Poesie di Nicola Di Candia

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Scritta da: Andrea De Candia
"Solo le luci nere sono anima,
un'interiorità che è dentro un corpo!"
Disse una voce che era il mio silenzio.
E sempre col silenzio le risposi
che c'è la Notte: "è anch'essa luce nera,
però, ecco, è esterna." E con lo sguardo
poco rassicurante come a dirmi
che dovevo tacere, così feci,
ché non avevo capito un bel nulla:
"anche la Notte è stare dentro un corpo,
che è sconosciuto, ma è come un amante
che dorme e sa che l'altro veglia altrove,
dove?" Laddove c'è la luce bionda.
Nicola Di Candia
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    Scritta da: Andrea De Candia

    Uccelli e pesci

    I
    Nuotare sotto la sua superficie
    con l’onde delle nuvole che vanno,
    - da sempre spuma - verso chissà dove,
    verso nessuna riva, verso Assenza,
    un non voler oltrepassare ciò
    che si dice vietato, un non volere
    dar adito a curiosità. Chi osa
    - un’eccezione in una moltitudine -
    trova la morte presso il Pescatore
    ch’ha gettato le sue canne di luce
    in ogni lago d’aria sottostante.

    II
    Il balzo un po’ più alto. Solamente
    questo distingue tutti noi da voi,
    pesci resi degli uomini al visibile
    manifestarsi, umani resi pesci
    dal nuotare al disotto di un oceano.
    Il divieto è lo stesso: non andare
    al di sopra di me: lo dice il Cielo,
    dicono, è come se dicesse Dio.

    III
    La morte è il solo rogo a cui si tende,
    la morte, dico morte, ma dovrei
    dire suicidio, uscire dalle acque
    d’un cielo sotterraneo, un incontrare
    a viso aperto, l’Inferno di luce
    che dia il Paradiso della grazia
    al pesce eletto che va via dal mondo.

    IV
    Questo è l’Inferno azzurro in cui ho vissuto,
    la luce v’arrivava come un occhio,
    lo sguardo che sapeva penetrare
    era debole, presto si spegneva,
    i raggi erano ciglia limitate,
    l’azzurro in una corsa verticale
    non accennava a smettere di essere
    sempre più un buio, andando negli abissi,
    come una bocca che ci divorava
    trascinandoci giù. Ma venne il giorno
    in cui capii di essere un eletto
    dalla morte che feci e che mi scelse
    il Dio che mi limito a chiamare
    Destino. Fu un Satana di Luce
    il pescatore che mi provocò
    con le sue esche, mi spinse ad uscire,
    catturato da una delle sue canne,
    fu un Inferno celeste che io volli
    raggiungere, tenere finalmente
    nel mio presente, vivo per un po’.
    Ma fu la Morte, questa morte fu
    un’eccezione che mi rese eletto.

    V
    Nel giorno era il Nostro Paradiso
    il buio ch’ormai aveva abbandonato
    l’azzurro della superficie bionda.
    Bionda come la luce che emanava
    nei suoi riflessi, un Satana dell’alto,
    la rendeva un calore soffocante:
    un contrappasso che era un’asfissia.

    VI
    Vidi un compagno andare,
    voler osare i limiti, sfidare
    i divieti concreti
    ch’erano superficie
    dove finiva l’azzurra sostanza
    che ci rendeva vivi. Inconsapevoli
    di essere degli angeli, fu quello
    l’unico pesce conscio e stufo d’esserlo
    e che scelse l’Inferno dell’esterno,
    come l’Ulisse le colonne d’Ercole,
    senza più ritornare. Vide luce
    riflettersi, ingannarlo. Non sapeva,
    non poteva saperlo in quel momento,
    mentre il divino Pescatore in alto
    era felice d’aver catturato
    la sua ultima preda: fu una morte
    l’ennesima a essere eccezione!
    Nicola Di Candia
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      Scritta da: Andrea De Candia
      Come Cristo agli inizi
      d'una Resurrezione inconsapevole
      quel finalmente tendere
      all'abbandono dello star supino
      sul letto oscuro della propria bara
      ch'al giorno ingiovanito si fa bianco
      grazie alla luce che si compromette
      - Lei, scesa da un possente trono, bionda! -
      è la lacrima uscita a sollevarsi
      sul viso del mio mondo sconosciuto.
      Nicola Di Candia
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        Scritta da: Andrea De Candia
        I
        Io falegname d’acqua, le mie lacrime
        sono le croci che vorrei piantare
        al Golgota dei sogni, ché finisca
        questo Calvario, inutile vagare
        col passo dello sguardo che non poggia
        a nessun suolo terreo - e vi permanga! -,
        ma tocca appena solo l’altra palpebra,
        come la terra quando cadde Cristo
        sentì la trafittura delle spine
        di ciglia penetranti farsi estranee…
        Io vinco ché rimane un’utopia!

        II
        No, non avere ciglia, avere spine,
        sentirle solo quando nel contatto
        s’incontrano le palpebre, i Romani
        che poggiano sull’altro capo (Cristo!)
        la corona, e vi sgocciola del sangue,
        ma rimane martirio, anche se l’anima
        vuole apparire pura con le lacrime
        che porta nel suo tempo a suoli d’aria!
        Nicola Di Candia
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          Scritta da: Andrea De Candia

          Luna

          Questo sorriso atroce senza labbra,
          queste affilate fauci, denti a sciabola
          dei quali non s'avverte distinzione,
          questo sorriso con un solo dente
          ch'ha poco del sorriso, anzi nulla.
          È un invito a colpire casualmente,
          la palpebra abbassata della notte
          e tutte le sue ciglia a ogni passo,
          perché si svegli e gridi nel silenzio
          l'occhio solare resosi ormai nudo.
          Nicola Di Candia
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            Scritta da: Andrea De Candia
            L'ultimo fianco d'osso sopravvisse
            al buio della carne che era cenere,
            a questa sparizione che volgeva
            inesorabilmente alla sua fine.
            E aveva l'aspetto d'una lama
            e mi invitava a prenderla con mano
            tremante nello sguardo, perché fosse
            fatta vendetta. Ma il respiro buio,
            il bianco della notte era tutt'anima,
            e questo nero che era dominante
            era solo ingannevole parvenza:
            dovunque avessi scelto di colpire,
            o perlomeno di iniziare a farlo,
            sapevo già che il sangue non sarebbe
            mai fuoriuscito in tutti quegli istanti.
            Nicola Di Candia
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              Scritta da: Andrea De Candia
              Il raggio fu una spina
              inviata da Dio
              sul corpo d'un celeste
              santo ch'al centro altissimo del capo
              aveva già un'aureola da vivo.
              E le ferite fatte sanguinare,
              le garze delle nubi allontanate,
              un riversar l'amore al proprio esterno
              nel modo più concreto. Il declinante
              sole notturno fu il suo risalire
              alla causa del suo dolore fisico
              e strapparlo dal suo corpo di luce.
              E la notte fu viverlo in segreto
              con l'urlo della nuca reclinato
              fin quasi a esser prono sul suo mare,
              un baciare la crosta della notte
              in ogni punto dove era ferita.
              Nicola Di Candia
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                Scritta da: Andrea De Candia
                Non v'era luce ch'io più tollerassi
                nella carne del buio che era cenere,
                un cuore d'osso al centro era già spento,
                e un'ostia offerta ai cani della chiesa
                che costruivo passo dopo passo
                in camminate insonni per la strada.
                Era una nuca, un volto, forse un cranio
                che era ormai reso calvo, i suoi capelli,
                il ricordo del sogno da afferrare
                quando nel mare oscuro d'ogni sonno
                il corpo era la superficie mossa,
                era il tuorlo bevuto dalle labbra
                d'un bicchiere marino fino in fondo,
                quell'illusione di recuperarlo,
                vedere un guscio che non ha più luce,
                un albume indurito nel suo bianco
                come una pietra che non sa più sciogliersi
                in un pianto commosso nell'andare...
                Erano i turbamenti al mio vedere
                la Luna come orfana del Sole,
                come vedova e priva del fratello,
                ma anche al veder che voleva afferrarlo
                senza l'approvazione del mio (d)io
                dall'Inferno ove era precipitato,
                come a dire che un altro Orfeo non può
                esistere prima del suo secondo
                ed esistere dopo quel suo primo.
                Nicola Di Candia
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