lui
                  del creator suo spirito
                  più vasta orma stampar.
                  La procellosa e trepida
                  gioia d'un gran disegno,
                  l'ansia d'un cor che indocile
                  serve, pensando al regno;
                  e il giunge, e tiene un premio
                  ch'era follia sperar;
                  tutto ei provò: la gloria
                  maggior dopo il periglio,
                  la fuga e la vittoria,
                  la reggia e il tristo esiglio;
                  due volte nella polvere,
                  due volte sull'altar.
                  Ei si nomò: due secoli,
                  l'un contro l'altro armato,
                  sommessi a lui si volsero,
                  come aspettando il fato;
                  ei fè silenzio, ed arbitro
                  s'assise in mezzo a lor.
                  E sparve, e i dì nell'ozio
                  chiuse in sì breve sponda,
                  segno d'immensa invidia
                  e di pietà profonda,
                  d'inestinguibil odio
                  e d'indomato amor.
                  Come sul capo al naufrago
                  l'onda s'avvolve e pesa,
                  l'onda su cui del misero,
                  alta pur dianzi e tesa,
                  scorrea la vista a scernere
                  prode remote invan;
                  tal su quell'alma il cumulo
                  delle memorie scese.
                  Oh quante volte ai posteri
                  narrar se stesso imprese,
                  e sull'eterne pagine
                  cadde la stanca man!
                  Oh quante volte, al tacito
                  morir d'un giorno inerte,
                  chinati i rai fulminei,
                  le braccia al sen conserte,
                  stette, e dei dì che furono
                  l'assalse il sovvenir!
                  E ripensò le mobili
                  tende, e i percossi valli,
                  e il lampo dè manipoli,
                  e l'onda dei cavalli,
                  e il concitato imperio
                  e il celere ubbidir.
                  Ahi! Forse a tanto strazio
                  cadde lo spirto anelo,
                  e disperò; ma valida
                  venne una man dal cielo,
                  e in più spirabil aere
                  pietosa il trasportò;
                  e l'avviò, pei floridi
                  sentier della speranza,
                  ai campi eterni, al premio
                  che i desideri avanza,
                  dov'è silenzio e tenebre
                  la gloria che passò.
                  Bella Immortal! Benefica
                  Fede ai trionfi avvezza!
                  Scrivi ancor questo, allegrati;
                  ché più superba altezza
                  al disonor del Gòlgota
                  giammai non si chinò.
                  Tu dalle stanche ceneri
                  sperdi ogni ria parola:
                  il Dio che atterra e suscita,
                  che affanna e che consola,
                  sulla deserta coltrice
                  accanto a lui posò.
                  Vota la poesia: Commenta
                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Alla Musa

                    Pur tu copia versavi alma di canto
                    su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
                    quando dè miei fiorenti anni fuggiva
                    la stagion prima, e dietro erale intanto

                    questa, che meco per la via del pianto
                    scende di Lete ver la muta riva:
                    non udito or t'invoco; ohimè! Soltanto
                    una favilla del tuo spirto è viva.

                    E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
                    o Dea! Tu pur mi lasci alle pensose
                    membranze, e del futuro al timor cieco.

                    Però mi accorgo, e mel ridice amore,
                    che mal ponno sfogar rade, operose
                    rime il dolor che deve albergar meco.
                    Vota la poesia: Commenta