Non v'era luce ch'io più tollerassi nella carne del buio che era cenere, un cuore d'osso al centro era già spento, e un'ostia offerta ai cani della chiesa che costruivo passo dopo passo in camminate insonni per la strada. Era una nuca, un volto, forse un cranio che era ormai reso calvo, i suoi capelli, il ricordo del sogno da afferrare quando nel mare oscuro d'ogni sonno il corpo era la superficie mossa, era il tuorlo bevuto dalle labbra d'un bicchiere marino fino in fondo, quell'illusione di recuperarlo, vedere un guscio che non ha più luce, un albume indurito nel suo bianco come una pietra che non sa più sciogliersi in un pianto commosso nell'andare... Erano i turbamenti al mio vedere la Luna come orfana del Sole, come vedova e priva del fratello, ma anche al veder che voleva afferrarlo senza l'approvazione del mio (d)io dall'Inferno ove era precipitato, come a dire che un altro Orfeo non può esistere prima del suo secondo ed esistere dopo quel suo primo.
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